"Fare una cosa in quattro e quattr'otto" (compiere una cosa in
men che non si dica) è un’ espressione italianissima, registrata dai buoni
vocabolari, che sembra lontana le mille miglia, però, per la sua incontestabile
e trasparente evidenza, dalla pur minima possibilità che il mio grimaldello
scardinatore ne comprometta la solidità adamantina. Eppure, come al solito,
basta essere convinto che dietro la facciata di queste espressioni che indicano
significati mediante metafore è possibilissimo che si annidi un inganno,
difficilissimo certamente da scovare, perchè la comunità dei parlanti ha
accettato, e da lunga pezza, le espressioni senza batter ciglio, per vedere
apparire, dinanzi agli occhi stupiti, uno strato linguistico precedente in cui
quella data espressione indicava lo stesso concetto, ma con un'immagine diversa
da quella attuale. Anzi, direi che il parlante, nel caso di questa espressione,
non si accorse nemmeno che stesse passando da uno strato all'altro. Supposto,
ad esempio, che una famiglia possegga un ombrello che duri attraverso i secoli,
anche se il colore del tessuto da nero intenso diventa a mano a mano grigio
sbiadito, è difficile che le generazioni si accorgano del lento cambiamento,
anche perchè la funzione che esso svolge resta intatta: copre ancora benissimo
la testa e le spalle della persona che lo porta. Solo uno studioso di cose
antiche potrebbe rendersi conto del cambiamento di colore che è avvenuto a
partire dall'origine.
Ora, per quanto riguarda l'espressione di cui si parla, si è verificato il caso che le singole parole, pur mantenendo grosso modo la sonorità iniziale, e soprattutto il concetto globale iniziale, hanno cambiato significato, tanto da esprimere il concetto globale con altra immagine, non corrispondente a quella originaria.
La cosa è presto detta: all'origine si aveva secondo me l'espressione del latino parlato coacte coacte ociter che significava 'alla svelta alla svelta, rapidamente ' o, più agilmente, 'svelto svelto, veloce' oppure 'subito subito, presto' ricorrendo, come avviene nel linguaggio parlato, alla ripetizione successiva della stessa idea. C'è da notare che la pronuncia di ociter 'velocemente' era divenuta, in bocca al popolo, octe con la caduta della -i- e della finale -r- , per effetto del forte accento iniziale come è avvenuto, non so, nel supino del verbo al-ĕre 'alimentare, allevare', che fa sia al-tum, sia ali-tum. Dalla forma octe quindi si passò automaticamente al numerale lat. octo 'otto'. Dico "automaticamente" perchè i due coacte nel frattempo o contemporaneamente si erano trasformati nell.it. quattro, soprattutto dietro la spinta, credo, della probabile scomparsa, almeno dal vocabolario parlato, dell'avverbio coacte, che non è arrivato in effetti fino a noi. Una notazione di rilievo: il processo di trasformazione della frase iniziale è ben antico, deve risalire almeno al latino classico, per la pronuncia velare (gutturale) della sillaba -ci- di ociter 'rapidamente'. I fenomeni in genere sono più antichi di quanto si pensi. L'it. quattro viene dal lat. quattuor, ma sappiamo benissimo che nel napoletano, ad esempio, esso suona proprio quattë, similissimo al coacte iniziale.
Detto per inciso, non è poi molto improbabile che nel corso della storia
di una lingua qualcuno pensi ad una somma di due numeri, sia pure semplice, per
esprimete avverbialmente una nozione di velocità, rapidità e semplicità, tra
l’abbondanza, in ogni lingua, di radici pronte per l’uso? Si dovrebbe
ugualmente immaginare l’improbabile situazione di qualcuno che, seduto a
tavolino, si diverta a scoprire modi fuori del normale, se non lambiccati, per
raggiungere lo scopo. E perché non si è
scelta qualche altra operazione matematica altrettanto semplice come, non so, due e
due quattro oppure due per due quattro? La risposta
sta nella mia spiegazione dell’ espressione quattro e quatt’otto, che
non lascia la libertà, al supposto escogitatore di espressioni avverbiali, di
scegliere indifferentemente tra diverse locuzioni basate sui numeri,
altrettanto semplici. Abbiamo visto che
l’origine dell’espressione è lontanissima da ciò.
Il coacte ‘alla svelta’ di cui sopra è la forma avverbiale
dell’aggettivo lat. coact-u(m),
participio passato del verbo cog-ĕre ‘raccogliere, coagulare, forzare’ che è giunto fino a noi
attraverso i termini it. coazione,
coattivo, coatto e quatto ma non nella forma avverbiale. La sua
presenza è chiaramente avvertibile, a mio parere, anche nell’espressione
avverbiale gattoni o, con
ripetizione dell’avverbio, gatton gattoni, Esiste, per la
verità, anche la locuzione quattoni o quatton quattoni ma
proprio questa forma ci garantisce che gattoni ne è una reinterpretazione
favorita dalla voce it. gatto (lat.
tardo catt-um ‘gatto’). Tra le due varianti si nota la stessa
differenza che corre tra it. scassare ‘rompere, sfasciare’ e
l’it. squassare ‘scuotere con forza, sconquassare’. Inoltre la formaa gattoni potrebbe aver tratto linfa vitale dall'aggettivo lat. cat-u(m) 'accorto, sagace' significando così all'origine 'con accortezza, con circospezione'. Ma la considerazione che secondo me tronca ogni possibilità di vedere il gatto sotto l'espressione gattoni è il fatto incontestabile che nessun altro animale sia stato coinvolto, sulla sua scia, a formare locuzioni come can-oni, conigli-oni, gall-oni, asin-oni, mul-oni, ecc. Pardon! c'è l'espressione obsoleta cat-ell-on cat-ell-oni 'pian piano, di soppiatto' detto di cane o altro animale che si avvicina alla preda. Ma caso stranissimo, la radice di questa locuzione combacia con quella suddetta di gatt-oni. Solo che in gatt-oni la radice sembrerebbe coincidere con quella di gatto (lat. cat-um) e in cat-ell-oni con quella omofonetica di cat-ell-u(m) 'cagnolino': evidentemente originariamente si trattava di radice unica dal significato generico di 'animale'. E' quindi da concludere che qui il significato di 'cane' o 'gatto' è solo un effetto illusorio causato dalla sovrapposizione dei rispettivi termini per gatto o cane sull'originario 'quatto' o 'accorto'.
Per quanto riguarda il suffisso –oni caratteristico di queste forme
avverbiali, ne Il dizionario della lingua
italiana di T. De Mauro si afferma che si tratta di un suffisso derivato da
aggettivi, verbi e nomi relativi per lo più al corpo umano e dà il seguente
elenco: barcolloni, bocconi, carponi,
ciondoloni, ginocchioni, penzoloni, quattoni, tentoni. Possiamo aggiungere anche il nostro gattoni di cui sopra insieme a tentennoni, sdruccioloni, zoppiconi,
saltelloni. A me pare che la derivazione
da sostantivi sia più apparente che reale, dato che questi avverbi indicano solitamente una
condizione o azione espressa da verbi o aggettivi, come è più naturale, non da
sostantivi i quali si presterebbero meno a designare modi di essere o di agire. Barcolloni, in effetti, presume un
verbo barcoll-are; carponi
presume il verbo lat. carp-ĕre ‘carpire, prendere’, attestato anche nel signif. specifico
di ‘misurare uno spazio passo passo, attraversare, percorrere’; ciondoloni
un ciondol-are; ginocchioni più che all’it. ginocchio (lat. geni-cul-um
‘ginocchio’) rimanda al verbo
lat. genicul-are
‘inginocchiarsi’ o deponente geni-cul-ari ‘inginocchiarsi’; penzoloni presume il verbo penzol-are; quattoni abbiamo visto
che rimanda al partic. passato coact-u(m) come del resto gattoni; tentoni rinvia al verbo tent-are, nel significato di ‘tastare’ da
cui è scaturito l’altro avverbio omosemantico tastoni; tentennoni
presuppone il verbo tentenn-are; chiarissimi sono i verbi di riferimento per sdruccioloni,
zoppiconi
e saltelloni. Resterebbe così fuori solo bocconi, il quale, così
com’è, dovrebbe essere piuttosto vago, a rigor di logica e della presunta
etimologia che richiama la bocca:
infatti gli spagnoli, che in questo caso sembrano ricorrere ugualmente alla bocca, distinguono tra boca abajo
‘bocconi’, letteral. ‘bocca in giù, sotto’ e boca arriba ‘supino’,
letteral. ‘bocca sopra, in alto’.
In effetti, almeno nei nostri dialetti marsicani, ricorre il verbo mmuccà
< *in-bucc-à che significa ‘far inclinare, far capovolgere (vasi,
recipienti o anche altri oggetti)’.
L’etimo generalmente è fatto risalire appunto a bocca. Erroneamente a mio avviso, come ho spiegato nell’articolo La grande famiglia di parole, anche
italiane, collegate al ted. bieg-en
‘piegare’, presente nel mio blog (1 nov. 2013). Per farla breve, io non penso che il valore
di it. rimboccare specie
nell’espressione rimboccare le maniche
abbia a che fare in qualche modo con la bocca, ma semmai con la radice del verbo
ted. bieg-en ‘piegare’ presente anche in ted. Bog-en ‘arco’, ingl. bow ‘arco’, nel verbo
ingl. to bow ‘piegarsi,
inchinarsi’. È molto comprensibile, poi,
che nel caso del marsicano (Aielli, Luco dei Marsi, ecc.) mmuccà ‘inclinare,
capovolgere, rovesciare’ si sia subito insinuata, nel verbo, l’idea di “bocca”,
dato che una bottiglia che si
rovescia, ad esempio, su un tavolo, finisce col collo su di esso, collo che da
noi è chiamato proprio bucc-àjjë ‘boccaglio’.
C’è anche da notare che ad Aielli il participio pass. del verbo mmuccà ‘far cadere, rovesciare’ presenta una
forma più moderna mmucc-àtë ‘rovesciato’, ma anche una antiquata, ora forse scomparsa, che si
può definire forte, e che suona mmùcchë ‘rovesciato’, con l’accento
ritirato sulla prima sillaba e l’assenza di suffisso. Questo participio forte assuona quasi alla
perfezione all’aiellese mmόcca ‘in bocca’, abruzzese ‘m
mόcchë ‘in bocca’, come lo scrive il Bielli[1].
Alla
luce di quanto ho detto, si può sostenere che l’avverbio bocconi ‘prono’ ha
certamente coinvolto l’idea di “bocca” (ma forse originariamente era la pancia e non la bocca a trovarsi a terra: cfr. ted. Bauch ‘pancia’, medio
alto ted. buch ‘pancia’) ma il suo ritrovarsi a terra, appunto, sarà
dovuto all’azione del verbo o dei vari verbi germanici che esprimevano
quest’idea di “inchinarsi, piegarsi, rovesciarsi”.
Per
quanto riguarda gattoni c’è da
osservare che in italiano esiste qualche espressione idiomatica che sfrutta il gatto,
a cominciare da non dire gatto se non ce l’hai nel sacco, che sottolinea la
distanza, a volte enorme, tra il credere di essere in possesso ormai di
qualcosa e l’effettivo entrarne in
possesso. Anche qui protagonista del modo di dire è un eventuale gatto (ricordo che da ragazzi a volte
acchiappavamo qualche gattone bello e
paffuto e… ci facevamo le feste!); ma anche qui esso è solo il paravento di
qualcos’altro, secondo me. Dietro di
esso se ne sta ben appiattato il participio pass. lat. capt-u(m)! ‘preso!’, riferibile non solo a qualche altro animale
(coniglio, lepre, piccione, gallo, gallina, ecc.’ ma, eventualmente, a
qualsiasi cosa di qualche valore, di cui si pensava di essere già in possesso,
prima di metterla al sicuro in una borsa o un sacco. L’espressione dovrebbe essere antica dato che
si ritrova anche nello spagnolo no digas gato si no lo tienes en tu bolso ‘non
dire gatto se non lo tieni nella tua borsa’.
Anche l’espressione quattro gatti si ritrova tale e
quale nella lingua spagnola: cuatro gatos ad indicare un numero ristretto di persone
che si trovano in un luogo. Anche qui vale la stessa domanda del perché si
citino gatti e non cani, ad esempio. . In
questo caso credo che dietro gatti si nasconda ben camuffato il
sostantivo pl. lat. capita che significa ‘capi, teste’ ma anche ‘individui,
persone’: da capita, pronunciato dialettalmente càpëtë, si è passato a càp(ë)të e quindi a catto, gatto. Comunque noto
che anche nello slang inglese o americano cat ‘gatto’ vale proprio ‘individuo,
persona, tipo’, non saprei se per lo stesso motivo che in italiano. Benchè poi il numero quattro (insieme al due)
indichi normalmente un numero ridotto di qualcosa, mi piace rivolgere l’attenzione
al partic. pass. lat. coact-u(m) di cui più sopra: il verbo lat. cog-ĕre significa oltre che costringere
anche raccogliere, limitare, restringere, sicchè poteva
cadere a fagiolo anche il significato di ‘limitato, ristretto’ del participio
nascosto sotto il quattro.
Altro
modo di dire è comprar la gatta (il gatto) nel sacco, cioè, fuor di quella che oggi sembra una metafora, ‘comprare
senza prima controllare la merce (per non avere sorprese)’. Il detto si ritrova
tale e quale anche nel tedesco die Katze im Sacke kaufen, nel
francese acheter chat en poche, nello spagnolo comprar gato en saco. Per lo stesso concetto in italiano abbiamo
l’espressione, più diretta, comprare a
scatola chiusa. Io sono del parere
che in questo caso le espressioni suddette si siano sviluppate inavvertitamente
da una espressione primitiva del tipo *comprare
nel sacco-gatto (con la presenza
di quello che doveva essere un composto tautologico cioè sacco-gatto ‘sacco’) intesa, ad un certo punto dell’evoluzione della
lingua (probabilmente con l’arrivo in
essa del termine gatto relativo
all’animale), come ‘comprare nel sacco gatto’, cioè ‘comprare (un, il) gatto
nel sacco’. Potrebbe anche trattarsi di
un’aggiunta posteriore della voce gatto
riferita all’animale, per attrazione simpatetica, per così dire, esercitata da
un termine omofono per ‘sacco’. Per la
radice di gatto col valore di ‘cavità, buco, stanzino, luogo chiuso,
ripostiglio, ecc.’ cito solo due termini ugualmente tautologici che la
contengono, per non aprire un’altra, magari lunga, discussione su di essi. I termini sono l’it. bugi-gatt-olo, in cui la
prima componente mostra la radice di it. buco, e l’it. gatta-buia, termine popolare molto espressivo per ‘prigione’. Io penso, checchè ne dicano i linguisti, che
la componente gatta- indichi,
appunto, un locale angusto e buio, un buco, un pertugio come quello delle antiche prigioni che certamente non
tenevano conto dei diritti dei carcerati.
La componente –buia potrebbe
però senz’altro essere una radice corrispondente a quella di it. bur-ella ‘corridoio angusto e sotterraneo’
che presenta anche il significato arcaico di ‘prigione’. Esiste anche il
termine chimico bur-etta , un
tubicino di vetro graduato per la misurazione del volume di liquido. Il quale
rimanda al francese bur-ette ‘piccola
ampolla’. E’ quindi vano, a mio parere, pensare che la gatt-aiola, la piccola apertura alla base delle case contadine d’un
tempo, tragga il suo nome da fatto che il gatto vi poteva passare a suo
piacimento: si tratta solo di specializzazione di un termine che in partenza
aveva solo il significato di ‘apertura, buco’.
Ma la
frase idiomatica inglese to buy a pig in a poke ‘comprare a scatola chiusa’ (letteral.
‘comprare un porco in un sacco’) come la spieghiamo? Dopo quello che ho detto è
piuttosto facile, se si ha la pazienza di sfogliare anche qualche esaustivo
vocabolario inglese come il Merriam-Webster dove si incontrano termini come pick-pocket ‘borseggiatore’ (letteral. strappa-borse, scippa-borse), parola ben
nota, ma pochissimo noto è l’altro suo significato di borsa del pastore, erba delle Crucifere dal nome latino di Capsella bursa pastoris ‘Cassetta borsa
del pastore’ in cui Capsella indica il genere e bursa pastoris
l’unica specie. L’insistere della
definizione sul concetto di “cassetta (lat. capsella)”
e “borsa” è dovuto molto probabilmente alla forma del frutto, una siliqua. Ma cosa c’entra questa pianta con il termine pick-pocket ‘borsaiolo’ derivante dal verbo
ingl. to pick ‘cogliere,
strappare’ e dal sostantivo pocket ‘tasca, borsa’ di cui sopra?
L’unica risposta che so dare, secondo i canoni della mia linguistica, è che pick-pocket in questo caso è parola
tautologica la cui prima componente pick- contiene lo stesso significato della seconda componente –pocket ‘tasca, borsa’. Lo conferma, a mio avviso, anche l’ingl. pick-can, un recipiente (-can) di metallo per contenere i fiori
appena colti.
A me sembrano assai astruse e risibili queste
spiegazioni che definiscono a puntino l’oggetto preso in considerazione come se
i nomi fossero nati ieri ol’altro ieri. La stessa cosa si ripete con l’ing. pick sack , una capace sacca pendente dalla
spalla del povero raccoglitore di cotone dove veniva posto il cotone, appunto,
appena colto. Ma se anche l’ingl. pig ‘porco’ significava pure ‘ tipo di fiasco usato (nella distillazione)’
nonché ‘vaso, brocca di terracotta’! Si salvi chi può! A questo punto mi viene
in mente che anche l’it. cata-pecchia per la quale i linguisti
non possono che pasticciare, alla ricerca di un possibile etimo, sia in verità
una passeggiata per la mia linguistica che vede nella parola una tautologia per
‘locale angusto, buco, ecc.’ in cui la prima componente rimanda, ad esempio,
alla gatta-buia ‘prigione’ più sopra citata, e la
seconda componente dovrebbe dipendere dalla radice pick di cui ho testé parlato,
attraverso la trafila *pic-ula (forma diminutiva) > *picla
> *picchia > pècchia.
Anche il lat. api-cula(m) ‘piccola ape’, diminutivo di lat. ap-e(m) ’ape’, ha dato, con aferesi della –a-, il toscano pécchia ‘ape’ che oltretutto ha
perso il valore diminutivo iniziale. In
toscano si incontra anche pécchia ‘buccia’ o ‘pellicola che a mio parere rinvia proprio all’idea di
“cavità, involucro, copertura, recipiente” contenuta nel precedente pick
per ‘borsa’. Inoltre penso che l’ingl. pig-skin ‘pelle di porco, cinghiale’ sia
stato anch’esso un composto tautologico, che ripeteva nei due membri, lo stesso
concetto di “pelle”, allo stesso modo in cui in ingl. pig-nut ‘castagna di
terra’ si ripeteva nei due membri la stessa nozione di “noce, protuberanza, pallottola,
testa, ecc.’. Da non dimenticare l’ingl.
pigg-in ‘sorta di mastello di legno’ che doveva
sfruttare il concetto di “cavita. Buo
ultimo l’ingl. piggy bank ‘salvadanaio’,
il quale spesso viene costruito proprio a forma di porcellino (piggy)
dato che…beh, lo dice il nome stesso!. Ma che puzzle veramente
intricato è la Lingua!
Concludendo, non voglio pensare che la linguistica tradizionale dorma riguardo a questo atteggiamento che bisogna avere dinanzi a certe frasi, perchè so quanto la Lingua sia insidiosa e quanto difficile sia per gli studiosi, senza l'acquisizione di alcune idee nuove rispetto alla natura della Lingua, arrivare a scoprire quello che a me è apparso relativamente facile. Mi auguro che qualcosa cambi. Oggi si esplorano con profitto regioni remotissime del macrocosmo e microcosmo ma per quanto riguarda la natura e l'origine del linguaggio mi pare che non si siano fatti significativi passi in avanti. A parziale correzione di quanto or ora asserito bisogna ammettere che il Linguaggio dell’uomo è molto complicato, essendo esso un prodotto del nostro cervello, il quale, a detta della nota astrofisica Margherita Hack, è più complesso di qualsiasi galassia. Ma, a mio modesto avviso, qualche idea che mi pare di aver individuato sulla sua natura, ne riduce considerevolmente la sua aggrovigliata problematicità.
Amen amen dico vobis.
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