Ricordo che quando ero ragazzo ed
entravo in dissidio con un altro usavo rivolgermi adirato a lui con
l’esspressione vàttën’a jì rafforzata
magari da camì(na), sca(ppa)! che letteralmente
significava vattene ad andare, cammina,
scappa! Ora quel vàttën’a jì mi sembra abbastanza strano, quasi
incomprensibile a fil di logica, tanto più che l’espressione esisteva solo
all’imperativo: non si diceva affatto, ad esempio, më në jéva a jì all’imperfetto,
ma semplicemente më
në jéva ‘me ne
andavo’. La spiegazione è, se ci si
riflette, abbastanza facile. All’inizio doveva aversi solo una serie di
imperativi, cioè: vattene, vai (cammina, scappa)! Si sa che vat-tene risponde al lat. vade inde, ma il verbo più usato per la
nozione di “andare” in latino era i-re
che all’imperativo, sec. persona sing., faceva i ‘vai’.
Pertanto si deve desumere che in
antico l’espressione dialettale aiellese vàttën’a jì doveva suonare semplicemente vàttënë,
con l’aggiunta dell’imperativo di i-re
‘andare’, come succede anche in italiano in questi casi di ripetizione
concitata di ingiunzioni, comandi, ecc.: l’espressione latina doveva essere vade, i ! (vai via,
vai!). Una volta caduto dall’uso, nei nostri
dialetti, l’imperativo lat. i ’vai’ sorgeva per la lingua la
necessità di spiegare quell’imperativo rimasto incapsulato e cristallizzato
nella suddetta espressione. Essa trovò la scappatoia di trasformare
l’imperativo nell’infinito i-re ‘andare’ ancora in uso nei dialetti
nella forma apocopata i(re) diventata jì ‘andare’, uguale all’imperativo lat. i ‘vai’. L’infinito preceduto da –a- è normale dopo andarsene e verbi simili (sia in
italiano che in dialetto), in tutti i tempi, come ad esempio in se ne andava a lavorare. Ripeto, che questa sia la verità è dimostrato dal
fatto che l’espressione vattën’a ji è limitata
all’imperativo e non negli altri modi e tempi.
Il fenomeno
sopra descritto, dell’imperativo sostituito dall’infinito, mi pare ripresentarsi nelle espressioni
dialettali come vattë (vattënë) a ddùrmë ‘vattene a
dormire’ o vattë a ‘mbìcca ‘vai ad
impiccarti’ in cui mi sembra presente l’influsso dei rispettivi imperativi dùrmë,
‘mbìccatë
con l’accento ritratto rispetto agli infiniti durmì ‘dormire’ e ‘mbëccassë
‘impiccarsi’.
L’imperfetto dialettale del verbo jì ‘andare’ era, ed è tuttora, jéva alla
prima persona, ma jìvë alla
seconda. La prima persona mantiene la
desinenza latina a(m)
dell’imperfetto. Precisamente il latino
era i-ba(m):
la –m- finale, poco marcata nella
pronuncia già nel latino classico, finì col cadere completamente. Anche
nell’italiano arcaico si aveva una prima persona in –a (io parlav-a). Siccome ogni piccolo fenomeno linguistico
deve avere una ragione, come ho spesso ribadito, possiamo chiederci perché mai l’imperfetto indicativo dialettale è jéva
invece dell’originario latino i-ba(m).
lo scambio b/v nei dialetti è talmente diffuso che non è necessario parlarne
più di tanto, ma resta da spiegare la –e- che si inserisce tra la –i- iniziale e la b/v successiva.
Anche qui la spiegazione non è così difficile come sembra, se si
riflette che nel dialetto tutti gli imperfetti delle tre coniugazioni italiane
e delle quattro latine assumono l’unica forma –eva, alla prima pers.
sing. ( i’ parl-éva ‘io parl-avo’,
i’ lëgg-éva ‘io legg-evo,
i’ sall-éva ‘io sal-ivo’).
Questa forma è talmente diffusa che raggiunge anche l’imperfetto i-ba(m) del verbo anomalo lat. i-re, trasformandolo così in i-e-ba(m),
e quindi in jéva
‘andavo’.
La
seconda persona tu jìvë sembra lasciare intatto il lat. i-ba(s) che nel
frattempo era diventato i-ba,
i-va con la caduta della –s-
finale, e poi aveva chiuso il timbro della –a-
finale nel suono indistinto –ë- per distinguere questa voce
dalla prima e terza persona singolare. Ma le cose non stanno esattamente
così. La forma precedente a tu jìvë doveva essere senz’altro tu jévë
con la –e-, in ottemperanza alla
norma generale, di cui sopra, che voleva la desinenza in –eva per tutti gli
imperfetti dialettali. Ma la chiusura del timbro della –a- finale aveva innescato un altro fenomeno, quello
dell’alterazione della vocale tonica di
una parola, in conseguenza appunto della chiusura del timbro della vocale
successiva o finale della parola. Sicchè la –e- tonica della seconda
pers. sing. jéva si mutò in –i-.
Questa alterazione della –e- in –i- rientra nel ben noto fenomeno
chiamato dai linguisti metafonia o metafonesi.
Che
l’imperfetto dialettale aveva le uniche forme in –éva, évano non è completamente
vero perché alla prima e seconda pers. pl. ricompariva una desinenza in –av-àmo,
-av-àte
per le tre coniugazioni, uguale a quella dei verbi della prima coniug. in –are:
evidentemente bastò lo spostamento in avanti della vocale tonica per
trasformare la precedente –e, della sillaba -év-, in –av-.
La terza voce pl. tornava ad essere, per tutte le coniugazioni,
con la –e (es. parl-év-anë ‘parlavano’, lëgg-év-anë
‘leggevano’, sall-év-anë ‘salivano’)
perché l’accento tonico cadeva sulla –e-
. La desinenza –anë continua il lat. –ant
ma con la caduta della dentale –t- finale sostituita dal suono indistinto della –ë-. Molti
quando scrivono parole dialettali non tengono conto di questo suono indistinto
detto anche schwa, e fanno malissimo,
anche se apparentemente sono più vicini
al parlato.
In
ultimo, mi piace concludere citando una strana voce verbale dialettale
riportata dal Bielli[1]
che suona j-a ‘scaturisce,
scorre’ detto dell’acqua. Si tratta di una terza pers. sing., probabilmente
della prima coniugazione, con l’accento tonico sulla semivovale j-, altrimenti
il Bielli avrebbe posto l’accento sulla –a- come l’ha messo in j-ù ‘giù’. Ma comunque la questione non altera i termini
del problema. Detto velocemente, io
penso che si tratta di un verbo in –are,
appunto, preceduto dalla radice che è presente nel verbo greco hý-ein ( la lettera h- sta per lo spirito aspro del greco) ‘piovere’, in un significato
generico di ‘scorrere, fluire’. D’altronde anche il lat. plu-ere ‘piovere’ assumeva il significato di scorrere, fluire’ ad es.
nel tedesco fliess-en ‘fluire,
scorrere’, dove si nota un ampliamento in -ss della radice, e negli idronimi come torrente Piove (che non ricordo in quale parte del Veneto
scorra), e lo stesso fiume Piave.
E
così abbiamo messo i puntini sulle i per alcune questioni grammaticali: il
dialetto non è, come si è portati a pensare, una incontrollata e
incontrollabile deformazione della lingua italiana.
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