martedì 26 novembre 2019

L‘aiellese-abruzzese "capës-dòzië"




   Sono pochi, e di una certa età, quelli che nel mio paese di Aielli-Aq conoscono il significato della parola in epigrafe che è ‘capo, caporione’, usata, come ben ricordo, ad indicare il capo di una combriccola, magari di ragazzi, che hanno commesso qualche marachella o atto non proprio lodevole nei riguardi di una persona o di tutta la comunità. 

  Ora a me pare che il primo elemento del termine capës-  non debba essere altro che il supposto lat. volgare o medievale *capus, oris ‘capo, testa, comandante’ il quale sarebbe alla base di it. capor-ale e sarebbe una variante di classico cap-ut, -itis ‘capo, testa, persona, comandante, ecc.’. E fin qui tutto mi sembra scorrere accettabilmente. Le difficoltà si affollano intorno al secondo elemento –dòzië.  A mio parere in questo caso siamo di fronte ad un termine composto tautologico, come ne abbiamo incontrati tanti nei miei articoli. La seconda componente –dozië deve quindi avere lo stesso significato di ‘capo’. 

   Il termine ricorre anche a Luco dei Marsi col significato di ‘caporione’ e anche, spregiativo[1], di ‘capo scarico’. Ora, siccome l’espressione italiana capo scarico non mi pare del tutto negativa equivalendo a quella di capo ameno riferita ad un a persona ‘allegra, un po’ bizzarra e mattachiona’ ma in fondo ‘simpatica’,  credo che il Proia, autore del libro citato, intendesse indicare una persona poco assennata, sconsiderata, come può essere talora un caporione  che sobilla il popolo.  Ma a San Demetrio nei Vestini-Aq. la parola, scritta capes-dòzie,  indica un ‘capo’ senza nessuna  sfumatura negativa, anzi, l’opposto, visto che quel termine accompagna anche il nome del protettore San Demetrio, capes-dozie ‘capo’ di tutto il paese[2].  Ad Avezzano-Aq. il suo significato è quello di ‘comandante’[3]. 

    Io non ho mai incontrato nei dialetti abruzzesi una voce dozië, dozë, duzië, duzë, ecc. che significasse qualcosa come ‘capo’.  Si incontra certamente la voce duce riferita però solo al capo del fascismo, troppo recente per essere presa in considerazione per il nostro problema; si trova anche il termine storico it. duca che è voce tratta dal greco bizantino doύka, accusativo di doύks, preso a sua volta dal lat. duc-e(m) ’duce, guida’ o direttamente dal nominativo lat. dux ‘duce, guida’.  Credo anche che sia da scartare la voce veneziana e genovese dòge (con la –ò- aperta) ‘capo supremo della repubblica’, che oltre tutto pare sia una correzione toscana dell’originario veneziano dόse o dόze (con le due –ό- chiuse e con pronuncia fricativa sonora della –z-).  Nel nostro –dòzië si ha una pronuncia affricata dentale sorda della –z-, equivalente a un –ts-.

    Tagliando la testa al toro, io credo che la radice di questo –dozië sia da ricercare tra le diverse varianti della radice della voce familiare tetta ‘mammella, capezzolo’ diffusa quasi dappertutto in Europa comprese le lingue germaniche.  La radice, quindi, a mio parere dovrebbe indicare, nel fondo, un rilievo, una protuberanza,  sia essa piccola o grande. In  inglese si ha tit ‘mammella, poppa’, teat ‘capezzolo’; in tedesco Zitze  ‘capezzolo’[4]; in greco si ha titth-όs ‘poppa, petto materno’; in spagn. teta ‘mammella, poppa’; in francese tét-on’mammella, tetta’, e anche tét-in ‘capezzolo’.  In latino doveva evidentemente esistere una parola  simile, vista la presenza della radice in tutte le lingue romanze.  Difatti si cita una forma  *titt-a(m) ‘tetta’ che io scrivo con l’asterisco non avendola trovata nei miei vocabolari. Qualcuno indica anche una variante *titi-a(m) ‘tetta’[5].  Non so se queste forme siano attestate da qualche parte, ma è molto probabile che esistessero, sia pure in un latino parlato, popolare.

   In inglese si ha anche il termine dot ‘punto, puntino’ che è messo in relazione con la radice dei citati tit ‘mammella’ e ‘capezzolo’. In antico inglese dott indicava la ‘testa, punta  di un foruncolo’ e nell’antico alto tedesco tuta valeva appunto ‘capezzolo’.  Che questi nomi potessero indicare, oltre alla mammella e al capezzolo, anche  punte, cime, alture  ci è garantito  dall’island. tūta ‘acuta sporgenza’ e dall’altra forma zinna presente nei dialetti abruzzesi, laziali e umbri col valore di ‘mammella, seno’ e nel dialetto corso, con la forma zénna ‘estremità, punta’[6].  La parola si fa derivare dal longobardo zinna ‘merlo, prominenza, sporgenza’ ed è presente anche  nel tedesco Zinne ‘merlo, picco, cima’ che confronta con l’ingl. tine  ‘punta di forca o forchetta’. Una curiosità: a mio parere anche il monte Tino, altrimenti noto come la Serra di Celano-Aq, appartiene a questa radice.  Anche un capezzolo si può trasformare in cima, punta come nello spagnolo cabez-uelo ‘cima di una collina’[7], diminutivo di spagn. cabeza ‘testa’.  Il monte Pizzo Deta che con i suoi 2041 m. svetta sui monti Ernici, al confine tra la valle Roveto (Marsica) e il Lazio meridionale, a mio avviso non fa altro che ripetere, con Pizzo, lo stesso significato preistorico di Deta, cioè ‘pizzo, punta, protuberanza’. Naturalmente si crede popolarmente che il nome indichi le   di una mano, chiamate in dialetto deta < lat. digit-u(m): con la  normale caduta della gutturale –g- si è avuto al singolare  ditë, in it. dito, e   al pl., corrispondente all’italiano pl. irregolare dita. Ma la sagoma triangolare e appuntita del monte, visto da una certa distanza, narra tutt’altra storia.

   Senza farla troppo lunga, io credo che la seconda componente di capës-dozië ripeta tautologicamente il significato di ‘capo’ della prima componente, e che essa sia il derivato di una forma volgare latina*dot-em oppure *doti-um con i significati di punta, capo (anche con valore metaforico di ‘comandante’) ma scomparsa nell’uso isolato non tautologico . Essa è presente anche nel lat. sacer-dot-e(m) ‘sacerdote’ nel significato di ‘capo’ in ambedue le componenti, o anche nel significato di ‘capo, padre santo’.  Non condivido l’etimo solito con cui si spiega il termine più o meno come ‘colui che effettua i sacrifici’ quindi ‘ministro addetto ai sacrifici’, attraverso la radice verbale indoeuropea /dhe/  col significato di ‘porre’ o ‘fare’.  

   In ultimo vorrei citare il lat. tut-ul-u(m)  ‘berretto a forma di cono’ e ‘acconciatura dei capelli a forma di cono’ da confrontare con it. tut-olo, il torso a punta della pannocchia di granturco.  E così trova pace, almeno spero, anche l’etimo del lat. tit-ul-u(m )il quale, come il lat. capit-ul-u(m) ‘piccola testa, capitolo, titolo’,  indica qualcosa che ha a che fare con la testa, il capo, la punta, la sommità.

    In alcuni paesi si incontra anche la forma capataz ‘capo’ e simili. In questo caso credo si si avuta la sovrapposizione dello spagnolo capataz ‘capo’ su un originario capes-dozie.




[1] Così si esprime G. Proia, autore del libro La parlata di Luco dei Marsi,, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq 2006.

[3] Cfr. Buzzelli-Pitoni, Vocabolario del dialetto avezzanese,, (senza indic. dell’editore), 2002.

[4] Cfr. veneto zizza ‘mammella’; abruzz. zìzzë  e  zézzë ‘mammella, poppa’, diverso da aiellese-abruzz. sésa  ‘mammella’ , abruzz. sìsë  ‘mammella’, aiellese masch. sìsë ‘capezzolo’, da connettere col serbo-croato sisa ’mammella’.

[6] Cfr, Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET Torino 1998, s.v. zinna,

[7] Cfr. il vocab. etimologico di O. Pianigiani in rete, s.v. capezzolo.

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