Si tratta dell’invito rivolto
alla statua di san Cataldo dal sindaco di Taranto, perché si muova dal
Cappellone in cui si trova nel Duomo della città e si faccia portare in
processione, durante la suggestiva cerimonia de U pregge di cui abbiamo parlato nel precedente articolo del blog,
dal titolo L’abruzzese “preggë”.
Ora, ho visto in un post che solitamente il colore rosso viene
inteso come riferito ai capelli di san Cataldo proveniente dall’Irlanda, dove il
numero di chi possiede capelli rossi
si aggira intorno al 30%. Ma a mio
parere questa spiegazione si rivela piuttosto posticcia, data la leggendarietà
di moltissime notizie che riguardano la
figura di san Cataldo di Taranto, oltre naturalmente al fatto che comunque il
70% circa degli irlandesi non ha capelli rossi.
Ma il motivo principale, a pensarci bene, per cui l’interpretazione in tal
senso del rosso è da scartare, nella perentoria ingiunzione rivolta dal
sindaco al Santo, scaturisce dal fatto che essa mi sembra pur tuttavia alquanto
risibile perché troppo confidenziale, mettendo in rilievo questo presunto
tratto fisiognomico e non sottolineando, ad esempio, la sua santità, come
sarebbe stato naturale nell’ambito di una cerimonia austera, in presenza delle
più alte autorità civili e religiose. Il motivo di quel rosso deve essere, di conseguenza, molto più importante e
profondo.
Il colore rosso, guarda caso, si ripresenta nella caratteristica mozzetta rossa con bordi dorati, cioè una mantellina rossa,
indossata dai membri della confraternita di san Cataldo, durante la
processione, oltre al cingolo rosso allacciato
alla vita. L’ora in cui la statua, una
volta uscita dal Duomo e raggiunta la banchina del molo sant’Eligio, è in genere quella prossima al tramonto, quando
l’orizzonte ad occidente, se il cielo è libero di nubi, si carica del colore rosso del sole calante. Una crocetta aurea , secondo la leggenda, fu rinvenuta nel 1071 su di un corpo
di una tomba ritenuta di san Cataldo con la scritta Cataldus, aggiunta con tutta probabilità successivamente.
Secondo me tutte queste notizie concorrono a farci supporre che in
realtà questo Cataldo fosse il nome, o uno dei nomi, di un’antica divinità del Sole. Alla luce di ciò acquisterebbe
un nuovo sapore l’invito del sindaco a Cataldo: Esci, Cataldo il rosso.
Il suo significato, in origine, doveva essere: Esci, o Sole rosso
(oppure Sole splendente), senza
alcun accenno al superfluo e marginale ‘rosso’ dei capelli di Cataldo, ma semmai
al colore dell’astro diurno, magari all’ora dell’Aur-ora, voce imparentata col lat. aur-u(m) ’oro’ o a quella del
tramonto: due momenti cruciali del corso del sole. Molto probabilmente le popolazioni primitive,
considerando il Sole come un dio, erano soliti pregarlo perché continuasse ogni
giorno a rinascere, dopo il suo tramonto.
Bastava, ad esempio, che lui, il dio, non volesse, perché il buio
regnasse in eterno tra gli uomini. L’ingiunzione potrebbe anche significare
direttamente Sorgi, o Sole rosso, invocazione rivolta al dio del sole perché
tornasse a risorgere, dopo il tramonto.
In latino il verbo exire ‘uscire,ecc.’ significa anche ‘sorgere, apparire (detto
degli astri)’ in Ovidio ed altri.
Anche l’argento in lamine che
ricopre la statua attuale, come quelle precedenti di cui si ha notizia, è un
metallo che può alludere al Sole: basti pensare all’epiteto, già omerico, di argyro-tόks-os ‘dall’arco d’argento’ riferito ad Apollo, dio del sole. Il quale, guarda caso, aveva la sede sul
monte Elic-ona in Beozia,
insieme alle Muse. Si faccia attenzione al fatto che la prima componente di Elic-ona
va a combaciare, o quasi, con Eligi-o, il nome con cui è indicato il molo di sant’Eligio, nelle cui
vicinanze si trova la sorgente sottomarina di acqua dolce
chiamata Anello di san Cataldo,
della quale parlerò più sotto.
La questione è questa: in greco la voce hélik-s significa ‘avvolgimento,
spira, elica’ ma in alcuni composti assume il valore di ‘brillante, splendente’
(forse dalla radice di gr. sélas ’splendore’
− da cui
anche gr. selḗnē ‘luna’−, con la normale caduta del sigma
iniziale) come in helico-stéphan-os (Bacchilide)
che significa ‘dal diadema brillante (hélico-)’. Guarda caso, anche sant’Eligio di Noyon in Francia era un orafo, un lavoratore quindi
dell’oro e di altri metalli preziosi, che poi divenne vescovo, vissuto tra il
Vi e VII sec. d. C. A parte la
veridicità di questi Santi dell’alto Medioevo, il nome di Eligio doveva risalire quindi ad una voce dal valore di ‘luce,
luminosità’ ed è poco credibile la proposta di chi lo fa derivare dal verbo
lat. elig-ĕre ‘scegliere’ e
quindi ‘Eletto’.
Ma c’è un altro fatto che fa ben capire come i toponimi, che possono
essere nati anche migliaia e migliaia di anni fa, raccolgano i vari significati
di parole formalmente uguali o simili che sono arrivate nei paraggi nel corso
della loro lunghissima vita e con esse possono dar vita ad aneddoti vari. Si racconta, infatti, che quando san Cataldo
giunse a Taranto di ritorno dalla Terra Santa il mare Grande era in preda ad una spaventosa tempesta che il Santo calmò
gettando in acqua, proprio nei pressi del molo Sant’Eligio, il suo anello pastorale
il quale, caduto nel fondo, fece sgorgare una sorgente d’acqua dolce, la cui
presenza è desumibile anche dal movimento dell’acqua in superficie che causa il
formarsi di cerchi concentrici, sorgente chiamata anche oggi Anello di san Cataldo oppure Citro di san Cataldo. E’ probabilissimo,
quindi, che la spaventosa tempesta della leggenda sia, appunto, il fantasioso
ampliamento della realtà del ribollire
in superficie delle acque della
sorgente. La voce tarentina citro indica una sorgente
sottomarina: il termine è di ascendenza greca; famosi nell’antichità erano i Khýtroi (Chitri),
sorgenti calde alle Termopili. In greco khýtr-os vale ‘pentola’, ma evidentemente in
tempi più antichi la parola indicava anche la ‘sorgente’, dalla radice del
verbo khé-ein ‘versare,
fare scorrere’.
Ora, a me
pare chiaro che il concetto di “anello” possa essere perfettamente espresso
anche dalla suddetta parola greca hélik-s ‘avvolgimento, spira, elica’ che però, storicamente, non aveva in
Grecia il significato precipuo di ‘anello’.
Questo è un indizio che il termine in questione fosse in loco già dal periodo
preistorico, portato dalle diverse ondate di popoli indoeuropei. Persino nella mia Marsica si incontrano tante
radici greche che, come ho mostrato
in altri articoli del mio blog, non possono farsi risalire ai contatti avuti tra gli antichi pastori marsi e le
popolazioni dell’Apulia attraverso la transumanza. Comunque mi pare assodato che tutta la saga
di san Cataldo ha origini non cristiane ma pagane, forse addirittura
preistoriche, proprio per questi riscontri linguistici che coinvolgono il gr. hélik-s ‘avvolgimento, spira’.
Resta da interpretare il nome Cat-aldo, che si sarà senz’altro incrociato con diverse radici. Per
farla breve, però, secondo la mia interpretazione di tutta la saga, esso
dovrebbe essere un termine tautologico, cioè formato da due componenti con lo
stesso significato, per intenderci come l’it. gira-volta. La prima
componente dovrebbe essere costituita dalla radice di ingl. hot
‘caldo, bollente’, ant. ingl. hat ‘caldo, bollente’, ingl. heat ‘calore’, ant. ingl. had-or ‘brillante, chiaro’. La seconda componente –ald dovrebbe essere la prima radice di lat. alt-are ‘altare’ messo in connessione da
diversi linguisti con il verbo ad-ol-ēre ‘bruciare, far bruciare, o far fumare’, in riferimento
alle vittime da sacrificare. La seconda
componente di lat. alt-are,
cioè –are, è da collegare al lt. ar-a(m) ‘altare’, la cui radice è quella di ar-id-u(m) ‘arido, secco’ e di lat. ard-ēre ‘ardere, bruciare’.
Io non pretendo di avere sempre la verità in mano in queste scorribande
nel lontanissimo passato di una tradizione religiosa, ma una cosa è certa: le
notizie leggendarie che si affollano intorno ad una festa o un santo sono di
una utilità impareggiabile, perché da esse può emergere, con questo metodo che
mi pare molto proficuo (sebbene anch’esso possa talora incappare in qualche
trabocchetto non previsto), la verità che giace al fondo. Ripeto, la connessione tra gr. hélik-s ‘spira, avvolgimento’ e il molo Sant’Eligio,
presso cui sarebbe caduto l’anello
del Santo, è troppo evidente e stretta per essere casuale. Naturalmente nessun anello cadde in quelle acque, non siamo così creduloni; ma vi
cadde certamente nella leggenda perché il nome di Eligio (o simile), già
presente da epoche immemorabili in quel luogo ad indicare non solo i cerchi
concentrici che si formavano sulla superficie acquea, ma anche il vicino molo , andò a combaciare con quello di sapore greco con
il significato di ‘avvolgimento, curva’, e probabilmente proprio di ’anello’ in
qualche parlata locale. Anche nella città di Capua si trova una chiesa dedicata al Santo,con un arco adiacente chiamato anch'esso di Sant'Eligio. Può sembrare strano, ma io penso che il nome della chiesa derivasse proprio da quest'arco, ritenendo realistica la supposizione di alcuni studiosi che pensano che esso rinchiudesse un'antica porta della città di età classica e forse preclassica. In una lingua precedente a quella latina, una parola similissima a quella di Eligio indicava insomma proprio l'arco, il quale corrisponde al concetto di "curva, cerchio".
PS. Scusate, ma mi sono ricordato proprio ora, ed è stato come un
fulmine a ciel sereno, che in latino il dio Giove, capo di tutti gli dei e
padrone del cielo diurno (la radice del suo nome, col valore di ‘luce,
luminosità, giorno’ si ritrova in molte lingue indoeuropee, compreso il gr. Zeύs) aveva
anche l’epiteto Elici-us che è quasi
la fotocopia del nome Eligio, di cui
si è parlato sopra. I linguisti, in
genere, derivano l’epiteto ab
eliciendis fulminibus, espressione latina secondo cui il termine
deriverebbe ’dal lanciare, far
scaturire i fulmini’. Giove era anche signore delle folgori, che sono sempre un
fenomeno luminoso. Da taluni moderni, l’appellativo Elici-us, è inteso come ‘colui che manda la pioggia’. C’è sempre di
mezzo la radice del verbo lat. elic-ĕre ‘trarre fuori, lanciare, far
scaturire’. Per me andrebbero bene
ambedue i significati, l’uno riferito alla luce o folgore e l’altro
riferito all’acqua, che potrebbe essere intesa come quella fatta scaturire da
san Cataldo nel fondo del mare, presso il molo di Sant’Eligio: in effetti la tradizione popolare
attinge a simili coincidenze per dar vita alle sue leggende. Ma io ho già espresso il mio parere:
l’appellativo di cui si parla aveva inizialmente il valore di ‘splendore,
luminosità’. Nella mitologia greca, infine, Elice
era una delle ninfe che nutrirono Zeus
fanciullo nell’isola di Creta e che fu trasformata in una delle stelle
dell’Orsa Maggiore.
In greco esisteva un altro appellativo di Zeus che era Katai-bảt-ēs inteso come ‘colui che
scende giù (con fulmini e tuoni)’, dal verbo kata-baín-ein
‘scendere, fare scendere, approdare, abbattere, buttare giù’. La preposizione gr. kataí è una
variante poetica di katá
‘giù, sotto, verso, ecc.’. Anche qui io credo
che il significato originario dell’epiteto fosse
quello di ‘luce, luminosità’. Della radice cat- ‘luminosità’ ho già indicato
l’ingl. heat ‘calore’, ant.
ingl. hat ‘caldo, bollente’, ecc.; la radice di -bat-ēs è forse quella del scr. bha-ti ‘luce’[1]. Ma
quello che mi preme sottolineare è il fatto che l’epiteto Katai-bát-es, in una probabile pronuncia
dialettale tarentina in epoca seriore, sarebbe potuto essere *Kata-vàtë oppure Katà-vatë > Catà-vete ,
andando a combaciare col nome dialettale di
Cataldo, che vedo scritto Cat-avete in alcuni post. E’ vero che normalmente, ad esempio,
l’aggettivo latino alt-u(m) ‘alto’,
simile alla seconda componente di Cat-aldo, in molti dialetti
centro-meridionali dà come esito àvëtë o àutë (persino nel mio
paese di Aielli-Aq, ad esempio, è ancora
in auge la forma àvëtë, e l’espressione italiana sono salito diventa so’ sàvëtë, dal partic. passato
latino salt-um ‘salito’, del
verbo lat. sal-ire ‘salire’), ma
nel caso di questo epiteto, ammesso che fosse presente a Taranto nell’antichità,
potrebbe essersi verificato il suo clandestino e perfetto camuffamento sotto il nome dialettale di Cataldo, diffusosi a quanto pare diversi
secoli d. C.
L’epiteto, inoltre, potrebbe aver dato vita ad altri tratti della saga
di san Cataldo, come quello del suo approdo
in una zona del Mar Grande o nella marina di San Cataldo a Lecce, dato che il verbo kata-baín-ein significa anche approdare, scendere dalla nave.
E non solo! uno dei significati del verbo, infatti, è ‘abbattere,
buttare giù’ e potrebbe quindi essere alla base della credenza che san Cataldo,
per far calmare una spaventosa tempesta, avesse buttato il suo anello, andato a
finire nel fondo del mare, cioè sotto la sua superficie.
In
greco, guarda caso, l’epiteto katai-bát-ēs era usato anche per l’Acheronte,
uno dei fiumi infernali. Ed è un
appellativo appropriato con il suo significato di ‘discendente’, visto che si
tratta di fiume sotterraneo come
suggerisce la preposizione katái ’sotto’. Esso, inoltre, si adatta a pennello ad
indicare la sorgente sottomarina di san Cataldo di cui sopra e, per finire,
potrebbe anche alludere alla figura del sole calante ad occidente.
Per
dirla tutta, secondo il mio metodo di lavoro e un principio basilare della mia
linguistica, un flusso d’acqua e
d’ogni altro liquido, fosse esso un rigagnolo o un fiume possente, nella mentalità dell’uomo onomaturgo
equivaleva ad ogni flusso luminoso, il quale, sotto forma di raggi, si diffondeva da un punto luminoso attraverso lo spazio fino
a colpire i nostri occhi. Quell’uomo naturalmente
non poteva parlare di fotoni e quanti di luce, ma ben immaginava che la
luce si propagasse come onde nel
mare. Nella mitologia greca Eliconio era epiteto di
Poseidone, dio del mare e signore di Elice, città dell’Acaia. Pausania, geografo greco, forse di origine
asiatica, vissuto probabilmente nel II sec.
d. C. (ma cominciò ad essere citato non prima del VI sec. d.C.), ci tramanda
che la città di Elice fu distrutta da un terremoto e dalle enormi onde di un
concomitante tsunami nel 373 a.C. Pausania, geografo greco, forse di origine
asiatica, vissuto probabilmente nel II
sec. d. C. (ma cominciò ad essere citato non prima del VI sec. d.C.), ci
tramanda che la città di Elice fu distrutta da un terremoto e dalle enormi ondate di un concomitante tsunami nel 373 a.C.[2] che ne avrebbe inghiottito i resti. Io suppongo, piuttosto, che egli prendesse per vera una tradizione leggendaria nata intorno al nome della città di Elice. In mare, in effetti, non sono stati rinvenuti resti di città.
Mi sono occupato linguisticamente di qualche altro Santo o figura mitica, ma rispondenze così numerose e perspicue, tra le parole fondamentali della tradizione leggendaria arrivata fino a noi e quelle di lingue varie dell’ambito indoeuropeo, come le rispondenze relative a san Cataldo, credo che non le abbia mai incontrate.
[2] Pausania, VII, 24,6.
[1] Dico “forse” perché in greco questa radice ha dato forme come il verbo phaín-ein ’splendere, rilucere, apparire’, che noi pronunciamo come se all’inizio ci fosse la fricativa sorda –f-, mentre la pronuncia classica greca era quella di una labiale sorda aspirata, più vicina alla sonora –b-. Va con sè, poi, che quando interviene un incrocio l’etimologia popolare fa miracoli, nel senso che stravolge, a volte quasi completamente, la parola d’origine come avviene, ad esempio, nel ted. Trampel-tier ‘dromedario’ dal latino d’origine greca dromedari-u(m), inteso come se fosse ‘animale (Tier) che scalpita (trampeln)‘ mentre in greco dromas significava 'corridore', cioè '(cammello) veloce'.
[2] Pausania, VII, 24,6.
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