giovedì 19 dicembre 2019

Sottigliezze grammaticali dei nostri dialetti.




   Ricordo che quando ero ragazzo ed entravo in dissidio con un altro usavo rivolgermi adirato a lui con l’esspressione  vàttën’a jì rafforzata magari da camì(na), sca(ppa)!  che letteralmente significava vattene ad andare, cammina, scappa!  Ora quel vàttën’a jì  mi sembra abbastanza strano, quasi incomprensibile a fil di logica, tanto più che l’espressione esisteva solo all’imperativo: non si diceva affatto, ad esempio, më në jéva a jì all’imperfetto, ma semplicemente më në jéva ‘me ne andavo’.  La spiegazione è, se ci si riflette, abbastanza facile. All’inizio doveva aversi solo una serie di imperativi, cioè: vattene, vai (cammina, scappa)! Si sa che vat-tene risponde al lat. vade inde, ma il verbo più usato per la nozione di “andare” in latino era i-re che all’imperativo, sec. persona sing., faceva i ‘vai’.

   Pertanto si deve desumere che in antico l’espressione dialettale aiellese vàttën’a jì doveva suonare semplicemente vàttënë, con l’aggiunta dell’imperativo di i-re ‘andare’, come succede anche in italiano in questi casi di ripetizione concitata di ingiunzioni, comandi, ecc.: l’espressione  latina doveva essere vade, i ! (vai via, vai!).  Una volta caduto dall’uso, nei nostri dialetti, l’imperativo lat. i ’vai’ sorgeva per la lingua la necessità di spiegare quell’imperativo rimasto incapsulato e cristallizzato nella suddetta espressione. Essa trovò la scappatoia di trasformare l’imperativo nell’infinito  i-re ‘andare’ ancora in uso nei dialetti nella forma apocopata i(re) diventata ‘andare’, uguale all’imperativo lat. i ‘vai’.  L’infinito preceduto da –a- è normale dopo andarsene e verbi simili (sia in italiano che in dialetto), in tutti i tempi, come ad esempio in se ne andava a lavorare. Ripeto, che questa sia la verità è dimostrato dal fatto che l’espressione vattën’a ji è limitata all’imperativo e non negli altri modi e tempi.

  Il fenomeno sopra descritto, dell’imperativo sostituito dall’infinito,  mi pare ripresentarsi nelle espressioni dialettali come vattë (vattënë) a ddùrmë ‘vattene a dormire’ o vattë a ‘mbìcca ‘vai ad impiccarti’ in cui mi sembra presente l’influsso dei rispettivi imperativi dùrmë, ‘mbìccatë con l’accento ritratto rispetto agli infiniti durmì ‘dormire’ e ‘mbëccassë ‘impiccarsi’. 

   L’imperfetto dialettale del verbo ‘andare’ era, ed è tuttora, jéva alla prima persona, ma jìvë alla seconda.  La prima persona mantiene la desinenza latina a(m) dell’imperfetto.  Precisamente il latino era i-ba(m):  la –m- finale, poco marcata nella pronuncia già nel latino classico, finì col cadere completamente.  Anche nell’italiano arcaico si aveva una prima persona in –a (io parlav-a).  Siccome ogni piccolo fenomeno linguistico deve avere una ragione, come ho spesso ribadito, possiamo chiederci perché mai l’imperfetto indicativo dialettale è jéva invece dell’originario latino i-ba(m). lo scambio b/v nei dialetti è talmente diffuso che non è necessario parlarne più di tanto, ma resta da spiegare la –e- che si inserisce tra la –i- iniziale e la b/v  successiva.  Anche qui la spiegazione non è così difficile come sembra, se si riflette che nel dialetto tutti gli imperfetti delle tre coniugazioni italiane e delle quattro latine assumono l’unica forma eva, alla prima pers. sing. ( i’ parl-éva ‘io parl-avo’, i’ lëgg-éva ‘io legg-evo, i’ sall-éva ‘io sal-ivo’). Questa forma è talmente diffusa che raggiunge anche l’imperfetto i-ba(m) del verbo anomalo lat. i-re, trasformandolo così in i-e-ba(m), e quindi in  jéva ‘andavo’. 

   La seconda persona tu sembra lasciare intatto il lat. i-ba(s) che nel frattempo era diventato i-ba, i-va con la caduta della –s- finale, e poi aveva chiuso il timbro della –a- finale nel suono indistinto ë- per distinguere questa voce dalla prima e terza persona singolare. Ma le cose non stanno esattamente così.  La forma precedente a tu doveva essere senz’altro  tu  con la –e-, in ottemperanza alla norma generale, di cui sopra, che voleva la desinenza in –eva per tutti gli imperfetti dialettali. Ma la chiusura del timbro della –a- finale aveva innescato un altro fenomeno, quello dell’alterazione  della vocale tonica di una parola, in conseguenza appunto della chiusura del timbro della vocale successiva o finale della parola. Sicchè la –e- tonica della seconda pers. sing. jéva si mutò in –i-.  Questa alterazione della –e- in –i-  rientra nel ben noto fenomeno chiamato dai linguisti metafonia o metafonesi.

   Che l’imperfetto dialettale aveva le uniche forme in –éva, évano non è completamente vero perché alla prima e seconda pers. pl. ricompariva una desinenza in –av-àmo, -av-àte per le tre coniugazioni, uguale a quella dei verbi della prima coniug. in –are: evidentemente bastò lo spostamento in avanti della vocale tonica per trasformare la precedente –e, della sillaba -év-,  in av-.  La terza voce pl. tornava ad essere, per tutte le coniugazioni, con la e (es. parl-év-anë ‘parlavano’, lëgg-év-anë ‘leggevano’,  sall-év-anë ‘salivano’) perché l’accento tonico cadeva sulla –e- .  La desinenza –anë continua il lat. –ant ma con la caduta della dentale  –t-  finale sostituita dal suono indistinto della –ë-.  Molti quando scrivono parole dialettali non tengono conto di questo suono indistinto detto anche schwa, e fanno malissimo, anche se  apparentemente sono più vicini al parlato.

   In ultimo, mi piace concludere citando una strana voce verbale dialettale riportata dal Bielli[1] che suona j-a ‘scaturisce, scorre’ detto dell’acqua. Si tratta di una terza pers. sing., probabilmente della prima coniugazione, con l’accento tonico sulla semivovale j-, altrimenti il Bielli avrebbe posto l’accento sulla –a- come l’ha messo in j ‘giù’.  Ma comunque la questione non altera i termini del problema.  Detto velocemente, io penso che si tratta di un verbo in –are, appunto, preceduto dalla radice che è presente nel verbo greco -ein ( la lettera h- sta per lo spirito aspro del greco) ‘piovere’, in un significato generico di ‘scorrere, fluire’. D’altronde anche il lat. plu-ere ‘piovere’ assumeva il significato di scorrere, fluire’ ad es. nel tedesco fliess-en ‘fluire, scorrere’, dove si nota un ampliamento in -ss della radice, e negli idronimi come torrente  Piove  (che non ricordo in quale parte del Veneto scorra), e lo stesso fiume Piave.

   E così abbiamo messo i puntini sulle i per alcune questioni grammaticali: il dialetto non è, come si è portati a pensare, una incontrollata e incontrollabile deformazione della lingua italiana.


[1] D.Bielli, Vocabolario abruzzese. A. Polla editore, Cerchio-Aq 2004.

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