Leggo nel Bielli[1] la voce cata-panë ‘ladra, tasca interna della giacchetta’ che ad Aielli chiamiamo cat-ana: all’interno di queste tasche non
si metteva solitamente il pane ma il
portafoglio o qualche documento da tenere al sicuro. Il Bielli riporta anche cat-anë, rispondente per forma e significato all’aiellese cat-ana,
ma indicante anche una sorta di zaino
(dei mietitori). Il concetto generico di
‘cavità’ di questa radice è confermato dalla voce, sempre del Bielli, cata-funnë ‘luogo assai profondo’ < *cata-fundë. Senza andare oltre
credo che l’it. cat-ino , dal lat. cat-in-u(m) ‘piatto fondo, catino,
crogiolo, cavità (nella roccia), grotta’, contenga la stessa radice. La radice,
d’altronde, nella versione gatta-, l’ho trattata abbastanza
nell’articolo “Fare una cosa in quattro e quattr’otto” presente nel blog
(gennaio 2020).
Procedendo con altri termini composti, che io definirei pane-centrici, cito l’it. tasca-pane,
it. sacca-pane. Questi termini non sono oggetto di molte
osservazioni da parte dei linguisti, perché li ritengono sef-evident, di palmare evidenza.
Ma, Dio buono!, e la voce abruzzese cata-panë ‘tasca interna della giacca’,
che non è fatta per contenere nemmeno un briciolo di pane, dove la mettiamo? Io
non voglio minimamente fare il sapientone perchè a me stesso sfuggono
moltissime parole dei molti dialetti italiani, ma certamente non posso evitare
di trarre la conclusione che il pane,
finito per diventare apparentemente l’elemento chiarificatore e
specificatore di questi composti, è
invece tutto da svelare e da smascherare
come tale.
La
radice, a mio avviso, è variante di quella di lat. pen-it-u(m) ‘interno, profondo’, lat. Pen-at-es ‘Penati, dei protettori della casa che avevano un loro
spazio di culto nell’ interno di essa. All’inizio erano divinità protettrici
delle provviste e del loro ripostiglio: cfr lat. pen-us, oris ‘provviste,
cibarie (riposte) ’. Figurativamente pen- at-es indicava anche il ‘nido’,
‘alveare’. C’è anche l’ingl. pen ‘recinto, chiuso, box (per
bambini)’. E poi bisogna fare i conti con l’it. pane nel significato di
filettatura, una sorta di scanalatura
che si sviluppa intorno ad una vite. Anche
lo spagn. pan-al ‘favo delle api’ credo sia della partita. Se questo è vero è
anche molto improbabile che l’it. pan-iere sia nato in vista del pane da contenere. E pensare che c’è chi, pur munito dell’infula
sacra del linguista, fa derivare la radice, anche se dubitativamente, dalla forma ritorta del filoncino di
pane (sic!). L’ingl. pan
’padella, pentola’, generalmente accostato al lat. patin-a(m) ‘padella,
piatto’, può benissimo essere invece debitore della radice di cui si
parla. Una radice può indicare gli
oggetti più disparati, pur mantenendo, come in questi casi, sempre il valore
generico di fondo. Che la voce tasca,
di incerto etimo, mantenga sempre il valore di cavità è dimostrato a mio
parere dall’abruzzese tasc-ùccë[2]
‘seconda, placenta’ (l’involucro tipico dei mammiferi, che in parole povere
avvolge il feto, e viene espulso subito dopo il parto), dallo spagn. tasca
‘taverna’ e dal campano-calabrese-siciliano tasco[3]
‘casco, cappello tondo e nero’: interessante il nero del cappello che in via non del tutto ipotetica potrebbe richiamare l’ingl. dusk ‘crepuscolo, penombra, ingl. dusky
’scuro, dalla pelle scura’.
La
formazione di molti termini attraverso
la composizione tautologica di due o più membri è un fatto dimostrato
all’inizio di questo articolo e altrove.
I linguisti, che io sappia, ne parlano molto poco e forse non sono
convinti della sua consistenza e veridicità, motivo per cui, come abbiamo visto
qui e altrove, essi non possono essere nella condizione favorevole per capire
quello che per me è un canone inderogabile per cominciare a rendersi conto
della struttura e della natura delle parole, oltre che per individuare i giusti
etimi.
C’è
anche da sottolineare che il setacciamento plurimillenario a cui sono
sottoposte le parole di ogni lingua, perchè esse siano possibilmente adeguate
allo strato linguistico più recente, produce una inevitabile cernita tra di
esse, la quale solitamente relega ai margini le molte parole sentite come
estranee, incomprensibili, non appartenenti alla lingua dominante, in attesa
che finiscano nel dimenticatoio o scompaiano per sempre, a tutto vantaggio di
quelle sentite come chiare, cordiali, indiscutibili: il caso dell’abruzzese cata-pànë ‘tascapane’ di cui sopra, non presente nell’italiano, che
pure preserva un indizio, anche se apparente, relativo al pane fa capire bene il senso
di quello che ho detto.
Concludendo,
butto giù due aggettivi latini su cui ho riflettuto proprio stamani: 1) versi-pell-e(m) ‘versipelle, che si trasforma
(detto del lupo mannaro o delle streghe), furbo, scaltro; 2) versi-col-or-e(m) ‘cangiante, screziato,
variopinto’. Dico subito che non credo
al loro significato superficiale, così evidente. Per me l’elemento –pell-e(m) del primo aggettivo è reinterpretazione di una radice che
compare nel greco pél-ein, pél-esthai ‘muoversi, aggirare, trovarsi,
ecc.’ e, con apofonia, nel gr. pol-eîn ‘voltare, rivoltare la terra, aggirarsi, ecc.’. In latino si avrebbe quindi un composto
tautologico, con la ripetizione del concetto di “mutare, girare”, anche nel
secondo elemento pell-e(m) dove si
nota l’influsso di lat. pell-e(m)’pelle’ (il quale già per conto suo rimanderebbe alla stessa
radice di lat. pale-am ‘paglia’ e
lat. pelv-im’catino, paiolo’). Per l’aggettivo lat. versi-col-or-e(m) penserei al verbo lat. col-ĕre ‘coltivare, curare’ che per i
linguisti sarebbe addirittura l’esito latino di una radice indeuropea che a sua
volta aveva dato in greco l’esito di pél-esthai ‘muoversi, aggirarsi’ e di pol-eîn ‘voltare (la terra), aggirarsi’, ma
che per me era una semplice variante dell’altra, esistente ab antiquo. Ma anche il lat.
col-or-e(m) ‘colore’ aveva una radice che
si prestava al concetto di ‘involucro, avvolgimento, copertura’ ed è la stessa
del lat. cel-are ‘celare, nascondere’: il colore infatti era
inteso, nella preistoria, come ‘la forza che nasconde le cose’. La radice si
ritrova nel ted. hülle ‘involucro, velo, copertura, guscio’. A buon
intenditor poche parole, ma è un vero peccato che la tautologia in linguistica
venga così trascurata!
[1] Cfr. D.
Bielli, Vocabolario abruzzese, A.
Polla Editore, Cerchio-Aq, 2004
[2] Cfr. D.
Bielli, cit.
[3] Cfr.
Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani,
UTET,Torino, 1998. Secondo me è da
scartare l’interpretazione lì riportata, ma dovuta ad altri linguisti, in base
alla quale si tratterebbe della dissimilazione della prima –c-
mutata in –t- , nella parola casco.
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