Il famoso matematico, e non solo,
Piergiorgio Odifreddi nel tentativo di spiegare cosa possa significare il
termine verità (lat. veritat-em, da lat.ver-um ‘vero’) cerca giustamente (in un video intitolato Che cos’è la verità) gli etimi delle parole che in alcune altre lingue,
oltre al latino, indicano la ‘verità’. Non che l’etimo debba essere considerato
la via maestra per definire l’essenza di
un “concetto” ma esso comunque può darci una valida mano in tal senso, anche se
spesso è disturbato dall’incrocio con altre radici simili, di cui magari si è
persa persino la traccia.
Il matematico teorizza su quella che a lui appare come evidenza, cioè
sul fatto che i romani consideravano verità
quella demandata al giudice che esprime la sua sentenza: il ver-detto, espressione di ascendenza latina tramite l’inglese, sarebbe
appunto il giudizio della giuria che si esprime secondo verità. Ma qui, a mio parere, c’è un grosso
fraintendimento. Il latino vere dic-ere ‘pronunciarsi (dic-ere) secondo verità (vere) si è, credo, sviluppato da un precedente verbo tautologico *ver-dic-ere che esprimeva solo l’azione del
‘dire’ in ambo i componenti, di cui il primo, ver-, si ritrova ampliato
nel lat. ver-b-u(m) ‘parola’
e, con diverso ampliamento, nel ted. Wor-t ‘parola’, ingl. wor-d
’parola’. La radice protoindoeuropea è were
‘parlare, dire’. Insomma l’originario
significato dell’espressione latina vere
dictum <*ver-dictum doveva essere semplicemente ‘pronuncia’, termine
quest’ultimo che giuridicamente vale proprio ‘sentenza, verdetto’. In greco la
parola díkē, apparentata con la radice di lat. dic-ere, aveva assunto diversi significati
giuridici come ‘processo, sentenza, verdetto, giustizia’. E’ chiaro che la confusione
è nata quando si è verificato l’incrocio col lat. ver-u(m) ‘vero, reale, autentico, sincero, ecc.’, tutto da comprendere
nel suo valore etimologico. In tedesco
si ha wahr ‘vero’, una variante della forma latina.
I più accostano la radice ver- al termine dell’a. slavo vera
‘fede’ da cui il significato di ‘cosa meritevole di essere creduta’, una cosa a
cui insomma va tutta la nostra
fiducia. Ma questa definizione mi sembra
un tantino artificiosa e pertanto preferisco l’altra di chi chiama in causa
l’island. vera ‘esistenza’, svedese vara ‘esistenza’ e intende
l’aggettivo latino come ‘rispondente alla realtà’. Sarebbe dunque “vero” quello che ha le
caratteristiche di cose veramente esistenti.
Infatti anche l’aggettivo it. reale (proveniente da lat. rem ‘cosa’)
ha il significato regionale (toscano) di ‘schietto, franco’, valori questi, che
sono assunti sovente dall’it. vero. Anche nel mio dialetto di Aielli
l’aggettivo riàlë, riferito a persona, valeva
‘schietto, sincero, leale veritiero’. Allora, a pensarci bene, anche il
concetto di “fede”, espresso dall’ a. slavo vera
‘fede’, può rientrare in quello di
“lealtà”: la lealtà e la fede sono le qualità di chi rimane saldamente legato
a qualcuno o qualcosa, rivelando la solidità propria della realtà delle cose.
Anche l’ingl. true ‘vero’ e talora ‘fedele’ fa capo ad una radice indoeuropea
*deru ‘essere fermo, solido’ presente
anche nel lat. dur-u(m) ‘duro’ e
naturalmente nel ted. treu ‘fedele, sicuro, preciso’. Il
concetto di “fedeltà” e di “verità” si incontrano in quello di “stabilità,
costanza”.
Concluderei quindi asserendo che il concetto
di “verità”, che per noi ha assunto un’aura astratta proprio perché manca di un
sicuro aggancio, nella coscienza del parlante, a qualcosa di concreto, quasi certamente invece era sinonimo di realtà.
A me pare anche che il lat. veri-fic-are ‘provare come vero’ in
realtà significasse all’origine tautologicamente solo ‘provare, produrre,
sperimentare’ dovendo il primo membro veri- essere ricondotto alla radice
che significa ‘esistere’ e, con valore causativo, ’far esistere’. L’it. verificarsi, poi, non significa
propriamente un ‘farsi vero’ ma semmai un ‘farsi, esistere, venire alla luce,
accadere, succedere’.
Il
matematico Odifreddi analizza anche la parola greca alḗtheia ‘verità’ dandone
una lettura piuttosto singolare come ‘qualcosa che non si dimentica’[1]
e associandola, a suo dire, alla verità
matematica immutabile, non a quella scientifica che sarebbe di un gradino
inferiore all’altra. E questo è vero, cioè il fatto che la scienza non è così
credibile come la matematica. La scienza
è sempre una conoscenza superiore a quella della gente comune, ma comunque ormai abbiamo
capito, dopo Einstein, che le sue
“leggi” non durano per sempre.
La
normale interpretazione di gr. a-lḗtheia ’verità’ parte
dalla constatazione che la parola è composta dal prefisso alfa (a), cosiddetto privativo (ha la stessa funzione
di lat. in negativo), seguito dalla parola -lḗtheia che contiene un significato di ‘tenere o stare nascosto’: a-lḗtheia sarebbe quindi un alcunchè di “non
nascosto”, cioè qualcosa di ‘chiaro, evidente, alla luce del sole’ e quindi di
‘vero’. Il ragionamento di per sé mi
pare accettabile, ma è un po’ strano il fatto che la lingua, nei primordi, pur
avendo senz’altro a disposizione aggettivi e sostantivi relativi al concetto di
“luce, chiarezza, certezza” si sia, come dire, impelagata in un’espressione che
indica indirettamente la chiarezza e la
verità da esprimere ricorrendo al
concetto opposto di “non oscuro” . Per
la verità qui non si tratterebbe nemmeno del concetto opposto, ma di uno
simile, quello di “nascosto” che ha assunto anche il significato di
‘dimenticanza’.
A me
sembra che ci sia sotto qualche incrocio che ha prodotto, in una fase
linguistica posteriore a quella iniziale, questo modo un po’ artificioso di
ragionare. Ne parlerò prossimamente, spero.
[1][1]
A dire il vero, già il filosofo tedesco Martin Heidegger, verso la metà del XX
sec. a più riprese parlò di questo termine che pare indicare qualcosa di ‘non
nascosto’ o di ‘non dimenticato’. Heidegger
in sostanza tentenna circa il significato della parola greca la quale indicherebbe
un ‘disvelamento’ delle cose che, secondo lui, non sarebbe ancora la piena
verità. L’usare un’ espressione negativa
per la ‘verità’ comporterebbe una
diminuzione della positiva verità.
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