Quando nella mia ricerca (divenuta ormai compulsiva e quindi indice
anche di una nevrosi psicopatologica) incontro una voce dialettale, negletta da
tutti i linguisti, e vivente magari di stenti nello stesso paese d’origine,
sento che dentro di me qualcosa si agita più che mai, come dinanzi ad una
povera donna sconosciuta che passa per strada e gli altri disprezzano o
semplicemente ignorano, perché malvestita, triste e silenziosa. Dietro quel silenzio totale io scorgo
un’anima in pena che suscita automaticamente in me un moto di forte simpatia e
finanche d’amore. Povera donna, così trascurata da tutti, che
nessuno chiama per nome, lontana dai suoi e dalle sue origini che potevano
essere anche grandiose! Quanta saggezza è racchiusa in quel silenzio, la
saggezza di una che dall’alto della sua età conosce le miserie, non tanto sue
proprie, quanto dell’umanità tutta che moralmente non migliora mai di un ette,
a partire dai suoi tempi d’origine lontanissimi; umanità tutta immersa nelle
apparenze del presente il quale, per definizione, nega il passato che pure,
dietro ad esso, ha raggiunto dimensioni enormi e lo pedina col fiato sul collo
ad ogni istante che passa. Al
massimo essa si proietta distrattamente in un futuro dalle dimensioni incerte
(un grosso meteorite potrebbe abbattersi improvvisamente sulla Terra
distruggendo gran parte della vita, come è successo in passato!), che immagina
come il luogo in cui i suoi desideri diverranno una realtà. Se ci pensiamo, in effetti è solo il passato
a dominare concretamente la scena del mondo, visto che il presente muore subito
nel momento stesso che lo pronunciamo, e il futuro è più una forma astratta del
nostro pensiero che una realtà viva e
pulsante.
Amiamo quindi il passato! Rispettiamo i vecchi i quali oggi, purtroppo,
non solo sono poco considerati, ma essi stessi tendono purtroppo ad adeguarsi
alla nuova mentalità, che vuole tutti in forma, esorcizzando appunto l’orribile
senescenza e cercando di vivere in un’eterna ma fittizia giovinezza!
Tornando alla mia donna, pardon, alla mia parola incontrata di recente,
c’è da dire che essa si chiama ‘nzulfanarsë[1] ’indebitarsi’, una voce ignota ai normali
vocabolari dialettali, che evoca realtà lontanissime e a noi estranee quasi
come se essa fosse, non so, il nome di Huitzilopochtli,
che per noi che viviamo nel presente e di presente, non significa nulla (sembra
uno scioglilingua), ma che per gli Aztechi indicava il dio della guerra e del sole anche se il significato letterale del
termine era ‘colibrì del sud’ o ‘colui che viene dal sud’. Il che ci fa pensare
che anche quella lingua veniva da molto lontano e che la parola aveva subito
nel frattempo diversi incroci con altri vocaboli. Quasi ogni parola,
soprattutto quelle per noi stranissime, per la loro venerandissima età,
meriterebbero di essere scritte a caratteri d’oro in una plaquette e conservate
nelle nostre case in una sorta di pio sacello riservato agli antenati, per
poterle ammirare ed adorare adeguatamente tutti i giorni. Quello che noi siamo
lo dobbiamo a loro, e questo sia detto non solo figuratamente, ma anche
concretamente perché esse sono presenti nei nostri geni linguistici, se è vero
che non esiste pensiero, e quindi uomo, senza una lingua attraverso cui esso si
esprima. Non è dato prima il pensiero e
poi una lingua che lo esprima, come a noi apparentemente sembra avvenire: il
pensiero è la nostra lingua. Può sembrare razzistico ed eccessivo dire che
chi non possiede un vocabolario decente per esprimersi, almeno nella propria
lingua, non può sperare che gli altri lo considerino interiormente ricco e dirozzato nelle idee,
dato che questa ricchezza proprio non esiste nel suo interno in quanto non è
stata mai riconosciuta né portata alla vita da parole corrispondenti: intendiamoci,
egli può essere un uomo civile, accorto, zelante, abile nel suo mestiere e
rispettoso degli altri ma è nel contempo un uomo dimidiato, perché ha una
conoscenza ristretta della lingua, la quale è come un marchio necessario a dar
forma e fare emergere porzioni del nostro animo che altrimenti rimarrebbero
ignote, a noi e agli altri. In altri termini un animo “umano” senza l’uso della
parola è, estremizzando, come quello dell’animale: informe, senza idee, senza
autocoscienza, e senza capacità di conoscere nel vero senso della parola , quindi,
nemmeno quello con cui viene strettamente a contatto per motivi di sopravvivenza:
cibo, sesso, individuazione di animali più o meno pericolosi per sé, ecc.
Certamente egli sente questi
bisogni ma non vi riflette nemmeno una frazione di secondo sopra. E così si è creduto che le bestie non avessero
la parte nobile dell’animo, quella che religiosamente chiamiamo anima
e che generalmente crediamo immortale, donataci da Dio al momento del
nostro concepimento. Questo io non lo
credo, essendo convinto che essa sia un portato della nostra evoluzione che ci
ha distinto, attraverso l’invenzione della parola, dagli animali , esseri viventi e mortali come noi, benchè dotati, anche
nel nome che include anche noi, di quella anima (che significa: soffio vitale)
di cui ci siamo indebitamente ed egoisticamente appropriati negandola ai nostri
fratelli animali. L’uomo che cominciava
a parlare non faceva le improbabili ma comode distinzioni cui ci siamo
successivamente abituati, riconoscendo la forza della vita in tutte le cose del
creato, comprese le piante, l’acqua, l’aria, le rocce e i monti (animismo). Possiamo senz’altro affermare che quest’uomo
delle origini conosceva molto meglio di noi l’essenza unitaria delle cose, di
cui successivamente ha notato e snocciolato via via nascita, vita e miracoli,
ma sempre al livello delle caratteristiche di superficie, apparentemente l’una
diversa dall’altra. In questo modo arrivò a credere la sua vita intellettiva e
spirituale irriducibile alla realtà
oggettiva dinanzi ai suoi occhi, abissalmente inferiore alla sua vita e al suo
spirito, e a spiegare la sua permanenza nel mondo terreno come conseguenza di
un allontanamento da un paradiso celeste in cui prima viveva, a causa di
qualche grave peccato commesso nei confronti del Dio che doveva senz’altro
esistere, come spiegazione metafisica di tutte le cose del creato appartenenti
ad una sfera contingente e infinitamente inferiore a quella celeste verso cui cominciò
quindi a guardare in cerca di aiuto e
comprensione da parte del Dio che credeva di aver offeso e che tutto poteva. E’ incredibile come l’uomo abbia
profondamente creduto alle immagini e ai pensieri metafisici di cui si rese
capace con la parola, dimenticando che questa era stata, nella filogenesi, una
sua invenzione, lenta, laboriosa, difficile, e certamente molto utile nella sua
vita quotidiana e in vista della nascita di una comunità, ma che portava con sé
i difetti che ogni cosa umana ha, quello, soprattutto, di far credere che la
logica dei pensieri sia solida e incontrovertibile: c’è voluto molto tempo per
capire che la nostra logica è spesso fallace se non confrontata continuamente
con i risultati della osservazione concreta e scientifica, e che non si può
credere a nulla definitivamente, nemmeno alla scienza che attua questa ricerca
a contatto costante con la realtà: l’unica certezza incrollabile che essa
infatti ha faticosamente guadagnato, nel corso ormai di circa quattro secoli, è
che tutto il nostro sapere può essere
rovesciato da un momento all’altro con una rivoluzione copernicana. Lo so, l’uomo forte è una creatura rara nel
gran cimento della vita, e pertanto non possiamo e non vogliamo né vilipendere
né deridere chi si aggrappa al fantasma del Dio che ci attende nell’aldilà. La
realtà è unica, per quanto complessa e straordinaria essa sia (come sa
benissimo la fisica quantistica), e non si può a mio avviso accettare la
dicotomia irreversibile tra materia e spirito. L’idea di un Dio, o riusciamo ad
inserirla in qualche modo in questa unica realtà, o non sappiamo proprio che
farcene.
“La
parola è tutto” si sente spesso ripetere, ma è anche vero che essa, creata
dall’uomo, lascia comunque, anche quando è magnificamente usata, un che di
amaro in bocca come se essa non avesse soddisfatto appieno la nostra sete di
assoluto, e ci lasciasse nel tormento di trovarne una definitiva e
totalizzante: pura illusione, a mio avviso, perché quando questo ci
succede significa che stiamo lasciando
la Realtà per varcare le soglie della metafisica
la quale è, come dire, solo il segno di una insufficienza nativa, una mancanza
perenne del nostro essere uomini, che
siamo solo una parte infinitesima della
misteriosissima Realtà, la quale è la nostra Divinità: estremamente vasta e
sempre sfuggente, ma con i piedi ben saldi nelle cose del Mondo. Sono un
panteista? Probabilmente sì. E sono
contento di vivere in questo nostro tempo aperto a tutte le possibilità, perché
in altre epoche, come sappiamo, avrei potuto fare la fine di Giordano Bruno,
pur non essendo degno nemmeno di legargli i lacci dei sandali.
Ora
torniamo al compito meno attraente per i più, ma basilare per la conoscenza piena
di una parola, di trovare l’origine del
verbo abruzzese sopra citato, cioè ‘nzulfanàrsë
(indebitarsi). Il significante è molto simile a quello
dell’aiellese-abruzzese ‘nzulfënà ’instigare malevolmente
qualcuno contro altra persona’, ma il significato, appunto, ne nega la
parentela vicendevole. Quest’ultimo non
dovrebbe essere altro che l’it. insufflare,
dal lat. in-suffl-are ‘soffiare
sopra, dentro; infondere’ con l’aggiunta di un riferimento, magari, al tono
insinuante di colui che vuole suscitare avversione verso qualcuno. Naturalmente
c’è stato l’incrocio con il verbo dial. ‘nzulfà ‘insolfare, inzolfare’ che
indica d’altronde un’operazione simile a quella di colui che semplicemente soffia dentro, infonde senza riferimento
allo zolfo che viene irrorato e come soffiato dall’inzolfatrice sulle foglie,
soprattutto della vite, per proteggerla da malattie crittogamiche. Tanto è vero
che a Trasacco-Aq esiste anche il verbo ‘nzëlfà[2] ,
che ha i due significati di ‘inzolfare’ e di ‘instigare’, oltre al verbo ‘nzëlfinà,
‘nzëffinà,
‘nzuffianà ’instigare,
accendere un litigio, mettere uno contro l’altro, ecc.’. Queste forme ci dicono che l’insufflare
originario si è incrociato con l’it. zuffa, azzuffare.
L’altro verbo sosia ‘nzulfanàrsë ‘indebitarsi’ deve
avere un’origine del tutto diversa, ma quale?
La soluzione ce la offre il trasaccano-abruzzese zélla che presenta vari
significati tra cui quello di ‘debito’ come nell’abr. zéllë[3] che al singolare vale ‘tigna’, al pl.
‘taccoli, chiodi, piccoli debiti’. Il
Bielli, di Lanciano-Ch, usa spesso termini del dialetto toscano (sarei curioso
di appurare perché!), che risultano un po’ ostici anche a me, come qui taccoli e chiodi che
significano ‘(piccoli) debiti’. Ora,
questa zélla ‘debito’ non
può che essere una variante del ted. zoll ‘tributo, dazio’ corrispondente all’ingl. toll ‘pedaggio, dazio’ e
nell’inglese-americano ‘addebito (per chiamata in teleselezione)’. Tutti
termini che i linguisti sanno benissimo che combaciano con il gr. télos
dai diversi significati tra cui quelli di ‘imposta, gabella, tributo’ ma
anche ‘premio’ (nel vocabolario Rocci). Qui c’è da puntualizzare che
spesso i termini che indicano lo scambio
di beni tra una persona e un’altra si sono specializzati ad indicare il ricevere o il dare, mentre il significato più a monte era quello di ‘tendere (la
mano)’ sia per dare sia per prendere o ricevere. Ecco perché, a mio avviso, in gr. télos vale sia ‘tributo’
che ‘premio’. Etimologicamente il tributo
è qualcosa che si dà, mentre il premio è
qualcosa che si prende. Anche la radice
/do/
di lat. dare ‘dare’ nell’area ittita valeva ‘prendere’[4]. Il lat.
cred-it-um vale sia ‘credito’
che ‘debito’. Il gr. dảnos vale sia ‘prestito, dono’ che ‘debito’. Il gr. chréos significa in genere
‘debito’, talora ‘credito’ ma il corradicale verbo gr. chra-ein significa solo ‘prestare’. Indipendentemente dalla
considerazione testè fatta della “mano che si tende” ce n’è da fare un’altra: i
significati di questi termini che indicano il passaggio di beni tra una persona
e l’altra cambiano natura a seconda della persona che li considera: un credito fatto a qualcuno è un debito per quel qualcuno e viceversa. D’altronde
lo stesso etimo di lat. deb-ēre < lat. de-hib-ēre ‘dovere, essere debitore’
pare indicare qualcosa che è stata ricevuta (cfr. lat.hab-ēre’avere, ottenere’ ) e che quindi bisogna ridare come un
debito.
Ora,
fatte queste importanti osservazioni, possiamo passare ad analizzare il verbo
gr. tel-ōné-ein ‘fare l’appaltatore, il gabelliere,
riscuotitore di imposte, riscuotere le imposte’. Il termine è composto da due elementi sostanzialmente tautologici ,
e cioè tel- <tél-os ‘tributo, imposta, premio’ e -ōnḗ che
in greco valeva ‘compera, affitto, appalto, prezzo (della cosa comprata)’ ma in
latino aveva assunto il valore di ven-dĕre ’vendere’< ven-um dare ‘dare in vendita’. La parola greca aveva un digamma iniziale
(poi caduto) che possiamo indicare con -w- (wōnḗ ‘compera’) corrispondente, appunto, alla semivocale iniziale –v-
di lat. ven-um ‘vendita’
e al sscr. vasnà ‘prezzo della vendita, affitto, nolo’. Ora, già il concetto di “appaltare” implica
un contratto di vendita da una parte e
compera dall’altra (i due poli del prendere e del dare), perché l’appaltatore è colui che, a suo rischio, ottiene
dallo Stato la facoltà di riscuotere tributi o tasse trattenendo una
percentuale: l’appaltatore si indebita nei confronti dello Stato con la
promessa di consegnargli, ad un tempo stabilito, la somma delle tasse, anche se per caso quelle tasse non
dovesse raccoglierle, per un motivo o per un altro. Allo stesso tempo egli, nei
confronti dei cittadini, è come un
creditore che riceve da loro quanto essi sono per legge tenuti a pagare allo
Stato.
Ora,
tornando al nostra peregrina parola abruzzese ‘n-zul-fan-arsë ‘indebitarsi‘ si possono chiaramente riconoscere le
due radici tautologiche che la formano, cioè -zul- (parente, come abbiamo visto di trasaccano zélla
’debito’ e ted. zoll ‘tributo, dazio’) e –fan,
chiara variante di quella lat. ven- e di sscr. vasnà ‘prezzo della
vendita, affitto’. Il verbo gr. tel-ōné-ein ‘riscuotere, esigere la tassa’ nella forma medio-passiva tel-ōné-esthai significava ‘dover pagare
l’imposta’ e, quindi, essere in una condizione di indebitamento nei confronti dello Stato o del gabelliere. L’espressione
greca tel-ōné-ein toὺs lόgous significa addirittura ‘vendere
l’istruzione, le parole’. Si è passati
dall’idea di “riscuotere” a quella di “vendere”. E così con il medio-passivo tel-ōné-esthai siamo arrivati al dunque, addirittura
con la coincidenza delle due forme passive, nel dialetto e nel greco, che forse
è casuale. La fricativa sorda –f- della parola dialettale abruzzese
è quasi sicuramente dovuta all’incrocio col dialettale ‘n-zulf-ënà ‘instigare’
che ha tutt’altra storia come abbiamo visto.
Che bello aver riscattato la donna malvista e
negletta da tutti, di cui ho parlato all’inizio dell’articolo, e aver strappato
da lei sorrisi di compiacimento, avendole
riconsegnato le sue splendide vesti di un tempo lontano, che parlano della sua invidiata
e radiosa esistenza, mentre tutti ora, chiusi nel loro cieco presente, la disprezzano ignorandola!
Gli
incroci cui vanno soggette le parole sono sempre dietro l’angolo. In abruzzese la voce zéllë[5] indica
la ‘tigna’, una brutta micosi del cuoio capelluto, oggi scomparsa. A Trasacco lë zéllë[6] sono le aree senza capelli del cuoio
capelluto attaccato dalla tigna. Questa zélla
deve condividere la radice con il verbo gr. tíll-ein ‘pelare, spennare, strappare’, ma anche (nel vocab. del Rocci)
‘vessare, maltrattare, spennare’ significati che spiegano quello dell’aiellese-trasaccano-abruzzese-meridionale
zëllùsë, aggettivo appioppato
a chi non sta alle regole del gioco, si
arrabbia, tergiversa, litiga, cavilla, ecc. In napoletano però lo stesso
aggettivo si riferisce a chi ha le zélle, cioè le aree senza capelli a
causa della tigna, mentre a Trasacco indica anche chi è oberato di debiti, e con questo siamo tornati a
quanto detto precedentemente.
Ma la
cosa più interessante, secondo me, è che sempre a Trasacco la zélla
indica anche la ‘sporcizia’, in particolare i grumi di sterco che si formano intorno ai peli degli animali, come
le vacche, abituate ad accovacciarsi anche sui loro escrementi. In questo senso il termine deve essere
strettamente apparentato con la radice di it. zolla (di zucchero, di
terra, ecc.), il quale è la copia del medio tedesco Zolle ‘massa compatta (di
sterco)’.
Per
ora mi fermo qui, contento di aver esplorato una porzione sia pur minima di
passato e di aver fatto una conoscenza più stretta e cordiale con molte persone,
pardon, parole che ci ammiccano sornione da tanto lontano!
Ps.
La
tenacia, testardaggine, foga e persitenza che caratterizzano in genere la
persona zëll-όsa ‘litigiosa,
cavillosa, ecc.’ mi fanno pensare che questa voce si sia molto probabilmente
incrociata col gr. zẽl-os ‘ardore, zelo,
gelosia, invidia’ e con il tardo lar. zel-os-u(m) ‘pieno di zelo’. Epperò anche l’it. regionale-meridionale tigna vale ‘cocciutaggine,
testardaggine’. Come possiamo spiegarlo? Pensando che questa voce abbia assunto
questo valore agendo, come dire, per
simpatia sotto la spinta
dell’altro termine omosemantico zélla ‘tigna’ e ‘litigio, cavillo,
ecc.’?. Mi pare di no.
Il
fatto è che il lat. tine-a(m) ‘tigna
(malattia del cuoio capelluto)’ a mio avviso ha una radice tin-e- che dovrebbe
corrispondere a quella di lat. tenu-e(m) ‘tenue, sottile, esile’, ingl. thin ‘sottile, raro, ecc.’, ted. dünn ’sottile, raro, ecc.’. Ora,
questa sottigliezza deve essere conseguenza
di una tensione, ben evidente nel
verbo latino corradicale ten-d-ĕre ‘tendere, dirigersi, sforzarsi di, applicarsi, ecc.’. La
lettera –d- non è altro che
un ampliamento della radice. Anche il lat. ten-ēre ‘tenere’ è formato da questa radice che indica la ‘tensione
(magari del braccio) verso qualcosa o
qualcuno per contattarlo, prenderlo, sostenerlo, sorreggerlo, ecc.’ Ma poteva
forse indicare anche la tensione
esercitata nel tirare e strappare un capello (ecco la tigna!). Allora diverrebbe chiaro il
significato del regionale tigna ‘testardaggine’ (tign-oso ‘testardo), in quanto esso dovrebbe scaturire da quello di ‘perdurare, continuare, persistere (in una medesima
condizione)’.
E
non ci inganni il fatto che la radice lat. ten- ‘tendere’ appare nella forma tin-
solo in sillaba interna come in ob-tin-ēre ‘ottenere, tener
fermo,ecc.’, in abs-tin-ēre ‘tener lontano, astenersi’, ecc. Questa può essere una
regola intervenuta nella lingua successivamente alla sua situazione iniziale,
in cui la radice tin-poteva essere usata anche in altre condizioni, come sembra suggerire
l’ingl. thin ‘sottile’ di cui sopra e anche l’ingl. tin-y ‘minuto, molto piccolo’ .
Il
lat. tin(n)-ire ‘risuonare, squillare’ e lat. tin-tin(n)-ire ’squillare, tintinnare’ per tutti i
linguisti sono parole chiaramente onomatopeiche: ma io che non credo in essa,
come abbiamo visto in altri articoli, considero la radice come espressione
della tensione che anima il
suono. D’altronde l’it. ten-tenn-are, considerato metaforico rispetto a lat. tin-tin(n)-are, tin-tin(n)-ire
‘tintinnare’, è a mio avviso solo il significato concreto, e tra gli originari
della radice, che indicava il vacillare
e lo scuoter(si) di qualcosa o qualcuno: un muover(si) e un agitar(si), dunque, espressione anch’essi di una tensione.
A me
sembra, inoltre, che quando in italiano usiamo l’espressione: Quanto
viene (quanto costa)?, rivolta ad un commerciante o venditore ambulante
o a chicchessia, noi stiamo usando indebitamente una voce del verbo it. venire, ma molto tempo fa, quando l’italiano
era di là da venire, quella stessa voce apparteneva al verbo latino testè
indicato ven-ire ‘essere messo
in vendita’, sicchè tutta l’espressione suonava: quanti venit? ‘a quanto è
venduto?', cioè ‘quanto costa?’. E’
certamente sorprendente la Lingua!
Un’ultima osservazione, e poi mi taccio. Esiste l’uso popolare e volgare
di it. venire, nel significato di ‘raggiungere l’orgasmo’. Anche qui il verbo it. venire funge da mascheramento del significato sessuale, ma senza
che ci sia stata la volontà espressa di farlo, da parte del parlante: egli si è
solo approfittato opportunamente di qualche coincidenza: questo venire, infatti, nel senso sessuale,
credo che risalga a qualche verbo volgare e popolare nientepopodimeno che della stessa radice di lat. Ven-us ’Venere’, dea romana dell’amore e
della fecondità naturale. Tanto è
vero che il suo nome era anche sinonimo di piacere
dell’amore, accoppiamento. Il lat.venus-tat-e(m), oltre a ‘bellezza, leggiadria’ significava anche ‘piacere,
gioia’. Ancora, il lat. veni-a(m) indicava il ‘favore, la grazia’ concessa dagli dei e magari
da una donna.
E
così siamo finiti in bellezza! Deo gratias!
[1] Cfr. D.
Bielli, Vocabolario abruzzese, A.Polla
Editore, Cerchio-Aq, 2004.
[2] Cfr. Q.
Lucarelli, Biabbà, grafiche Di Censo,
Avezzano-Aq, 2003.
[3] Cfr. D.
Bielli, cit.
[4] Cfr. G.
Devoto, Dizionario etimologico, Edit.
Felice Le Monnier, Firenze, 1968, sub voce “dare”.
[5] Cfr.
Bielli, cit.
[6] Cfr. Q.
Lucarelli, cit.
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