sabato 27 luglio 2019

Il verdetto







Il famoso matematico, e non solo, Piergiorgio Odifreddi nel tentativo di spiegare cosa possa significare il termine verità (lat. veritat-em, da lat.ver-um ‘vero’) cerca giustamente (in un video  intitolato Che cos’è la verità) gli etimi delle parole che in alcune altre lingue, oltre al latino, indicano la ‘verità’. Non che l’etimo debba essere considerato la via maestra  per definire l’essenza di un “concetto” ma esso comunque può darci una valida mano in tal senso, anche se spesso è disturbato dall’incrocio con altre radici simili, di cui magari si è persa persino la traccia.

   Il matematico teorizza su quella che a lui appare come evidenza, cioè sul fatto che i romani consideravano verità quella demandata al giudice che esprime la sua  sentenza: il ver-detto, espressione di ascendenza latina tramite l’inglese, sarebbe appunto il giudizio della giuria che si esprime secondo verità. Ma qui, a mio parere, c’è un grosso fraintendimento. Il latino vere dic-ere ‘pronunciarsi (dic-ere) secondo verità (vere) si è, credo, sviluppato  da un precedente verbo tautologico *ver-dic-ere che esprimeva solo l’azione del ‘dire’ in ambo i componenti, di cui il primo, ver-, si ritrova ampliato nel lat. ver-b-u(m) ‘parola’ e, con diverso ampliamento, nel ted. Wor-t ‘parola’, ingl. wor-d ’parola’.  La radice protoindoeuropea è were ‘parlare, dire’.  Insomma l’originario significato dell’espressione latina  vere dictum <*ver-dictum doveva essere semplicemente ‘pronuncia’, termine quest’ultimo che giuridicamente vale proprio ‘sentenza, verdetto’. In greco la parola díkē, apparentata con la radice di lat. dic-ere, aveva assunto diversi significati giuridici come ‘processo, sentenza, verdetto, giustizia’. E’ chiaro che la confusione è nata quando si è verificato l’incrocio col lat. ver-u(m) ‘vero, reale, autentico, sincero, ecc.’, tutto da comprendere nel suo valore etimologico.  In tedesco si ha wahr ‘vero’, una variante della forma latina.

   I più accostano la radice ver- al termine dell’a. slavo  vera ‘fede’ da cui il significato di ‘cosa meritevole di essere creduta’, una cosa a cui  insomma va tutta la nostra fiducia.  Ma questa definizione mi sembra un tantino artificiosa e pertanto preferisco l’altra di chi chiama in causa l’island. vera ‘esistenza’, svedese vara ‘esistenza’ e intende l’aggettivo latino come ‘rispondente alla realtà’.  Sarebbe dunque “vero” quello che ha le caratteristiche di cose veramente esistenti. 

   Infatti anche l’aggettivo it. reale (proveniente da lat. rem ‘cosa’) ha il significato regionale (toscano) di ‘schietto, franco’, valori questi, che sono assunti  sovente dall’it. vero. Anche nel mio dialetto di Aielli l’aggettivo riàlë, riferito a persona, valeva ‘schietto, sincero, leale veritiero’. Allora, a pensarci bene, anche il concetto di “fede”, espresso dall’ a. slavo vera ‘fede’, può rientrare in quello di “lealtà”: la lealtà e la fede sono le qualità di chi rimane saldamente   legato a qualcuno o qualcosa, rivelando la solidità propria della realtà delle cose. Anche l’ingl. true ‘vero’ e talora ‘fedele’ fa capo ad una radice indoeuropea *deru ‘essere fermo, solido’ presente anche nel lat. dur-u(m) ‘duro’ e naturalmente nel ted. treu ‘fedele, sicuro, preciso’. Il concetto di “fedeltà” e di “verità” si incontrano in quello di “stabilità, costanza”.  
  
    Concluderei quindi asserendo che il concetto di “verità”, che per noi ha assunto un’aura astratta proprio perché manca di un sicuro aggancio, nella coscienza del parlante, a qualcosa di concreto,  quasi certamente invece era sinonimo di realtà. A me pare anche che il lat. veri-fic-are ‘provare come vero’ in realtà significasse all’origine tautologicamente solo ‘provare, produrre, sperimentare’ dovendo il primo membro veri- essere ricondotto alla radice che significa ‘esistere’ e, con valore causativo, ’far esistere’.  L’it. verificarsi, poi, non significa propriamente un ‘farsi vero’ ma semmai un ‘farsi, esistere, venire alla luce, accadere, succedere’. 

  Il matematico Odifreddi analizza anche la parola greca alḗtheia ‘verità’ dandone una lettura piuttosto singolare come ‘qualcosa che non si dimentica’[1] e associandola,  a suo dire,  alla verità matematica immutabile, non a quella scientifica che sarebbe di un gradino inferiore all’altra. E questo è vero, cioè il fatto che la scienza non è così credibile come la matematica.  La scienza è sempre una conoscenza superiore a quella  della gente comune, ma comunque ormai abbiamo capito, dopo Einstein,  che le sue “leggi” non durano per sempre.

  La normale interpretazione di gr. a-lḗtheia ’verità’ parte dalla constatazione che la parola è composta dal prefisso alfa (a),  cosiddetto privativo (ha la stessa funzione di lat. in negativo), seguito dalla parola -lḗtheia che contiene un significato di ‘tenere o stare nascosto’: a-lḗtheia sarebbe quindi un alcunchè di “non nascosto”, cioè qualcosa di ‘chiaro, evidente, alla luce del sole’ e quindi di ‘vero’.  Il ragionamento di per sé mi pare accettabile, ma è un po’ strano il fatto che la lingua, nei primordi, pur avendo senz’altro a disposizione aggettivi e sostantivi relativi al concetto di “luce, chiarezza, certezza” si sia, come dire, impelagata in un’espressione che indica indirettamente la chiarezza e la verità da esprimere ricorrendo al concetto opposto di “non  oscuro” . Per la verità qui non si tratterebbe nemmeno del concetto opposto, ma di uno simile, quello di “nascosto” che ha assunto anche il significato di ‘dimenticanza’.
  
 A me sembra che ci sia sotto qualche incrocio che ha prodotto, in una fase linguistica posteriore a quella iniziale, questo modo un po’ artificioso di ragionare. Ne parlerò prossimamente, spero.



[1][1] A dire il vero, già il filosofo tedesco Martin Heidegger, verso la metà del XX sec. a più riprese parlò di questo termine che pare indicare qualcosa di ‘non nascosto’ o di ‘non dimenticato’. Heidegger  in sostanza tentenna circa il significato della parola greca la quale indicherebbe un ‘disvelamento’ delle cose che, secondo lui, non sarebbe ancora la piena verità.  L’usare un’ espressione negativa per la ‘verità’  comporterebbe una diminuzione della positiva verità.






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