Il verbo dialettale saccutà,
var. sacquëtà ‘scuotere
il sacco (per farne assestare il contenuto)’ è del dialetto di Trasacco-Aq[1], di Luco
dei Marsi, ecc. Potrebbe sembrare che il verbo sia un denominativo dalla voce
dial. sacc-ùta ‘sacco di
questua, sacco del seminatore, bisaccia, ecc.’ o direttamente dal dial. sacchë ‘sacco’, giacché esiste anche la
variante trasaccano-abruzzese sacchià, var. sacquià ‘scuotere il sacco’. Se non esistesse
lo spagn. sacud-ir ‘scuotere, percuotere, colpire, impressionare’ (il quale in
nessun modo può essere accostato allo spagn. saco ‘sacco’ soprattutto
per il generico significato di ‘scuotere’, non riferito solo al sacco), suggerito anche dal Lucarelli,
autore del libro citato, tutti i linguisti (o quasi) si sarebbero precipitati,
come fanno spessissimo, ad indicarne l’etimo evidente! da it.
sacco. Che queste forme derivino dal
lat. ex-cut-ĕre ‘scuotere’ è confermato dall’abruzz. sëccutì ‘scuotere’ che, per il tratto iniziale së-
(derivante dalla preposizione latina
ex perfettiva’), richiama anche il fr. se-cou-er ‘scuotere’. Ma si potrebbe,
giustamente, chiamare in causa il lat. suc-cut-ëre <*sub-cut-ĕre ‘scuotere’,
con il verbo preceduto dalla preposizione
sub ‘sotto’, anche per lo spagn. sa-cud-ir
‘scuotere’. La forma sacchià
‘scuotere il sacco’ si è
uniformata totalmente alla radice di sacco.
A Trasacco-Aq si hanno anche le forme succuà
(simile al fr. se-cou-er ‘scuotere’) e succutà con lo stesso significato
del sopra citato saccutà ‘scuotere il sacco’.
[11] Va
riconosciuto che la sola voce fuori dal coro è quella di G. Devoto, nel suo Dizionario etimologico, Le Monnier,
Firenze, 1968. Devoto nega la percorribilità dell’etimo tradizionale, senza
darne però uno nuovo.
Ancora una volta la Lingua, sempre pronta ad approfittare di ogni
occasione per dare sfogo alla sua tendenza vitale al trasformismo (perché le
permette di specializzare il suo contenuto sempre più generico, man mano che si
va indietro nella sua esistenza), la dà elegantemente a bere a coloro che cercano
di carpirne i segreti, di cui è gelosissima, anche perché essi nascondono una
povertà semantica d’origine dei suoi significati genericissimi, anche se aperti
alle specializzazioni successive.
Un altro esempio è dato, secondo me, dall’it. set-accio o st-accio,
ricondotto da tutti ad un lat. volgare *set-aci-u(m),
tardo lat. saet-aci-u(m) ‘setaccio’, dato che il setaccio può
essere formato da una rete di fili di ferro, di seta, o di crini
vari. Ma anche qui gli studiosi si sbagliano di grosso, perché a
mio avviso non hanno ben meditato sul fatto che la Lingua quasi sempre nomina
direttamente l’oggetto, non in base alla varietà del materiale di cui esso è
composto, ma per indicarne la natura stessa: una conca, ad
esempio, è una conca, appunto, cioè una cavità o
anche, se si vuole, il suo inverso, cioè una protuberanza,
una testa (come nel sardo conca ‘testa’),
ecc. Anche qui infatti, a turbare l’apparentemente solido metodo di
spiegazione tradizionale, convalidato anche, in un certo senso, dalle figure
retoriche della metonimia e della sineddoche (le quali, secondo me, sono state
alimentate invece proprio dall’esistenza nel linguaggio di questi ricorrenti fraintendimenti),
ecco presentarsi il serbo-croato sito ’setaccio,
staccio’ (si trova anche in russo), il rumeno sita ‘setaccio’ a
reclamare i loro diritti di parentela con l’it. set-accio.
In effetti il serbo-croato sito credo che abbia poco da
spartire col concetto di “seta” (che in quella lingua ha altri nomi), ma molto
a che fare, probabilmente, con il ted. sicht-en ‘vagliare,
setacciare’ (esiste anche la variante ted. sieb ‘vaglio,
staccio, colino’, vicina all’ingl. sieve ’setaccio,
colino’ che prende la forma verbale sif-t ‘vagliare,
setacciare’. Il suddetto ted. sicht-en ‘setacciare’
deve essere ampliamento in –t della radice di seig-en,
con la var. seih-en ‘filtrare, colare’, a. a.
ted. sih-an ‘filtrare’, incrociatosi magari con
una radice per ‘fluire, scorrere’, come quella di ingl. sike ‘ruscelletto,
grondaia’ (da cui le diverse Fonti Secche della toponomastica
italiana che in realtà secche non sono), o di ingl.
dialettale sick-er ‘gocciolare, stillare,
colare’, ted. sicker-n 'stillare,
gocciare, trasudare'. Ma forse la radice originaria di queste
parole germaniche era una variante di quella di lat. sec-are ‘segare,
tagliare, dividere, separare’, data la funzione principale di tutti i crivelli,
la quale li caratterizza pienamente per quello che sono, e cioè quella di separare, dividere
il buono dal cattivo, starei per dire il loglio dal grano.
Purtuttavia
le voci suddette sido ‘staccio’, sita ’staccio’,
ecc., diversamente da come ho pensato poco fa, debbono essere considerate
stupendi cloni della radice di gr. sēth-ein ‘passare al setaccio’, gr. dia-sēth-ein ‘vagliare’, che non ha a
che fare con la seta. Il vocabolario
etimologico di O. Pianigiani in rete, cita
un basso latino set-ati-u(m)=
saet-ace-u(m):
ma quest’ultimo non risulta nel latino classico (poteva esistere nel parlato) che
usava seric-u(m) ‘serico,
di seta’. Allora, a mio avviso, il basso
lat. set-ati-u(m) potrebbe essere un composto
tautologico set-at- il cui secondo elemento –at- richiamerebbe il gr. dí-att-os ‘staccio,
filtro’. Nel francese si ha sas
‘staccio’, sass-er ‘stacciare’
che forse richiama lontanamente ionico sá-ein ‘stacciare, filtrare’.
Suppongo che la radice di gr. sḗth-ein ‘setacciare’ abbia qualche parentela con la particella
avversativa lat. sed ‘ma’, arcaico set,
la quale nella forma se-,
diventa prefisso che indica distacco,
separazione come la radice di lat. cri-br-u(m) ‘crivello, staccio’, la quale
richiama il verbo lat. cer-n-ĕre ‘separare,
distinguere, vagliare’, gr. krín-ein ‘separare, distinguere, decidere’. Sarà solo un caso, quindi, che questi
termini che ho citato per staccio
nelle varie lingue, compreso il latino, non facciano riferimento alcuno al
tessuto di seta o altro, di cui dovevano spesso pur essere composti, ma solo
alla funzione separativa o di filtrazione dello staccio?
Nel Vocabolario abruzzese di
D. Bielli si incontra il verbo set-arsë ‘incrinarsi, screpolarsi’
che non può essere fatto derivare da seta
per la somiglianza del segno dell’incrinatura ad un capello, una seta. Allo stesso modo l’incrinatura non è tale perché somigliante ad un crine: il verbo in-crin-are è ricondotto
ad antico fr. en-cren-er ‘intagliare’ probabilmente di origine gallica, ma io
suppongo che comunque la radice dovesse essere connessa con quella suddetta per
‘separare, dividere’. La set-ola, poi, nel linguaggio medico indica una screpolatura della pelle, delle labbra, ecc. e, nel linguaggio veterinario, una vera e propria fenditura
che a volte si forma nello zoccolo del cavallo.
Lo stesso lat. dis-sid-ḗre ‘essere separato, distare,
discordare’ ha tutta l’apparenza di un
incrocio di questa radice sed-, set- per ‘separare’ con quella di lat. sed-ḗre
‘sedere’. Succede spesso che una parola,
finita ai margini della lingua, sopravviva qua e là camuffandosi come
meglio può.
Curioso
è il significato della voce gatt-on-à(re) del toscano meridionale[2]
che è: ‘l’andare del segugio quando ha trovato l’usta’. Il Cortelazzo, facendo derivare il verbo
dalla locuzione andare gattoni, è
costretto ad aggiungere “con la perdita dell’accostamento al modo di muoversi
del gatto, se è riferita proprio al
suo tradizionale nemico”. Ora, a parte
il fatto che una qualche radice cat- per ‘cane’ è ricavabile dal
lat. cat-ul-u(m) ‘cagnolino’ usato poi per
‘piccolo, cucciolo (di ogni animale)’ e anche per ‘cane adulto’, qui non si tratta né di gatti né di cani, ma,
come abbiamo visto nell’articolo di qualche giorno fa Fare una cosa in quattro e
quattr’otto presente nel mio blog (gennaio 2020), si tratta
dell’avverbio lat. coacte, aggett. coact-u(m) da cui l’it. quatto, e l’espressione quatto
quatto! Dio santo! Ma quando si
capirà che la Lingua preferisce il rapporto diretto con i concetti da
esprimere, e non le vie più o meno traverse delle diverse figure retoriche che
ci propinano a basso costo la soluzione?
Un
altro impagabile specchietto per le allodole ci viene offerto dal dialettale
marsicano-abruzzese sagn-όnë ‘minchione,
persona insulsa, dappoco, stupido’ (ricordo che mia madre, quando perdeva le
staffe, lo appioppava talvolta a mio fratello, di sette anni più grande di me (sagnό!), e forse anche a me. Ora, si dà il caso che il dialettale sagna corrisponda, per aferesi o
deglutinazione della prima sillaba la-
avvertita come articolo femminile, all’it. lasagna, fatto derivare dai
linguisti dal termine gr. lásan-on inteso come ‘recipiente’ il quale, però, è quasi una forzatura
del significato attestato, cioè ‘tripode (da cucina), seggetta, arnese da notte
(pitale)’. Il sottoscritto naturalmente non sottoscrive simili supposizioni. In
latino la parola lasan-u(m) è
attestata come ‘vaso da notte’ o al massimo come ‘treppiedi’, fino a prova
contraria. Piuttosto penso che potrebbe essere l’it. lasagna (insieme con le
altre forme uguali dell’area neolatina) ad aver innovato, forse per influsso di
termini come fr. losange ’rombo, losanga’, e per il fenomeno opposto chiamato
agglutinazione, da un originario la sagna, come nei nostri
dialetti. Allora balza evidente ai miei
occhi (anche se non rispondono più come un tempo) la derivazione del dialettale
sagn-όnë ‘minchione, stupido’ (con l’equivalente
it. lasagnone
‘persona grossa, goffa e stupida) dal puro latino sannion-e(m) ‘buffone, zanni’. Da una radice che si ritrova anche nel lat. sann-a(m) ‘smorfia, sberleffo’ e nel gr. sánn-as,
sanní-ōn, sánn-or-os
‘stolto, stupido, insulso’. Il toscano zanni
< veneto zani ‘Gianni’ è una ben nota maschera della Commedia dell’arte,
che impersonava il servo furbo, ma anche quello sciocco. La parola a mio parere deve essersi
incontrata con quella greca o latina precedenti. Il dialettale aiellese sagna indica, oltre all’it. lasagna, anche delle fettuccine
piuttosto corte e rettangolari (lunghe 3-5 cm.) chiamate pure sagn-éttë, e corrispondenti anche alle lasagne ‘strisce di tessuto che
designano il grado nelle divise militari’.
Francamente mi pare un po’ forzato il paragone tra queste strisce indicanti il grado militare e le
it. lasagne ‘grossi pezzi di sfoglia,
conditi e arrotolati in più strati’: il paragone è perfetto con le dialettali sagn-éttë, brevi strisce rettangolari di
pasta (altrove possono essere anche più lunghe). A me sembra che l’elemento che unisce vuoi le
it.
lasagne vuoi le dialettali sagnë
e sagn-éttë sia l’idea di “taglio”, donde
vengono anche i termini tagliat-èllë ‘tagliatelle’ e tajjul-ìnë ‘tagliolini’. Ora, il pezzo tagliato dalla sfoglia (da
arrotolare più volte) per la lasagna è piuttosto grande, quadrangolare o
rettangolare, il pezzo tagliato per le sagnë e le sagn-éttë è piuttosto sottile, breve o lungo che sia. La radice di queste voci credo sia da
cercare tra una variante del lat. sign-u(m) ‘segno, impronta, sigillo, ecc.’, lat. sec-are ‘segare, tagliare’. Il
dialettale sënà< lat. sign-are ‘segnare, tracciare, incidere’ significa ‘incrinare’ e
dialett. sanà vale ‘castrare’ ma
anche (ad Aielli-Aq) ‘lesionare, incrinare’ proveniente, penso, dalla stessa
radice di lat. sac-en-a(m) o lat. sc-en-a(m) ‘scure per i sacrifici’, ingl. saw
‘sega’< ant. ingl. sagu ’sega’ o sage ‘sega’. Allora credo sia perlomeno supponibile la
derivazione di dialett. sanà ‘castrare’ o ‘lesionare’ da un
latino parlato *sagn-are
‘tagliare’> dialett. sanà. La san-ìcë ad Aielli era una ‘lesione, incrinatura’, altrove significava
‘cicatrice’ per essersi molto probabilmente incrociata col verbo it. sanare.
Ma la chicca delle chicche è per me la voce
aiellese-marsicano-abruzzese sallëcc-όnë, var. sëllëcc-όnë ‘sciocco, stupido’ con la notazione in più di ‘alto,
spilungone’ in qualche dialetto. La
sallécca
, var. sëllécca significa ‘baccello’ (ad Aielli vale ‘seme —contenuto
nel baccello’) dal lat. siliqu-a(m) ‘baccello’. Per la
nozione di ‘stupido’ ci va a pennello l’ingl. silly ‘sciocco, scemo,
stupido’ da un precedente *sal-ig, *sel-ig il cui
significato pare abbia subito la trafila da ‘felice’ a ‘beato’, a ‘ingenuo’ e quindi ‘stupido’. O
forse bisogna risalire al lat. salac-on-e(m) ‘spaccone, vanitoso’ dal gr. salák-ōn ‘millantatore’ < aggett. gr. sal-όs ‘sciocco, fatuo’. A Trasacco-Aq. la sëllécca è anche un ceffone, una sberla[3]. A me pare che esso mantenga il sentore di
ingl. slack-en ‘allentare,
diminuire, ridurre’ ma con il significato di it. allentare, nel senso di ‘dare, affibbiare (uno schiaffo)’, come
nell’ingl. slap ‘dare uno schiaffo’, lombardo (veneto, romagnolo, trentino,
ecc.) slèpa[4] ’schiaffo’ ma anche ‘taglio (di carne o
polenta)’, abruzzese femm. plur. scëléppë
‘busse’[5].
Nel dialetto di Trasacco la voce sëllécca
e sëllacca-tura vale anche ‘ferita da taglio lunga
e profonda’ che potrebbe in qualche modo essere accostata alla forma simile ingl. slash ‘taglio, sfregio,
squarcio’. La caratteristica della
pronuncia della –s- in certo senso distaccata dalla consonante seguente di una parola è arcaica, come nel trasaccano sëllìtta
‘slitta’. Ma molto più probabilmente
sono il ted. Schlag ‘colpo, percossa,
ceffone (nell’espressione Schlag ins Gesicht ‘colpo sul volto’)’, il ted. Schlach-t ‘battaglia’ e il ted. schlacht-en ‘ macellare, scannare, massacrare’
a spiegare il significato di sëllécca
‘schiaffo sonoro’ e di sëllacca-tùra ‘taglio profondo’. Il ted. schlag-bar significa proprio ‘ceduo, da taglio’, riferito
ad albero o bosco.
Per
quanto riguarda il concetto di “percossa”, della voce trasaccana sëllécca
‘schiaffo sonoro’ e del relativo verbo sëllëccà ‘schiaffeggiare
sonoramente’, bisogna tirare in ballo anche l’altro verbo dei nostri dialetti saracà
’battere, bastonare, percuotere, schiaffeggiare’[6]
col relativo sostantivo saràca che oltre a significare
‘salacca’ vale anche ‘bastonatura, forte schiaffo o pugno’. Ho già parlato altrove dell’abbastanza
diffuso scambio l/r nei dialetti, motivo per cui è molto probabilmente
sostenibile un originario dialettale *salacà ‘percuotere, schiaffeggiare’
che va ad allinearsi col suddetto sëllëccà ‘percuotere,
schiaffeggiare’, come conferma ulteriormente anche la voce del dialetto di Avezzano-Aq saracόnë ‘persona alta e magra’ che si
allinea , a sua volta, con l’abruzzese
sopracitato sallëccόnë, sëllëccόnë nel significato di
‘spilungone, sciocco’. Un’altra conferma della lettera –l- originaria ci è data
dal sostantivo sàleca ‘scarica di
bòtte’ del dialetto di Castellafiume-Aq,[7]
con l’accento tonico sulla prima sillaba, come nel lat. siliqu-a(m) ‘baccello’, incrociato con queste
voci, come abbiamo visto. A Rocca di
Botte-Aq la voce sàlega[8]
significa ‘grossa tasca posteriore dei cacciatori’. L’autore del libro fa notare che in senso
figurato la voce, nel sintagma na sàlega
de bòtte, significa un ‘sacco di bòtte’. In questo dialetto evidentemente è stata
necessaria la precisazione di “de botte”, mentre a Castellafiume è bastato solo
sàleca
per il significato di ‘bòtte’. La radice
deve essere quella del già citato ted. Schlag ‘colpo, percossa’ e ted Sclach-t ‘battaglia’ a cui si può accostare
l’abruzz. salàtë ‘strage’[9]. Ad Aielli-Aq, il mio paese, esisteva un altro
termine per designare una persona molto alta: esso era saldaiόnë che pare avere
la radice del verbo lat. sal-ire
‘salire’, part. passa. salt-u(m) ‘salito’, forse col significato di ‘elevato, alto’ sebbene
non attestato.
L'espressione
toscana scérco d'acqua 'acquazzone, scroscio
d'acqua'[10]
ricondotta al lat. siliqu-a(m) 'baccello', usato per
indicare unità di misura, è da ricollegare al suddetto sàlega 'scarica
di botte' e quindi 'scarica d'acqua'.
Il
significato di ‘grossa tasca posteriore dei cacciatori’ del dialettale sàlega è a mio parere molto interessante, perché
deve trarre il suo significato dal concetto di “cavità, avvolgimento,
rotondità” e simili, come penso che avvenga per l’ingl. silk ‘seta’ (il quale
doveva indicare, in origine, il bozzolo
del baco da seta) e per il lat. siliqu-a(m) ‘baccello’. Sta di
fatto che i nomi che conosco per baco da
seta mi pare che possano essere ricondotti al concetto di “cavità, bozzolo”
come it. filug-ello ‘baco da seta’, da un supposto termine
settentrionale di origine latina *follic-ell-u(m) ‘piccolo involucro’; it. bombice ‘baco da seta’,
dal gr. bόmbyks ‘baco da seta, seta’ ma anche ‘brocca’, gr. bombykí-as ‘canna per flauti’; l’it. bigio
e big- atto ‘baco da seta’ forse scaturiscono
dalla seconda parte di bόm-byks ‘baco da seta’; it.
caval-iere ‘baco da seta’
sfrutta la radice caval- ‘cavità’, ampliamento del lt. cav-u(m)’cavo’, di cui
ho parlato abbastanza in altro articolo di cui non ricordo il titolo. Il baco
è addirittura chiamato gatta, una voce regionale
settentrionale: nell’articolo di pochi
giorni fa intitolato In quattro e quattr’otto ho parlato
del concetto di “cavità, buca, ecc.’ che talora la voce gatta, gatto assume in
parole italiane come gatta-buia ‘prigione’. Lo stesso
nome baco ‘larva del baco’ potrebbe
essere un’evoluzione dal concetto di “cavità, bacc-ello”, incrociatosi con qualche termine per ‘insetto, germe,
microbo’ simile all’ingl. bug ‘cimice, insetto’.
Il
fatto è che, a mio avviso, nella lontana preistoria a cui possono risalire
questi termini, l’uomo non aveva ancora imparato a ricavare la fibra tessile
della seta, e quindi non aveva ancora un nome per indicarla, ma certamente
aveva imparato, da lunga pezza, a dare il nome al caratteristico bozzolo entro cui si rinchiudeva.
Meraviglia delle meraviglie, non avrei mai creduto che il significato
dell’abruzzese suddetto sëllëcc-όnë ‘spilungone, sciocco’ nel lontano
passato si fosse incrociato col ted. Schlak-s, var. Schläk-s ‘uomo alto e goffo’. Per
chi non conoscesse il tedesco faccio notare che il suono sch corrisponde all’inglese sh che ha il valore di una –s- fricativa palatale sorda, spesso
evoluzione della semplice –s- come in
ted. Schwein ‘porco, maiale’ corrispondente
all’aggett. lat. suin-u(m) ‘suino, di porco’. Sicchè è pacifico che una forma originaria
*selag-s, *seleg-s col significato pressappoco di ‘uomo alto e goffo’ (similissima al dialettale sëllécca
‘baccello’ sopracitato) sia diventata nel tedesco mod. Schlak-s, var. Schläk-s ‘uomo alto e goffo’. Faccio notare che
la trasformazione della –s- nel suono
fricativo-palatale era abbastanza presente anche nei nostri dialetti. Ad Aielli-Aq e Trasacco-Aq esiste, accanto al
verbo sëmëndà ‘seminare’
anche la forma scëmëndà col valore di
‘disperdere, sparpagliare disordinatamente, scarmigliare i capelli, ecc.’.
Anche
il toscano bacc-ello o baccell-one
per ‘sciocco, stupido’ non è affatto da credere che sia una forma derivata
da it bacc-ello. Già in
altro articolo di cui non ricordo il titolo ho spiegato che il lat. im-becill-e(m)
‘debole’ non va inteso, come solitamente si fa fin dall’antichità[11],
quasi un ‘senza bastone’ e quindi ‘senza forza’, ma va messo in rapporto con il
verbo abruzzese bacul-arsë , bacul-irsë ‘indebolirsi’ il quale ha, secondo
me, la stessa radice di ingl. weak ‘debole’ e anche ‘debole di
discernimento’, ant. ingl wac ‘pieghevole, soffice, debole’ e
quindi eccoci arrivati ad it. imbecille! Con il prefisso in- di valore intensivo. Da quanto sopra detto si desume che
è vano credere, come del resto ho spesso ripetuto, che le parole si presentino
a noi con un volto sincero, chiaro, senza ambiguità. Eppure la linguistica tradizionale continua
imperterrita a considerarle, in moltissimi casi, come genuine e degne di fede
mentre esse se la ridono sotto i baffi.
Nessuno, che io sappia, le smaschera come modestamente faccio io:
pertanto chiedo venia se considero questo metodo, un po’ vanitosamente, come un
genuino prodotto targato Maccallini. Del resto me ne assumo
ogni responsabilità, col rischio di venire beffeggiato anche dall’ultimo
arrivato, che non tiene in nessun conto
la mia genuina e appassionata dedizione di una vita. Del resto perché mai
dovrebbe? Absit tamen prava vanitas verbo!
[1] Cfr. Q.
Lucarelli, Biabbà Q-Z , Grafiche Di
Censo, Avezzano-Aq, 2003.
[2] Cfr.
Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani,
UTET, Torino, 1998.
[3] Cfr. Q.
Lucarelli, Biabbà Q-Z, Grafiche Di
Censo, Avezzano-Aq, 2003.
[4] Cfr.
Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani
UTET, Torino 1998.
[5] Cfr. D.
Bielli, Vocabolario abruzzese, A.
Polla editore, Cerchio-Aq, 2004
[6] Cfr. Q.
Lucarelli, cit.
[7] Cfr. D.
Di Nicola, Storia di Castellafiume,
Grafiche Di censo, Avezzano-Aq, 2007.
[8] Cfr. M.
Marzolini, “me ‘nténni?”, Arti Grafiche Tofani, Alatri-Fr, 1995.
[9] Cfr. D.
Bielli, Vocabolario abruzzese, A.
Polla editore, Cerchio-Aq, 2004.
9 Cfr. Cortelazzo- Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino, 1998.
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