Il verbo citato nel titolo significa
generalmente ‘indicare, mostrare, insegnare, istruire’ ed è un derivato del
lat. sign-are ‘segnare, contrassegnare, indicare,
esprimere’, dal lat. sign-u(m) ‘segno, impronta, marchio, insegna, statua, ecc.’, con il
prefisso in-. Il significato
originario di sign-u(m) era
propriamente ‘intaglio’ da una forma antica *sec-ĕre, class. sec-are ‘tagliare, segare, intagliare, scolpire’. Da notare anche
l’abr. sénghë[1] ‘segno, incisione’ che, come vediamo,
ha mantenuto chiaramente anche il significato di ‘intaglio’. Il passaggio del nesso –ns- ad –nz- nell’originario *in-sign-are diventato *in-zign-are
e poi ‘nzëngà non si è
verificato l’altro ieri essendo dovuto nientemeno che all’influsso delle lingue
del sostrato osco-umbro (che avevano già questa caratteristica), influsso
esercitatosi quindi non appena il latino arrivò dalle nostre parti (circa il III
- II sec. a.C.). Per lo stesso motivo, ad esempio, l’it. pensare
diventa, nel nostro dialetto, pënz-à. Anche la forma abr. sénghë
’segno, incisione’ ha un
antecedente già nel seinq (col probabile valore di ‘statua’ o ‘ex voto’ dedicato alla dea
Vittoria) di una iscrizione latina proveniente da Trasacco-Aq, della fine del
III sec. a.C.[2]
Da notare, passando dalla base latina al
dialetto, l’esito gn > ng, cioè una vera e propria metatesi delle
due consonanti. Un altro esito di lat. sign-are è il dial. sënà (presente in molti dialetti abruzzesi)
‘incrinare, lesionare’: a Luco dei Marsi, accanto a sënà ‘segnare, incrinare’,
ricorre l’interessante variante sinà che
assume, oltre al significato di ‘lesionare’, anche quello di ‘curare (con pratiche e formule
rituali, come particolari segni
magici fatti sulla parte malata)’[3]. Sicuramente qui si è realizzato l’incrocio
tra questo sën-à e l’it. san-are, come sospetta anche il Proia, autore del libro citato nel n. 3. Ma
il bello è che ad Aielli-Aq e altrove la forma sanà significava anche
‘incrinare, lesionare’, accanto alla forma più diffusa sënà ‘incrinare’. Tanto è
vero che nel nostro paese ricorreva anche la voce san-ìcë ‘cicatrice’, la quale sembra tenere contemporaneamente dei due
significati contrastanti, cioè del taglio
e della sua guarigione. Infatti a
Trasacco-Aq il verbo sanà vale sia ‘sanare, guarire,
accomodare’ sia ‘castrare (gli animali)’.
Ad Aielli-Aq viveva ancora, nell’espressione cristallizzata mmàlë signe!
(cattivo segno!), la forma arcaica di ségnë, la quale, buon’ultima, ci
viene direttamente dall’italiano ségno.
Ma la forma sanà ‘incrinare,
lesionare, castrare’ è proprio certo che
sia dovuta alla confusione suddetta? No, perché potrebbe derivare, anche se
solo in via ipotetica, da una antichissima radice *sac-, *sagn-, variante di lat. sec-are ‘tagliare, segare’, e ricavabile lat. sac-en-a(m) ’ascia’, variante a sua volta di lat. sc-en-a(m) ‘ascia’, in cui si è avuta la sincope della vocale –a- nel nesso s(a)c-. Quindi essa potrebbe anche essere un
derivato di un probabile precedente lat. *sa(g)n-are ’tagliare’, non attestato perché magari caduto dall’uso. Occhio alla penna! Effettivamente molti potrebbero
essere gli incroci avvenuti nell’arco amplissimo della vita di un termine, il
problema è talora decidere quale sia quello giusto.
Un altro derivato della radice in questione è la forma sinë
‘segno, linea’[4] (Luco
dei Marsi-Aq. e altrove) con la caduta della velare –g- di lat. sign-u(m)
’segno’ ; a Cerchio-Aq la voce ha assunto il significato di ‘sporcizia
(intorno ai polsi di camicie ed altri indumenti)’[5],
cioè quello di macchia , concetto ben
evidente nella espressione latina (Ovidio) cruor
signaverat herbam ‘il sangue aveva
macchiato l’erba’. A Trasacco-Aq.
esistono due forme, una maschile sinë ‘linea , traccia, incrinatura’
e l’altra femminile séna ‘linea, confine, traccia’[6].
Anche queste forme hanno antecedenti nella lontana antichità, come mostra
un’epigrafe in una tavoletta bronzea trovata nel lago di Fucino, dove appare un
seino=
lat. sign-um ‘statua, ex voto’[7].
Si può quindi affermare, senza tema di essere smentiti, che per quanto riguarda
queste parole i giochi di differenziazione semantica e di variazione formale
erano stati fatti già intorno al III-II sec. a.C.
Da quanto detto sopra si può concludere, allora, che molte sono le
correnti linguistiche che hanno attraversato la storia di un vocabolo e di un
dialetto, anche di una piccola comunità, e che pertanto è vano credere che la propria
parlata sia qualcosa di unico nel contesto di tante altre. L’unicità, è vero,
può essere anche giustificata dai particolari valori assunti da alcuni termini
e dalla peculiare pronuncia e calata, diversa
da dialetto a dialetto, ma, come per il concetto di “razza”, ormai
definitivamente tramontato, non si può assolutamente pensare che la propria
parlata sia un prodotto limpido e incontaminato dei lontani antenati, pervenutoci
senza ombra di impurità. E’ questa
un’idea falsa e irreale. Viva i dialetti!
[1] Cfr. D.
Bielli, Vocabolario abruzzese,
A.Polla editore, Cerchio-Aq, 2004..
[2] Cfr. C.
Letta- S. D’Amato, Epigrafia della
regione dei Marsi, Edit. Cisalpino-Goliardica, Milano, 1975, pp.193 e s..
[3] Cfr. G.
Proia, La parlata di Luco dei Marsi,
Grafiche Cellini, Avezzano-Aq, 2006.
[4] Cfr. G.
Proia, cit.
[5] Cfr. F.
Amiconi, Quaderni del museo civico di
Cerchio-AQ, Sito internet www. Comunedicerchio. It
[6] Cfr.
Q.Lucarelli, Biabbà, Grafiche Di
Censo, Avezzano-Aq, 2003.
[7] Cfr. C.
Letta-S. D’Amato, cit. pag. 321e s.
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