giovedì 23 gennaio 2020

Specchietti per le allodole.



        Il verbo dialettale saccutà, var. sacquë ‘scuotere il sacco (per farne assestare il contenuto)’ è del dialetto di Trasacco-Aq[1], di Luco dei Marsi, ecc. Potrebbe sembrare che il verbo sia un denominativo dalla voce dial. sacc-ùta ‘sacco di questua, sacco del seminatore, bisaccia, ecc.’ o direttamente dal dial. sacchë ‘sacco’, giacché esiste anche la variante trasaccano-abruzzese sacchià, var. sacquià ‘scuotere il sacco’. Se non esistesse lo spagn.  sacud-ir ‘scuotere, percuotere, colpire, impressionare’ (il quale in nessun modo può essere accostato allo spagn. saco ‘sacco’ soprattutto per il generico significato di ‘scuotere’, non riferito solo al sacco), suggerito anche dal Lucarelli, autore del libro citato, tutti i linguisti (o quasi) si sarebbero precipitati, come fanno spessissimo, ad indicarne l’etimo evidente!  da it. sacco.  Che queste forme derivino dal lat. ex-cut-ĕre ‘scuotere’ è confermato dall’abruzz. sëccutì  ‘scuotere’ che, per il tratto iniziale së- (derivante dalla preposizione latina ex perfettiva’), richiama anche il fr. se-cou-er ‘scuotere’. Ma si potrebbe, giustamente, chiamare in causa il lat. suc-cut-ëre <*sub-cut-ĕre ‘scuotere’, con il verbo preceduto dalla preposizione sub ‘sotto’, anche per lo spagn.  sa-cud-ir ‘scuotere’.  La forma sacchià ‘scuotere il sacco’  si è uniformata totalmente alla radice di sacco.  A Trasacco-Aq si hanno anche le forme succuà (simile al fr. se-cou-er ‘scuotere’) e succutà con lo stesso significato del sopra citato saccutà ‘scuotere il sacco’.

   Ancora una volta la Lingua, sempre pronta ad approfittare di ogni occasione per dare sfogo alla sua tendenza vitale al trasformismo (perché le permette di specializzare il suo contenuto sempre più generico, man mano che si va indietro nella sua esistenza), la dà elegantemente a bere a coloro che cercano di carpirne i segreti, di cui è gelosissima, anche perché essi nascondono una povertà semantica d’origine dei suoi significati genericissimi, anche se aperti alle specializzazioni successive.

Un altro esempio è dato, secondo me, dall’it. set-accio st-accio, ricondotto da tutti ad un lat. volgare *set-aci-u(m), tardo lat. saet-aci-u(m) ‘setaccio’, dato che il setaccio può essere formato da una rete di fili di ferro, di seta, o di crini vari.   Ma anche qui gli studiosi si sbagliano di grosso, perché a mio avviso non hanno ben meditato sul fatto che la Lingua quasi sempre nomina direttamente l’oggetto, non in base alla varietà del materiale di cui esso è composto, ma per indicarne  la natura stessa: una conca, ad esempio, è una conca, appunto, cioè una cavità o anche, se si vuole, il suo inverso, cioè una protuberanza, una testa (come nel sardo conca ‘testa’), ecc.  Anche qui infatti, a turbare l’apparentemente solido metodo di spiegazione tradizionale, convalidato anche, in un certo senso, dalle  figure retoriche della metonimia e della sineddoche (le quali, secondo me, sono state alimentate invece proprio dall’esistenza nel linguaggio di questi ricorrenti fraintendimenti), ecco presentarsi il serbo-croato sito ’setaccio, staccio’ (si trova anche in russo), il rumeno sita ‘setaccio’ a reclamare i loro diritti di parentela con l’it. set-accio.  In effetti il serbo-croato sito credo che abbia poco da spartire col concetto di “seta” (che in quella lingua ha altri nomi), ma molto a che fare, probabilmente, con il ted. sicht-en ‘vagliare, setacciare’ (esiste anche la variante ted. sieb ‘vaglio, staccio, colino’, vicina all’ingl. sieve ’setaccio, colino’ che prende la forma verbale sif-t ‘vagliare, setacciare’.  Il suddetto ted. sicht-en ‘setacciare’ deve essere ampliamento in –t della radice di seig-en, con la var. seih-en ‘filtrare, colare’, a. a. ted. sih-an ‘filtrare’, incrociatosi magari con una radice per ‘fluire, scorrere’, come quella di ingl. sike ‘ruscelletto, grondaia’ (da cui le diverse Fonti Secche della toponomastica italiana che in realtà secche  non sono), o di ingl. dialettale sick-er ‘gocciolare, stillare, colare’, ted. sicker-n 'stillare, gocciare, trasudare'. Ma forse la radice originaria di queste parole germaniche era una variante di quella di lat. sec-are ‘segare, tagliare, dividere, separare’, data la funzione principale di tutti i crivelli, la quale  li caratterizza pienamente per quello che sono, e cioè quella di separaredividere  il buono dal cattivo, starei per dire il loglio dal grano.

   Purtuttavia le voci suddette sido ‘staccio, sita ’staccio’, ecc., diversamente da come ho pensato poco fa, debbono essere considerate stupendi cloni della radice di gr. sēth-ein ‘passare al setaccio’, gr. dia-sēth-ein ‘vagliare’, che non ha a che fare con la seta.  Il vocabolario etimologico di O. Pianigiani in rete, cita  un basso latino  set-ati-u(m)= saet-ace-u(m): ma quest’ultimo non risulta nel latino classico (poteva esistere nel parlato) che usava seric-u(m) ‘serico, di seta’.  Allora, a mio avviso, il basso lat. set-ati-u(m) potrebbe essere un composto tautologico set-at- il cui secondo elemento –at- richiamerebbe il gr. dí-att-os ‘staccio, filtro’.  Nel francese si ha sas ‘staccio’, sass-er ‘stacciare’ che forse richiama lontanamente ionico -ein ‘stacciare, filtrare’.

   Suppongo che la radice di gr. sḗth-ein ‘setacciare’ abbia qualche parentela con la particella avversativa lat. sed ‘ma’, arcaico setla quale nella forma se-, diventa prefisso che indica distacco, separazione come la radice di lat. cri-br-u(m) ‘crivello, staccio’, la quale richiama il verbo lat. cer-n-ĕre ‘separare, distinguere, vagliare’, gr. krín-ein ‘separare, distinguere, decidere’.    Sarà solo un caso, quindi, che questi termini che ho citato per staccio nelle varie lingue, compreso il latino, non facciano riferimento alcuno al tessuto di seta o altro, di cui dovevano spesso pur essere composti, ma solo alla funzione separativa o di filtrazione dello staccio?

       Nel Vocabolario abruzzese di D. Bielli si incontra il verbo set-arsë ‘incrinarsi, screpolarsi’  che non può essere fatto derivare da seta per la somiglianza del segno dell’incrinatura ad un capello, una seta.  Allo stesso modo l’incrinatura non è tale perché somigliante ad un crine: il verbo in-crin-are è ricondotto ad antico fr. en-cren-er ‘intagliare’ probabilmente di origine gallica, ma io suppongo che comunque la radice dovesse essere connessa con quella suddetta per ‘separare, dividere’.    La set-ola, poi, nel linguaggio medico indica una screpolatura della pelle, delle labbra, ecc. e, nel linguaggio  veterinario, una vera e propria fenditura che a volte si forma nello zoccolo del cavallo.  Lo stesso lat. dis-sid-ḗre ‘essere separato, distare, discordare’  ha tutta l’apparenza di un incrocio di questa radice sed-, set- per ‘separare’ con quella di lat. sed-ḗre ‘sedere’.  Succede spesso che una parola, finita ai margini della lingua, sopravviva qua e là camuffandosi come meglio  può. 

      Curioso è il significato della voce gatt-on-à(re) del toscano meridionale[2] che è: ‘l’andare del segugio quando ha trovato l’usta’.  Il Cortelazzo, facendo derivare il verbo dalla locuzione andare gattoni, è costretto ad aggiungere “con la perdita dell’accostamento al modo di muoversi del gatto, se è riferita proprio al suo tradizionale nemico”.  Ora, a parte il fatto che una qualche radice cat- per ‘cane’ è ricavabile dal lat. cat-ul-u(m) ‘cagnolino’ usato poi per ‘piccolo, cucciolo (di ogni animale)’ e anche per ‘cane adulto’, qui  non si tratta né di gatti né di cani, ma, come abbiamo visto nell’articolo di qualche giorno fa Fare una cosa in quattro e quattr’otto presente nel mio blog (gennaio 2020), si tratta dell’avverbio lat. coacte, aggett. coact-u(m) da cui l’it. quatto, e l’espressione quatto quatto!  Dio santo! Ma quando si capirà che la Lingua preferisce il rapporto diretto con i concetti da esprimere, e non le vie più o meno traverse delle diverse figure retoriche che ci propinano a basso costo la soluzione?

   Un altro impagabile specchietto per le allodole ci viene offerto dal dialettale marsicano-abruzzese sagn-όnë ‘minchione, persona insulsa, dappoco, stupido’ (ricordo che mia madre, quando perdeva le staffe, lo appioppava talvolta a mio fratello, di sette anni più grande di me (sagnό!), e forse anche a me.  Ora, si dà il caso che il dialettale sagna corrisponda, per aferesi o deglutinazione della prima sillaba la- avvertita come articolo femminile, all’it. lasagna, fatto derivare dai linguisti dal termine gr. lásan-on inteso come ‘recipiente’ il quale, però, è quasi una forzatura del significato attestato, cioè ‘tripode (da cucina), seggetta, arnese da notte (pitale)’. Il sottoscritto naturalmente non sottoscrive simili supposizioni. In latino la parola lasan-u(m) è attestata come ‘vaso da notte’ o al massimo come ‘treppiedi’, fino a prova contraria. Piuttosto penso che potrebbe essere l’it. lasagna (insieme con le altre forme uguali dell’area neolatina) ad aver innovato, forse per influsso di termini come fr. losange ’rombo, losanga’, e per il fenomeno opposto chiamato agglutinazione, da un originario la sagna, come nei nostri dialetti.  Allora balza evidente ai miei occhi (anche se non rispondono più come un tempo) la derivazione del dialettale sagn-όnë ‘minchione, stupido’ (con l’equivalente it. lasagnone ‘persona grossa, goffa e stupida) dal puro latino sannion-e(m) ‘buffone, zanni’.  Da una radice che si ritrova anche nel lat. sann-a(m) ‘smorfia, sberleffo’ e nel gr. sánn-as, sanní-ōn, sánn-or-os ‘stolto, stupido, insulso’.  Il toscano zanni < veneto zani ‘Gianni’ è una ben nota maschera della Commedia dell’arte, che impersonava il servo furbo, ma anche quello sciocco.  La parola a mio parere deve essersi incontrata con quella greca o latina precedenti.  Il dialettale aiellese  sagna indica, oltre all’it. lasagna, anche delle fettuccine piuttosto corte e rettangolari (lunghe 3-5 cm.) chiamate pure sagn-éttë, e corrispondenti anche  alle lasagne ‘strisce di tessuto che designano il grado nelle divise militari’. 

     Francamente mi pare un po’ forzato il paragone tra queste strisce indicanti il grado militare e le it. lasagne ‘grossi pezzi di sfoglia, conditi e arrotolati in più strati’: il paragone è perfetto con le dialettali sagn-éttë, brevi strisce rettangolari di pasta (altrove possono essere anche più lunghe).  A me sembra che l’elemento che unisce vuoi le it. lasagne vuoi le  dialettali sagnë e sagn-éttë sia l’idea di “taglio”, donde vengono   anche i termini tagliat-èllë ‘tagliatelle’ e tajjul-ìnë ‘tagliolini’.   Ora, il pezzo tagliato dalla sfoglia (da arrotolare più volte) per la lasagna è piuttosto grande, quadrangolare o rettangolare, il pezzo tagliato per le sagnë e le sagn-éttë è piuttosto sottile, breve o lungo che sia.    La radice di queste voci credo sia da cercare tra una variante del lat. sign-u(m) ‘segno, impronta, sigillo, ecc.’, lat. sec-are ‘segare, tagliare’.  Il dialettale sënà< lat. sign-are ‘segnare, tracciare, incidere’ significa ‘incrinare’ e dialett. sanà  vale ‘castrare’ ma anche (ad Aielli-Aq) ‘lesionare, incrinare’ proveniente, penso, dalla stessa radice di lat. sac-en-a(m) o lat. sc-en-a(m) ‘scure per i sacrifici’, ingl. saw ‘sega’< ant. ingl. sagu ’sega’ o sage ‘sega’.  Allora credo sia perlomeno supponibile la derivazione di dialett. sanà ‘castrare’ o ‘lesionare’ da un latino parlato *sagn-are ‘tagliare’> dialett. sanàLa san-ìcë ad Aielli era una ‘lesione, incrinatura’, altrove significava ‘cicatrice’ per essersi molto probabilmente incrociata col verbo it. sanare.

    Ma la chicca delle chicche è per me la voce aiellese-marsicano-abruzzese sallëcc-όnë, var. sëllëcc-όnë ‘sciocco, stupido’ con la notazione in più di ‘alto, spilungone’ in qualche dialetto.  La sallécca , var. sëllécca significa ‘baccello’ (ad Aielli vale ‘seme —contenuto nel baccello’) dal lat. siliqu-a(m) ‘baccello’.  Per la nozione di ‘stupido’ ci va a pennello l’ingl. silly ‘sciocco, scemo, stupido’ da un precedente *sal-ig, *sel-ig il cui significato pare abbia subito la trafila da ‘felice abeato’, a ‘ingenuo’ e quindistupido’.  O forse bisogna risalire al lat. salac-on-e(m) ‘spaccone, vanitoso’ dal gr. salák-ōn ‘millantatore’ < aggett. gr. sal-όs ‘sciocco, fatuo’. A Trasacco-Aq. la sëllécca è anche un ceffone, una sberla[3].  A me pare che esso mantenga il sentore di ingl. slack-en ‘allentare, diminuire, ridurre’ ma con il significato di it. allentare, nel senso di ‘dare, affibbiare (uno schiaffo)’, come nell’ingl. slap ‘dare uno schiaffo’, lombardo (veneto, romagnolo, trentino, ecc.) slèpa[4] ’schiaffo’ ma anche ‘taglio (di carne o polenta)’, abruzzese femm. plur. scëléppë ‘busse’[5]. Nel dialetto di Trasacco la voce  sëllécca e sëllacca-tura vale anche ‘ferita da taglio lunga e profonda’ che potrebbe in qualche modo essere accostata alla forma simile  ingl. slash ‘taglio, sfregio, squarcio’.  La caratteristica della pronuncia della –s- in certo senso distaccata dalla consonante seguente di una parola  è arcaica, come nel trasaccano sëllìtta ‘slitta’.   Ma molto più probabilmente sono  il ted. Schlag ‘colpo, percossa, ceffone (nell’espressione Schlag ins Gesicht ‘colpo sul volto’)’, il ted. Schlach-t ‘battaglia’ e il ted. schlacht-en ‘ macellare, scannare, massacrare’ a  spiegare il significato di sëllécca ‘schiaffo sonoro’ e di  sëllacca-tùra ‘taglio profondo’. Il ted. schlag-bar  significa proprio ‘ceduo, da taglio’, riferito ad albero o bosco.  

    Per quanto riguarda il concetto di “percossa”, della voce trasaccana sëllécca ‘schiaffo sonoro’ e del relativo verbo sëllëccà ‘schiaffeggiare sonoramente’, bisogna tirare in ballo anche l’altro verbo dei nostri dialetti saracà ’battere, bastonare, percuotere, schiaffeggiare’[6] col relativo sostantivo saràca che oltre a significare ‘salacca’ vale anche ‘bastonatura, forte schiaffo o pugno’.  Ho già parlato altrove dell’abbastanza diffuso scambio l/r nei dialetti, motivo per cui è molto probabilmente sostenibile un originario dialettale *salacà ‘percuotere, schiaffeggiare’ che va ad allinearsi col suddetto sëllëccà ‘percuotere, schiaffeggiare’, come conferma ulteriormente anche la voce  del dialetto di Avezzano-Aq  saracόnë ‘persona alta e magra’ che si allinea , a sua volta,  con l’abruzzese sopracitato sallëccόnë, sëllëccόnë nel significato di ‘spilungone, sciocco’. Un’altra conferma della lettera –l- originaria ci è data dal sostantivo sàleca ‘scarica di bòtte’ del dialetto di Castellafiume-Aq,[7] con l’accento tonico sulla prima sillaba, come nel lat. siliqu-a(m) ‘baccello’, incrociato con queste voci, come abbiamo visto.  A Rocca di Botte-Aq la voce sàlega[8] significa ‘grossa tasca posteriore dei cacciatori’.  L’autore del libro fa notare che in senso figurato la voce, nel sintagma  na sàlega de bòtte, significa un ‘sacco di bòtte’.  In questo dialetto evidentemente è stata necessaria la precisazione di “de botte”, mentre a Castellafiume è bastato solo sàleca per il significato di ‘bòtte’.  La radice deve essere quella del già citato ted. Schlag ‘colpo, percossa’ e ted Sclach-t ‘battaglia’ a cui si può accostare l’abruzz. salàtë ‘strage’[9].  Ad Aielli-Aq, il mio paese, esisteva un altro termine per designare una persona molto alta: esso era saldaiόnë che pare avere la radice  del verbo lat. sal-ire ‘salire’, part. passa. salt-u(m) ‘salito’, forse col significato di ‘elevato, alto’ sebbene non attestato.

     L'espressione toscana scérco d'acqua 'acquazzone, scroscio d'acqua'[10] ricondotta al lat. siliqu-a(m) 'baccello', usato per indicare unità di misura, è da ricollegare al suddetto sàlega 'scarica di botte' e quindi 'scarica d'acqua'.

     Il significato di ‘grossa tasca posteriore dei cacciatori’ del dialettale sàlega  è a mio parere molto interessante, perché deve trarre il suo significato dal concetto di “cavità, avvolgimento, rotondità” e simili, come penso che avvenga per l’ingl. silk ‘seta’ (il quale doveva indicare, in origine, il bozzolo del baco da seta) e per il lat. siliqu-a(m) ‘baccello’.  Sta di fatto che i nomi che conosco per baco da seta mi pare che possano essere ricondotti al concetto di “cavità, bozzolo” come it. filug-ello ‘baco da seta’, da un supposto termine settentrionale di origine latina *follic-ell-u(m) ‘piccolo involucro’; it. bombice ‘baco da seta’, dal gr. bόmbyks ‘baco da seta, seta’ ma anche ‘brocca’, gr. bombykí-as ‘canna per flauti’; l’it. bigio e big- atto ‘baco da seta’ forse scaturiscono dalla seconda parte di bόm-byks ‘baco da seta’; it. caval-iere ‘baco da seta’ sfrutta la radice caval- ‘cavità’, ampliamento del lt. cav-u(m)’cavo’, di cui ho parlato abbastanza in altro articolo di cui non ricordo il titolo.  Il baco è addirittura chiamato gatta, una voce regionale settentrionale: nell’articolo  di pochi giorni fa intitolato In quattro e quattr’otto ho parlato del concetto di “cavità, buca, ecc.’ che talora la voce gatta, gatto assume in parole italiane come gatta-buia ‘prigione’.  Lo stesso nome baco ‘larva del baco’ potrebbe essere un’evoluzione dal concetto di “cavità, bacc-ello”, incrociatosi con qualche termine per ‘insetto, germe, microbo’ simile all’ingl. bug ‘cimice, insetto’.

   Il fatto è che, a mio avviso, nella lontana preistoria a cui possono risalire questi termini, l’uomo non aveva ancora imparato a ricavare la fibra tessile della seta, e quindi non aveva ancora un nome per indicarla, ma certamente aveva imparato, da lunga pezza, a dare il nome al caratteristico bozzolo entro cui si rinchiudeva.

   Meraviglia delle meraviglie, non avrei mai creduto che il significato dell’abruzzese suddetto  sëllëcc-όnë ‘spilungone, sciocco’ nel lontano passato si fosse incrociato col ted. Schlak-s, var. Schläk-s ‘uomo alto e goffo’.  Per chi non conoscesse il tedesco faccio notare che il suono sch corrisponde all’inglese sh che ha il valore di una –s- fricativa palatale sorda, spesso evoluzione della semplice –s- come in ted. Schwein ‘porco, maiale’ corrispondente all’aggett.  lat. suin-u(m) ‘suino, di porco’. Sicchè è pacifico che una forma originaria *selag-s, *seleg-s col significato pressappoco di ‘uomo alto e goffo’ (similissima al dialettale sëllécca ‘baccello’ sopracitato) sia diventata nel tedesco mod. Schlak-s, var. Schläk-s ‘uomo alto e goffo’. Faccio notare che la trasformazione della –s- nel suono fricativo-palatale era abbastanza presente anche nei nostri dialetti.  Ad Aielli-Aq e Trasacco-Aq esiste, accanto al verbo mëndà ‘seminare’ anche la forma scëmëndà col valore di ‘disperdere, sparpagliare disordinatamente, scarmigliare i capelli, ecc.’. 

   Anche il toscano bacc-ello o baccell-one per ‘sciocco, stupido’ non è affatto da credere che sia una forma derivata da it bacc-ello. Già in altro articolo di cui non ricordo il titolo ho spiegato che il lat. im-becill-e(m) ‘debole’ non va inteso, come solitamente si fa fin dall’antichità[11], quasi un ‘senza bastone’ e quindi ‘senza forza’, ma va messo in rapporto con il verbo abruzzese bacul-arsë , bacul-irsë ‘indebolirsi’ il quale ha, secondo me, la stessa radice di ingl. weak ‘debole’ e anche ‘debole di discernimento’, ant. ingl wac ‘pieghevole, soffice, debole’ e quindi eccoci arrivati ad it. imbecille! Con il prefisso in- di valore intensivo.    Da quanto sopra detto si desume che è vano credere, come del resto ho spesso ripetuto, che le parole si presentino a noi con un volto sincero, chiaro, senza ambiguità.  Eppure la linguistica tradizionale continua imperterrita a considerarle, in moltissimi casi, come genuine e degne di fede mentre esse se la ridono sotto i baffi.

   Nessuno, che io sappia, le smaschera come modestamente faccio io: pertanto chiedo venia se considero questo metodo, un po’ vanitosamente, come un genuino prodotto targato Maccallini. Del resto me ne assumo ogni responsabilità, col rischio di venire beffeggiato anche dall’ultimo arrivato, che non tiene  in nessun conto la mia genuina e appassionata dedizione di una vita. Del resto perché mai dovrebbe? Absit  tamen prava vanitas verbo!
  
  


[1] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà Q-Z , Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2003.

[2] Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino, 1998. 

[3] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà Q-Z, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2003.

[4] Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani UTET, Torino 1998.

[5] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq, 2004

[6] Cfr. Q. Lucarelli, cit.

[7] Cfr. D. Di Nicola, Storia di Castellafiume, Grafiche Di censo, Avezzano-Aq, 2007.

[8] Cfr. M. Marzolini, “me ‘nténni?”, Arti Grafiche Tofani, Alatri-Fr,  1995.

[9] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq, 2004.

9 Cfr. Cortelazzo- Marcato, I dialetti italiani, UTET, Torino, 1998.

[11] Va riconosciuto che la sola voce fuori dal coro è quella di G. Devoto, nel suo  Dizionario etimologico, Le Monnier, Firenze, 1968. Devoto nega la percorribilità dell’etimo tradizionale, senza darne però uno nuovo.  

   



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