lunedì 20 gennaio 2020

La sostanza magmatica e versicolore delle parole.



 
   Leggo nel Bielli[1] la voce cata-panë ‘ladra, tasca interna della giacchetta’ che ad Aielli chiamiamo cat-ana: all’interno di queste tasche non si metteva solitamente il pane ma il portafoglio o qualche documento da tenere al sicuro.  Il Bielli riporta anche cat-anë, rispondente per forma e significato all’aiellese cat-ana, ma indicante anche una sorta di zaino (dei mietitori).  Il concetto generico di ‘cavità’ di questa radice è confermato dalla voce, sempre del Bielli, cata-funnë ‘luogo assai profondo’ < *cata-fundë.  Senza andare oltre credo che l’it. cat-ino , dal lat. cat-in-u(m) ‘piatto fondo, catino, crogiolo, cavità (nella roccia), grotta’, contenga la stessa radice. La radice, d’altronde, nella versione gatta-, l’ho trattata abbastanza nell’articolo “Fare una cosa in quattro e quattr’otto” presente nel blog (gennaio 2020).

  Procedendo con altri termini composti, che io definirei pane-centrici, cito l’it. tasca-pane, it. sacca-pane.  Questi termini non sono oggetto di molte osservazioni da parte dei linguisti, perché li ritengono sef-evident, di palmare evidenza.  Ma, Dio buono!, e la voce abruzzese cata-panë ‘tasca interna della giacca’, che non è fatta per contenere nemmeno un briciolo di pane, dove la mettiamo? Io non voglio minimamente fare il sapientone perchè a me stesso sfuggono moltissime parole dei molti dialetti italiani, ma certamente non posso evitare di trarre la conclusione che il pane, finito per diventare apparentemente l’elemento chiarificatore e specificatore  di questi composti, è invece tutto da svelare e da smascherare  come tale. 

   La radice, a mio avviso, è variante di quella di lat. pen-it-u(m) ‘interno, profondo’, lat. Pen-at-es ‘Penati, dei protettori della casa che avevano un loro spazio di culto nell’ interno di essa. All’inizio erano divinità protettrici delle provviste e del loro ripostiglio: cfr lat. pen-us, oris ‘provviste, cibarie (riposte) ’.  Figurativamente pen- at-es indicava anche il ‘nido’, ‘alveare’. C’è anche l’ingl. pen ‘recinto, chiuso, box (per bambini)’. E poi bisogna fare i conti con l’it. pane nel significato di filettatura, una sorta di scanalatura che si sviluppa intorno ad una vite.  Anche lo spagn. pan-al ‘favo delle api’  credo sia della partita. Se questo è vero è anche molto improbabile che l’it. pan-iere sia nato in vista del pane da contenere.  E pensare che c’è chi, pur munito dell’infula sacra del linguista, fa derivare la radice, anche se dubitativamente, dalla forma ritorta del filoncino di pane (sic!).   L’ingl. pan ’padella, pentola’, generalmente accostato al lat. patin-a(m) ‘padella, piatto’, può benissimo essere invece debitore della radice di cui si parla.  Una radice può indicare gli oggetti più disparati, pur mantenendo, come in questi casi, sempre il valore generico di fondo.  Che la voce tasca, di incerto etimo, mantenga sempre il valore di cavità è dimostrato a mio parere dall’abruzzese tasc-ùccë[2] ‘seconda, placenta’ (l’involucro tipico dei mammiferi, che in parole povere avvolge il feto, e viene espulso subito dopo il parto), dallo spagn. tasca ‘taverna’ e dal campano-calabrese-siciliano tasco[3] ‘casco, cappello tondo e nero’: interessante il nero del cappello che in via non del tutto  ipotetica potrebbe richiamare l’ingl. dusk ‘crepuscolo, penombra, ingl. dusky ’scuro, dalla pelle scura’. 

   La formazione di molti termini  attraverso la composizione tautologica di due o più membri è un fatto dimostrato all’inizio di questo articolo e altrove.  I linguisti, che io sappia, ne parlano molto poco e forse non sono convinti della sua consistenza e veridicità, motivo per cui, come abbiamo visto qui e altrove, essi non possono essere nella condizione favorevole per capire quello che per me è un canone inderogabile per cominciare a rendersi conto della struttura e della natura delle parole, oltre che per individuare i giusti etimi.

   C’è anche da sottolineare che il setacciamento plurimillenario a cui sono sottoposte le parole di ogni lingua, perchè esse siano possibilmente adeguate allo strato linguistico più recente, produce una inevitabile cernita tra di esse, la quale solitamente relega ai margini le molte parole sentite come estranee, incomprensibili, non appartenenti alla lingua dominante, in attesa che finiscano nel dimenticatoio o scompaiano per sempre, a tutto vantaggio di quelle sentite come chiare, cordiali, indiscutibili:  il caso dell’abruzzese cata-pànë ‘tascapane’ di cui sopra, non presente nell’italiano, che pure preserva un indizio, anche se apparente, relativo al pane fa capire bene  il senso di quello che ho detto.

  Concludendo, butto giù due aggettivi latini su cui ho riflettuto proprio stamani: 1) versi-pell-e(m) ‘versipelle, che si trasforma (detto del lupo mannaro o delle streghe), furbo, scaltro; 2) versi-col-or-e(m) ‘cangiante, screziato, variopinto’.  Dico subito che non credo al loro significato superficiale, così evidente.  Per me l’elemento –pell-e(m) del primo aggettivo è reinterpretazione di una radice che compare nel greco pél-ein, pél-esthai ‘muoversi, aggirare, trovarsi, ecc.’ e, con apofonia, nel gr. pol-eîn ‘voltare, rivoltare la terra, aggirarsi, ecc.’.   In latino si avrebbe quindi un composto tautologico, con la ripetizione del concetto di “mutare, girare”, anche nel secondo elemento pell-e(m) dove si nota l’influsso di lat. pell-e(m)’pelle’ (il quale già per conto suo rimanderebbe alla stessa radice di lat. pale-am ‘paglia’ e lat. pelv-im’catino, paiolo’).  Per l’aggettivo lat. versi-col-or-e(m) penserei al verbo lat. col-ĕre ‘coltivare, curare’ che per i linguisti sarebbe addirittura l’esito latino di una radice indeuropea che a sua volta aveva dato in greco  l’esito di pél-esthai ‘muoversi, aggirarsi’ e di pol-eîn ‘voltare (la terra), aggirarsi’, ma che per me era una semplice variante dell’altra, esistente ab antiquo.  Ma anche il lat. col-or-e(m) ‘colore’ aveva una radice che si prestava al concetto di ‘involucro, avvolgimento, copertura’ ed è la stessa del lat. cel-are  ‘celare, nascondere’: il colore infatti era inteso, nella preistoria, come ‘la forza che nasconde le cose’. La radice si ritrova nel ted. hülle ‘involucro, velo, copertura, guscio’.  A  buon intenditor poche parole, ma è un vero peccato che la tautologia in linguistica venga così trascurata!
     
  
  

  



[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla Editore, Cerchio-Aq, 2004

[2] Cfr. D. Bielli, cit.

[3] Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET,Torino, 1998.   Secondo me è da scartare l’interpretazione lì riportata, ma dovuta ad altri linguisti, in base alla quale si tratterebbe della dissimilazione della prima –c-  mutata in –t- , nella parola casco.

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