martedì 17 marzo 2020

Siciliano cattiva ‘vedova’ e cattivu ‘vedovo’. Il metodo vincente in linguistica.




Non credo affatto, come sostengono credo  tutti i linguisti, che il sicil. cattiva ‘vedova’ derivi dal lat. captiv-a(m) ‘prigioniera’, femminile di lat. captiv-u(m) ‘prigioniero’ dal verbo lat. cap-ĕre ‘prendere, catturare’[1].  Si sostiene che in Sicilia, quando una donna diventava vedova, restava segregata in casa per tutta la vita, vestita di nero e con diversi fazzoletti che le coprivano il capo e parte del volto, quasi come un burka.  Usciva solo per andare a messa e in altre poche occasioni: era quindi una prigioniera.  Però il termine al maschile cattivu indicava, ed indica tuttora, il ‘vedovo’, che non era soggetto alle stesse severe restrizioni della vedova e usciva quando voleva.  Si afferma che il nome sarebbe stato usato per analogia, ma se quando si estese all’uomo era ancora vivo il suo significato di ‘prigioniero’, ciò sarebbe stato di fortissimo ostacolo per l’analogia, e avrebbe fatto sì che per l’uomo restasse in uso il precedente termine per ‘vedovo’: quale? Forse il lat. vidu-u(m)? Ma più passava il tempo a partire dal momento dell’ipotetico impiego del femm.  lat. captiv-a(m) e più sarebbe stato difficile un suo uso analogico per l’uomo, il quale per un ordine lungo di anni, avrebbe con tutta probabilità consolidato l’uso di essere chiamato con il termine per ‘vedovo’ precedente all’introduzione del femm. lat. captiv-a(m).   L’appellativo captiv-a(m) ‘prigioniera’ se fu usato per indicare la vedova a causa della suddetta motivazione del suo stato di segregazione,  lo fu fino a quando il significato latino di ‘prigioniera’ era ancora vivo tra la gente, ma quando con l’avanzare delle parlate dialettali esso scomparve, ciò non fu più possibile e scomparve addirittura il termine in questione, sostituito, come nell’italiano, dal termine prigioniero, anch’esso di origine latina almeno per il sostantivo da cui deriva, e cioè prehension-e(m)'cattura'. Suppongo che, nella coscienza del parlante siciliano, la voce lat. captiv-a(m) > *cattiv-a(m) col suo significato di prigioniera’ potè restare, al massimo, fino al III o IV sec. d. C.  

   Un altro indizio che mi fa dubitare circa la veridicità della derivazione di sicil. cattiva ‘vedova’ dal lat. captiv-a(m) ‘prigioniera’ è la considerazione che essa, la vedova, sarebbe chiamata con un termine che ha poco a che fare con il significato intrinseco di lat. vidu-u(m) ‘vedovo’, lat. vidu-a(m) ‘vedova’, il cui etimo ha il significato fondamentale di ‘privo di, vuoto di’ diffuso largamente nel dominio indoeuropeo.   E’ bene tenere presente il fr. vide ‘vuoto’.

  Il gr. khra ‘vedova’ ha lo stesso valore etimologico di gr. khêr-os ‘vuoto, spoglio, privo di’ ma anche ‘abbandonato, vedovo’. La radice è connessa con gr. khêt-os ‘mancanza, privazione’, il quale ultimo ha anche la variante *khát-os presente nel verbo khatè-ein ‘aver bisogno di, sentire la mancanza di’.  Ora, come esiste la forma gr. khēr-eía ‘vedovanza, privazione, mancanza, con l’aggett. kḗrei-os ‘vedovile’, così poteva trovarsi in qualche parlata dialettale una forma *kat-eía ‘vedovanza, ecc.’ (con relativo aggettivo) resa in latino o altre lingue italiche come *katìa , pronta per l’incrocio con lat. captiu-a(m) > cattiva. Cfr. salentino cattía ‘vedova’< *cattiu-a(m), cattìu ‘vedovo’ < *cattiu-u(m).  E’ noto che la lettera /v/ fricativa sonora, se era seguita da vocale in latino acquisiva il valore di semivocale labio-velare /w/.

   In questo modo il nome siciliano catti(v)a indica la ‘vedova’ in sé, in quanto ‘priva di (marito)’, e non, indirettamente, la ‘prigioniera’, frutto di mero incrocio. 

   Alcune ore dopo aver scritto quanto sopra  sono stato folgorato da una illuminazione che mi ha permesso di pervenire ad una soluzione più diretta, e quindi migliore, della precedente circa il problema rappresentato dal termine dialettale cattiva ‘vedova’.   La teoria che ho sviluppato sopra è sì attendibile come teoria, anche perché raggiunge il significato di fondo della parola in questione senza lasciarsi bloccare dalla presunta motivazione della captiv-a(m) ‘prigioniera’, ma nel contempo non può fare a meno della supposizione di un incrocio di disturbo intervenuto col lat. captiv-u(m) ‘prigioniero’.  L’illuminazione che ho avuta non ha, invece, alcun bisogno di incroci di qualsiasi natura, perché appunta il suo sguardo penetrante sul solo lat. captiv-u(m) ‘prigioniero’, ricavandone bellamente un suo possibilissimo significato di ‘vedovo(a)’, ma espresso molto genericamente proprio come abbiamo visto fare al lat. vidu-um ‘vedovo’ e al gr. khêr-os ’vuoto, spoglio, privo di’ ma anche ‘abbandonato, vedovo’.  In altre parole il concetto di “vedovo(a)” rimanda, nei casi esaminati, a precedenti concetti molto più ampi di quello particolare di “vedovo” e cioè a quello generico di “spoglio, privo, destituto”: si può essere spoglio di qualsiasi cosa: sia, materialmente, di panni che, figurativamente, di beni vari e numerosi, quali la libertà, la salute, la felicità, l’amicizia, la bontà, ecc. ecc.  Pertanto, chi non pensa affatto  che le radici fondamentali delle parole debbano avere per forza un valore moltissimo generico, è probabilissimo  che cada irrimediabilmente vittima della sua ristretta visione della natura dei  significati e spesso non può appuntare il suo sguardo indagatore che sul solo significato precipuo che una parola ha assunto in una lingua in genere ristretto rispetto a quello originario.  Ma farebbe bene almeno a ricordare, a mio avviso, che già il Saussure affermava che è vano pensare che una parola sia nata per indicare la cosa e il significato che indica attualmente, come se il lunghissimo tempo della sua lunghissima vita fosse trascorso invano ed indenne, cosa improbabile.  A me di certo ciò non succede, perché uno dei principi che regolano la mia linguistica, e che ho scoperto già molti anni fa  molto attivo nelle lingue, è proprio la genericità assoluta dei significati originari delle parole: e credetemi, non lo dico per vantarmi,  ma lo dico per il grande amore che nutro per le parole e perché altri conoscano  quella che mi pare la loro inoppugnabile verità.

   Ora, tornando alla nostra siculo-calabro-salentina cattiva o cattia ‘vedova’ la cui radice pensavo corrispondesse a quella delle parole greche per ‘privo, vuoto, vedovo’ sopra indicate, sono convinto che riusciremo a capire, solo con un po’ di attenzione in più, che invece essa, per essere interamente capita nella sua sostanza, non ha alcun bisogno di chiedere soccorso ad altre parole, ma solo di guardare bene dentro se stessa.  L’aggett., ma più spesso sostantivo, lat. captiv-u(m) ‘prigioniero, schiavo’ è un deverbativo dal participio pass.  lat. capt-u(m) ‘preso’ ma anche, sostantivato, ‘prigioniero’.  Il verbo cap-ĕre da cui esso deriva significa ‘prendere, afferrare, ecc.’ ma al passivo cap-i, che vuol dire normalmente ‘essere preso’, ha anche il significato di ‘essere colpito, essere privato di’ come nell’espressione luminibus capi ‘essere privato della vista’.  

   Ora, è legittimissimo supporre che all’origine, prima che il latino lo si cominciasse a conoscere insieme alle legioni romane in marcia verso le altre regioni italiche, la parola captiv-u(m) ‘prigioniero, schiavo’ avesse avuto un significato molto più ampio di quello storicamente noto, tanto da includere anche quello di ‘vedovo’, in quanto (uomo) privo (della moglie morta)’, per lo stesso identico motivo per cui un prigioniero è un (uomo) privo (della libertà), a causa di vicende belliche.  Così tutto diventa molto più semplice e tutto fila liscio come l’olio.  La prigionia delle vedove siciliane, calabre e salentine, che sembrava prendersi tutta la scena (secondo i linguisti), svanisce irrevocabilmente nel nulla.  Siamo così arrivati all’osso: l’etimo giusto e diretto è stato scovato all’interno del nome stesso da interpretare, il quale apparentemente era più o meno lontano da esso e, anzi, proponeva ingannevolmente false soluzioni a cui si finiva con l’abboccare. 

   Il siculo-calabro-salentino captiv-u(m)  ‘vedovo’ era con ogni probabilità già presente in loco prima che vi arrivassero le legioni romane:  sappiamo che il latino di Roma non fu improvvisamente catapultato nel Lazio da spazi celesti, e che esso, o almeno molte sue parole, dovettero vagare e diffondersi su suolo italico e altrove prima che il nomen Romanum  venisse storicamente conosciuto dagli altri popoli italici e prima che il latino vi si diffondesse nella forma a noi nota, che certamente era molto diversa, specie in alcuni significati, da quella delle sue origini italiche, precedenti di millenni. 

   La bontà di questa soluzione è confermata anche dalla facilità con cui si può spiegare di conseguenza  il significato dell’aggettivo-sostantivo italiano cattivo: oggi si ricorre in genere a quella che ritengo, alla luce di quanto detto, una misera scappatoia che ci fa credere di liberarci dalle difficoltà.  Ancora una volta si ricorre all’aiuto di altra parola, in questo caso rappresentata nientedimeno che dal diavolo, maestro di ogni sottile e pernicioso inganno.

 La cattiveria dell’uomo, infatti, troverebbe spiegazione, quanto al nome, nell’espressione del latino ecclesiastico captivus diaboli ‘prigioniero del diavolo’.  E così nessuno osa cercare altre strade, perché una pietra pesantissima è stata posta, è il caso di dire diabolicamente  sulla soluzione del problema.  Quando invece sarebbe bastato guardare con occhi limpidi e mente serena   all’interno del  lat. captiv-u(m) ‘prigioniero’ per scoprirne le immense risorse di significato che avrebbero lasciato in pace, almeno in questo caso, il povero diavolo, così tremendamente maledetto ed odiato dalla nostra religione, risorse che avrebbero fatto sciogliere il tenace nodo del nostro problema come neve al sole.
    In sostanza il significato di italiano cattivo indica tutte le qualità e i beni che mancano, sono assenti  in un uomo perché possa considerarsi buono, capace, felice,in forma,  ecc. oppure in una cosa perché possa svolgere al meglio le funzioni per cui è stata fatta.  Nulla di più. L’idea di “cattivo” è amplissima e si riferisce a tutto ciò che, in un uomo, animale o cosa è ‘insufficiente, debole, contrario al suo benessere o alla sua natura’.

     Spero che questo articolo possa aprire gli occhi a quanti purtroppo non si accorgono di tenerli solo semiaperti, non tanto a causa della loro intrinseca insufficienza indagatrice, quanto per la effettiva complessità di questi problemi che comunque, seguendo una certa strada, possono ridurre di moltissimo la loro difficoltà, se non svanite del tutto.  E lo dico senza la minima ombra di prosopopea da parte mia, ma per amore della Parola, come ho già affermato più sopra.

    Se però uno che occupa qualche posto di responsabilità fa lo gnorri, allora non c’è molto da fare.  In questo caso l’umanità intera sarà costretta ad attendere molti anni prima che possa Essere messa al corrente di come si comporta la Lingua. 
  
 





[1] Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani ,UTET, Torino1998,s.v. cattiva









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