Non credo affatto, come sostengono
credo tutti i linguisti, che il sicil. cattiva
‘vedova’ derivi dal lat. captiv-a(m) ‘prigioniera’, femminile di lat. captiv-u(m) ‘prigioniero’ dal verbo lat. cap-ĕre ‘prendere, catturare’[1]. Si sostiene che in Sicilia, quando una donna
diventava vedova, restava segregata in casa per tutta la vita, vestita di nero
e con diversi fazzoletti che le coprivano il capo e parte del volto, quasi come
un burka. Usciva solo per andare a messa e in altre
poche occasioni: era quindi una prigioniera. Però il termine al maschile cattivu
indicava, ed indica tuttora, il ‘vedovo’, che non era soggetto alle stesse
severe restrizioni della vedova e usciva quando voleva. Si afferma che il nome sarebbe stato usato
per analogia, ma se quando si estese all’uomo era ancora vivo il suo significato
di ‘prigioniero’, ciò sarebbe stato di fortissimo ostacolo per l’analogia, e avrebbe
fatto sì che per l’uomo restasse in uso il precedente termine per ‘vedovo’:
quale? Forse il lat. vidu-u(m)? Ma più passava il tempo a partire dal momento dell’ipotetico
impiego del femm. lat. captiv-a(m) e più sarebbe stato difficile un
suo uso analogico per l’uomo, il quale per un ordine lungo di anni, avrebbe con
tutta probabilità consolidato l’uso di essere chiamato con il termine per
‘vedovo’ precedente all’introduzione del femm. lat. captiv-a(m).
L’appellativo captiv-a(m) ‘prigioniera’ se fu usato per
indicare la vedova a causa della
suddetta motivazione del suo stato di segregazione, lo fu fino a quando il significato latino di
‘prigioniera’ era ancora vivo tra la gente, ma quando con l’avanzare delle
parlate dialettali esso scomparve, ciò non fu più possibile e scomparve
addirittura il termine in questione, sostituito, come nell’italiano, dal
termine prigioniero, anch’esso di origine latina almeno per il sostantivo da cui deriva, e cioè prehension-e(m)'cattura'. Suppongo che, nella coscienza del
parlante siciliano, la voce lat. captiv-a(m) > *cattiv-a(m) col suo significato di prigioniera’ potè restare, al massimo,
fino al III o IV sec. d. C.
Un altro indizio che mi fa dubitare circa la veridicità della
derivazione di sicil. cattiva ‘vedova’ dal lat. captiv-a(m) ‘prigioniera’ è la considerazione
che essa, la vedova, sarebbe chiamata con un termine che ha poco a che fare con
il significato intrinseco di lat. vidu-u(m) ‘vedovo’, lat. vidu-a(m) ‘vedova’, il cui etimo ha il significato fondamentale di
‘privo di, vuoto di’ diffuso largamente nel dominio indoeuropeo. E’ bene tenere presente il fr. vide
‘vuoto’.
Il gr. khḗra ‘vedova’ ha lo stesso valore etimologico di gr. khêr-os ‘vuoto, spoglio, privo di’ ma
anche ‘abbandonato, vedovo’. La radice è connessa con gr. khêt-os ‘mancanza, privazione’, il quale ultimo ha anche la variante
*khát-os presente nel verbo khatè-ein ‘aver bisogno di, sentire la
mancanza di’. Ora, come esiste la forma
gr. khēr-eía ‘vedovanza, privazione, mancanza, con
l’aggett. kḗrei-os ‘vedovile’,
così poteva trovarsi in qualche parlata dialettale una forma *kat-eía ‘vedovanza, ecc.’ (con relativo
aggettivo) resa in latino o altre lingue italiche come *katìa , pronta per
l’incrocio con lat. captiu-a(m) > cattiva. Cfr. salentino cattía
‘vedova’< *cattiu-a(m), cattìu
‘vedovo’ < *cattiu-u(m). E’ noto che la lettera /v/ fricativa
sonora, se era seguita da vocale in latino acquisiva il valore di semivocale
labio-velare /w/.
In
questo modo il nome siciliano catti(v)a indica la ‘vedova’
in sé, in quanto ‘priva di (marito)’, e non, indirettamente, la ‘prigioniera’,
frutto di mero incrocio.
Alcune ore dopo aver scritto quanto sopra sono stato folgorato da una illuminazione che
mi ha permesso di pervenire ad una soluzione più diretta, e quindi migliore,
della precedente circa il problema rappresentato dal termine dialettale cattiva
‘vedova’. La teoria che ho sviluppato
sopra è sì attendibile come teoria, anche perché raggiunge il significato di
fondo della parola in questione senza lasciarsi bloccare dalla presunta motivazione
della captiv-a(m) ‘prigioniera’,
ma nel contempo non può fare a meno della supposizione di un incrocio di
disturbo intervenuto col lat. captiv-u(m) ‘prigioniero’.
L’illuminazione che ho avuta non ha, invece, alcun bisogno di incroci di
qualsiasi natura, perché appunta il suo sguardo penetrante sul solo lat. captiv-u(m) ‘prigioniero’, ricavandone
bellamente un suo possibilissimo significato di ‘vedovo(a)’, ma espresso molto
genericamente proprio come abbiamo visto fare al lat. vidu-um ‘vedovo’ e al gr. khêr-os ’vuoto, spoglio, privo di’ ma anche ‘abbandonato, vedovo’. In altre parole il concetto di “vedovo(a)”
rimanda, nei casi esaminati, a precedenti concetti molto più ampi di quello
particolare di “vedovo” e cioè a quello generico di “spoglio, privo, destituto”:
si può essere spoglio di qualsiasi
cosa: sia, materialmente, di panni che, figurativamente, di beni vari e
numerosi, quali la libertà, la salute, la felicità, l’amicizia, la bontà, ecc. ecc. Pertanto, chi non pensa affatto che le radici fondamentali delle parole
debbano avere per forza un valore moltissimo generico, è probabilissimo che cada irrimediabilmente vittima della sua
ristretta visione della natura dei
significati e spesso non può appuntare il suo sguardo indagatore che sul
solo significato precipuo che una parola ha assunto in una lingua in genere
ristretto rispetto a quello originario.
Ma farebbe bene almeno a ricordare, a mio avviso, che già il Saussure
affermava che è vano pensare che una parola sia nata per indicare la cosa e il significato
che indica attualmente, come se il lunghissimo tempo della sua lunghissima vita
fosse trascorso invano ed indenne, cosa improbabile. A me di certo ciò non succede, perché uno dei
principi che regolano la mia linguistica, e che ho scoperto già molti anni fa molto attivo nelle lingue, è proprio la
genericità assoluta dei significati originari delle parole: e credetemi, non lo
dico per vantarmi, ma lo dico per il
grande amore che nutro per le parole e perché altri conoscano quella che mi pare la loro inoppugnabile
verità.
Ora, tornando
alla nostra siculo-calabro-salentina cattiva o cattia ‘vedova’ la cui radice pensavo corrispondesse a quella
delle parole greche per ‘privo, vuoto, vedovo’ sopra indicate, sono convinto
che riusciremo a capire, solo con un po’ di attenzione in più, che invece essa,
per essere interamente capita nella sua sostanza, non ha alcun bisogno di
chiedere soccorso ad altre parole, ma solo di guardare bene dentro se
stessa. L’aggett., ma più spesso
sostantivo, lat. captiv-u(m)
‘prigioniero, schiavo’ è un deverbativo dal participio pass. lat. capt-u(m) ‘preso’ ma anche, sostantivato, ‘prigioniero’. Il verbo cap-ĕre da cui esso deriva significa ‘prendere, afferrare, ecc.’ ma al
passivo cap-i, che vuol dire
normalmente ‘essere preso’, ha anche il significato di ‘essere colpito, essere
privato di’ come nell’espressione luminibus
capi ‘essere privato della
vista’.
Ora,
è legittimissimo supporre che all’origine, prima che il latino lo si
cominciasse a conoscere insieme alle legioni romane in marcia verso le altre
regioni italiche, la parola captiv-u(m) ‘prigioniero, schiavo’ avesse avuto un significato molto più
ampio di quello storicamente noto, tanto da includere anche quello di ‘vedovo’,
in quanto (uomo) privo (della moglie morta)’, per lo stesso identico motivo per
cui un prigioniero è un (uomo) privo (della libertà), a causa di
vicende belliche. Così tutto diventa
molto più semplice e tutto fila liscio come l’olio. La prigionia
delle vedove siciliane, calabre e salentine, che sembrava prendersi tutta la
scena (secondo i linguisti), svanisce irrevocabilmente nel nulla. Siamo così arrivati all’osso: l’etimo giusto
e diretto è stato scovato all’interno del nome stesso da interpretare, il quale
apparentemente era più o meno lontano da esso e, anzi, proponeva
ingannevolmente false soluzioni a cui si finiva con l’abboccare.
Il
siculo-calabro-salentino captiv-u(m) ‘vedovo’ era con ogni
probabilità già presente in loco
prima che vi arrivassero le legioni romane:
sappiamo che il latino di Roma non fu improvvisamente catapultato nel
Lazio da spazi celesti, e che esso, o almeno molte sue parole, dovettero vagare
e diffondersi su suolo italico e altrove prima che il nomen Romanum venisse
storicamente conosciuto dagli altri popoli italici e prima che il latino vi si
diffondesse nella forma a noi nota, che certamente era molto diversa, specie in
alcuni significati, da quella delle sue origini italiche, precedenti di
millenni.
La
bontà di questa soluzione è confermata anche dalla facilità con cui si può
spiegare di conseguenza il significato
dell’aggettivo-sostantivo italiano cattivo: oggi si ricorre in genere a
quella che ritengo, alla luce di quanto detto, una misera scappatoia che ci fa
credere di liberarci dalle difficoltà.
Ancora una volta si ricorre all’aiuto di altra parola, in questo caso
rappresentata nientedimeno che dal diavolo,
maestro di ogni sottile e pernicioso inganno.
La cattiveria dell’uomo, infatti, troverebbe
spiegazione, quanto al nome, nell’espressione del latino ecclesiastico captivus
diaboli ‘prigioniero del diavolo’.
E così nessuno osa cercare altre strade, perché una pietra pesantissima
è stata posta, è il caso di dire diabolicamente
sulla soluzione del problema. Quando invece sarebbe bastato guardare con
occhi limpidi e mente serena
all’interno del lat. captiv-u(m) ‘prigioniero’ per scoprirne le
immense risorse di significato che avrebbero lasciato in pace, almeno in questo
caso, il povero diavolo, così tremendamente maledetto ed odiato dalla nostra religione,
risorse che avrebbero fatto sciogliere il tenace nodo del nostro problema come
neve al sole.
In sostanza il significato di italiano cattivo
indica tutte le qualità e i beni che mancano, sono assenti in un uomo perché possa considerarsi buono,
capace, felice,in forma, ecc.
oppure in una cosa perché possa svolgere al meglio le funzioni per cui è stata
fatta. Nulla di più. L’idea di “cattivo”
è amplissima e si riferisce a tutto ciò che, in un uomo, animale o cosa è
‘insufficiente, debole, contrario al suo benessere o alla sua natura’.
Spero che questo articolo possa aprire gli occhi a quanti purtroppo non
si accorgono di tenerli solo semiaperti, non tanto a causa della loro
intrinseca insufficienza indagatrice, quanto per la effettiva complessità di
questi problemi che comunque, seguendo una certa strada, possono ridurre di
moltissimo la loro difficoltà, se non svanite del tutto. E lo dico senza la minima ombra di prosopopea
da parte mia, ma per amore della Parola, come ho già affermato più sopra.
Se
però uno che occupa qualche posto di responsabilità fa lo gnorri, allora non c’è
molto da fare. In questo caso l’umanità
intera sarà costretta ad attendere molti anni prima che possa Essere messa al
corrente di come si comporta la Lingua.
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