Nel Vocabolario del dialetto avezzanese[1] la relativa voce viene spiegata dicendo che essa era usata, guardando il cielo, quando si vedeva il lampo e si udiva
successivamente il tuono. Secondo gli
autori del libro si suppone, poi, che l’espressione stesse ad indicare il
Vecchio Padre, ossia il Padreterno.
Tutti infatti conoscono il significato di tata per ‘padre’ o anche ‘nonno’ nei nostri
dialetti. Si tratta di una radice diffusissima in ambito europeo, presente
anche in ingl. dad ‘papà’.
Tanto
per iniziare io penso che in questo contesto la voce tata potrebbe richiamare
per sino la radice di lat. titi-on-e(m) ‘tizzone’, ma col significato di ‘luce, lampo’ appunto. Il gr. titṓ
significa ‘giorno, sole’. La componente –vécchie < lat. tardo vecl-u(m) < lat. vet-ul-u(m) diminutivo
di vetus,
eris ‘vecchio’, fa anch’essa riferimento ad una radice col valore di luce,
bagliore
se in molti dialetti il termine vecchia
indica fenomeni luminosi come la ‘gibigiana’.
Ho trattato la questione in altro articolo di diversi anni fa, di cui
non ricordo il titolo. Ricordo benissimo,
però, che in esso parlai anche della voce, ora non so di quale varietà
abruzzese, che suona arche-vètërë ‘arcobaleno’. La radice di questo nome deve avere a che
fare con l’ingl. weather ‘tempo atmosferico’, ted. Wetter ‘tempo
atmosferico’ ma anche ‘vento’, ‘fulmine’ ed ‘esalazione’. Ora, gli studiosi pensano che questi
significati siano uno sviluppo di quello principale di ‘tempo, temporale’ e in
un certo qual modo hanno ragione, ma
solo nel senso che sia l’idea di “tempo, aria, soffio, sia quella di “fulmine”
erano già iscritte, per così dire, nel DNA della radice, in quanto è logico pensare
che l’aria, il soffio, il vento, la tempesta, e in fondo anche la luce o il bagliore
del fulmine sono, per così dire, delle emanazioni
nel senso di una forza che si sprigiona, si effonde, esplode. Infatti in antico slavo vedro significa ‘tempo
buono, bel tempo’, in serbo-croato vedar significa ‘sereno, chiaro’. Secondo me, dovrebbe essere evidente , in
questo caso, l’influsso della radice di lat. vitr-u(m) ‘vetro’ (in quanto trasparente,
chiaro) considerato di etimo ignoto.
La
componente tata- inoltre potrebbe
essere una sorta di raddoppiamento della radice del verbo gr. teín-ein ‘tendere, stendere, sforzarsi, ecc.’
la quale al perfetto perde la -n- dando la forma tè-ta-ka ‘io ho teso’;
anche l’aggett.verbale è ta-t-όs ‘che si può tendere’. Ora la radice del verbo (anche lat. ten-ēre ‘tenere’, lat. tend-ĕre ‘tendere’) contiene tutta una tensione che può realizzarsi in diversi modi: il sostantivo
corradicale gr. tόn-os interpreta, starei per dire, quella
tensione in vari modi tra cui quello di ‘forza, energia’ e anche di ‘elevazione
della voce, accento’: la tensione si è trasformata così in suono e avrebbe, allo stesso modo, potuto trasformarsi in emanazione luminosa, luce. Non sono ragionamenti fantasiosi. Non sono pertanto convinto che il lat. ton-are ‘tuonare’ debba per forza rimandare
ad una radice omosemantica con la –s- iniziale come in gr. stén-ein ‘lamentarsi’.
E
passiamo alla locuzione aiellese che avrò pronunciato un numero notevole di
volte, quando ero ragazzo, allorchè avvertivo qualche tuono. L’espressione mi pare ricorra anche nel
dialetto di Forme-Aq e si presta ad un’interessante interpretazione. L’elemento cuscën-arë che segue Tat-όnë non può che richiamare formalmente il dialettale còscëna ‘recipiente di legno più grande
della coppa’ il cui nome forse deriva
dal gr. kόskin-on
‘staccio’. L’espressione vorrebbe dire allora ‘tatone
(nonno) che fa le còscënë’?
l’interpretazione proposta non mi pare sensata. Allora, pensa e ripensa, mi è balenata la
soluzione che ritengo giusta! Il termine cuscënàrë
va inteso come fosse cu scën-àrë in cui il cu iniziale non sarebbe altro che la
preposizione dialettale di compagnia o unione cu, ché, chë ‘con’ e
l’elemento scën- rinvierebbe a mio
parere alla radice di ingl. shine ‘brillare’, ted. schein-en ‘brillare, apparire, sembrare’
derivanti da ant. sassone e ant. alto ted. skin-an ‘brillare’. Allora si
configurerebbe un significato dell’intera espressione come questo ‘ Tatone (il tuono) insieme con Fulmine
(personificato)’. Insomma l’espressione pronunciata da noi ragazzi doveva fare
riferimento ad una coppia di divinità, tra sé strettamente collegate, quella
del tuono (Tatόnë) e quella del fulmine (Scën-àrë < *Skin-ar-). Come i Dioscuri,
i due figli di Giove, che però non mi pare avessero una identità separata nel
significato.
Sono inoltre
del parere che il lat. scin-till-a (m) ‘scintilla’
sfrutti proprio questa radice e non debba essere messo in relazione col gr. spinth-ḗr ‘scintilla’. Il sardo tidda <*tilla ‘scintilla’ mi conferma
la cosa. L’abruzzese zëcchìnë ‘faville’ < *skine
conferma l’esistenza della radice presso
di noi[2].
Quest’ultimo termine l’ho trattato diversi anni fa, nell’articolo L’abruzzese zëcchìnë ‘scintille’ e il sardo
tidda ‘scintilla’, presente nel mio blog (ottobre 2011). L’originario *tilla ‘scintilla’ doveva essere un diminutivo *tin-ul-a(m) la cui radice richiama quella
del dio etrusco Tinia, armato di folgore come
il gr. Zéus. Ma non basta, un nome
abruzzese dell’arcobaleno è arche-dìnëië[3] il cui secondo membro presuppone un –*dinëlë < *din-ul- oppure *tin-ul- come il *tin-ul-a(m) ‘scintilla’ suddetto. Il termine è presente, nella forma archë-dìnëïë
‘arcobaleno, iride’, anche nel Vocabolario
abruzzese di D. Bielli, spessissimo
citato negli altri miei articoli. La radice credo sia quella del verbo inglese
dialett. tind ‘accendere, dar fuoco’ e del ted. zünd-en ‘accendere’, che ritorna anche nell’ingl. tinder ‘esca per
accendere il fuoco’.
Un
altro nome abruzzese dell’arcobaleno riportato dal Bielli è archë-vélë
con la seconda componente –vélë che sicuramente richiama il
nome del dio celtico del sole Bel o Belenos che vale etimologicamente ‘brillante’[4].
La radice bel-, bjel- ricorre nelle lingue slave con valore
di ‘bianco’, come nel termine Bielorussia
o Russia Bianca. Questo nome mi fa venire in mente proprio il
termine it. arco-baleno il cui
secondo membro è fatto derivare, sia pur
dubitativamente, dalla parola balena,
animale che appare e scompare successivamente sulla superficie del mare, come
se gli uomini primitivi non avessero avuto un vocabolo per ‘lampo, bagliore,
ecc.’ e avessero dovuto attendere i racconti dei viaggiatori per mare o degli
stessi marinai per dare un nome ad un fenomeno antichissimo e particolare che
li aveva accompagnati da sempre! La
festa di Beltaine ricorreva il primo
maggio tra i Celti e consisteva nell’accendere fuochi, come voleva il termine Bel-taine ‘fuoco di Bel’, termine che all’origine
doveva valere solo ‘fuoco’, come si può desumere dall’antico ingl. bǣl ‘fuoco’, ingl. bale-fire ‘falò’, ingl. arcaico bale ‘falò’.
Per
concludere faccio osservare che non è affatto detto che il valore originario del
costituente arco- di it. arco-baleno abbia avuto sempre,
dall’origine, il significato dell’it. arco.
Il termine meridionale arcatura ‘itterizia’[5]
, il calabrese arcatu ‘itterico’, il gr.
arg-όs ‘scintillante, bianco’,
gr. arg-ḗs, -êtos ‘scintillante, radioso’ (simile al calabrese suddetto arcatu
’itterico’), riferito spesso dell’arcobaleno, fanno supporre che sia
avvenuto un normale incrocio fra il termine per ‘arco’ e quello per ‘baleno,
lampo, luce’, a parte il colore giallo-verde dell’itterizia, che può rientrare
in quello di ‘luminosità’.
[1] Cfr.
Buzzelli-Pitoni, Vocabolario del dialetto avezzanese, senza editore,
Avezzano-Aq , 2002.
[2] Cfr. D.
Bielli, Vocabolario abruzzese, A.
Polla editore, Cerchio-Aq. 2004.
[4] Cfr.
Jean Markale, Il druidismo Edizione
CDE spa, Milano 1997.
[5] Cfr.
Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani,
UTET, Torino,
[5] Cfr.
Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani,
UTET, Torino,
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