martedì 3 dicembre 2019

«Esci, Cataldo il rosso!».




    Si tratta  dell’invito rivolto alla statua di san Cataldo dal sindaco di Taranto, perché si muova dal Cappellone in cui si trova nel Duomo della città e si faccia portare in processione, durante la suggestiva cerimonia de U pregge di cui abbiamo parlato nel precedente articolo del blog, dal titolo L’abruzzese “preggë”.

   Ora, ho visto in un post che solitamente il colore rosso viene inteso come riferito ai capelli di san Cataldo proveniente dall’Irlanda, dove il numero di chi possiede capelli rossi si aggira intorno al 30%.  Ma a mio parere questa spiegazione si rivela piuttosto posticcia, data la leggendarietà di moltissime  notizie che riguardano la figura di san Cataldo di Taranto, oltre naturalmente al fatto che comunque il 70% circa degli irlandesi non ha capelli rossi.  Ma il motivo principale, a pensarci bene, per cui l’interpretazione in tal senso del rosso è da scartare, nella perentoria ingiunzione rivolta dal sindaco al Santo, scaturisce dal fatto che essa mi sembra pur tuttavia alquanto risibile perché troppo confidenziale, mettendo in rilievo questo presunto tratto fisiognomico e non sottolineando, ad esempio, la sua santità, come sarebbe stato naturale nell’ambito di una cerimonia austera, in presenza delle più alte autorità civili e religiose. Il motivo di quel rosso deve essere, di conseguenza, molto più importante e profondo. 

   Il colore rosso, guarda caso, si ripresenta nella caratteristica mozzetta rossa con bordi dorati, cioè una mantellina rossa, indossata dai membri della confraternita di san Cataldo, durante la processione, oltre al cingolo rosso allacciato alla vita.  L’ora in cui la statua, una volta uscita dal Duomo e raggiunta la banchina del molo sant’Eligio, è in genere quella prossima al tramonto, quando l’orizzonte ad occidente, se il cielo è libero di nubi, si carica del colore rosso del sole calante.   Una crocetta aurea , secondo la leggenda, fu rinvenuta nel 1071 su di un corpo di una tomba ritenuta di san Cataldo con la scritta Cataldus, aggiunta con tutta probabilità successivamente. 

   Secondo me tutte queste notizie concorrono a farci supporre che in realtà questo Cataldo fosse il nome, o uno dei nomi, di un’antica divinità del Sole. Alla luce di ciò acquisterebbe un nuovo sapore l’invito del sindaco a Cataldo: Esci, Cataldo il rosso. Il suo significato, in origine, doveva essere: Esci, o Sole rosso (oppure Sole splendente), senza alcun accenno al superfluo e marginale ‘rosso’ dei capelli di Cataldo, ma semmai al colore dell’astro diurno, magari all’ora  dellAur-ora, voce imparentata col lat. aur-u(m) ’oro’  o a quella del tramonto: due momenti cruciali del corso del sole.  Molto probabilmente le popolazioni primitive, considerando il Sole come un dio, erano soliti pregarlo perché continuasse ogni giorno a rinascere, dopo il suo tramonto.  Bastava, ad esempio, che lui, il dio, non volesse, perché il buio regnasse in eterno tra gli uomini. L’ingiunzione potrebbe anche significare direttamente Sorgi, o Sole rosso, invocazione rivolta al dio del sole perché tornasse a risorgere, dopo il tramonto.  In latino il verbo exire ‘uscire,ecc.’   significa anche ‘sorgere, apparire (detto degli astri)’ in Ovidio ed altri.
    Anche l’argento in lamine che ricopre la statua attuale, come quelle precedenti di cui si ha notizia, è un metallo che può alludere al Sole: basti pensare all’epiteto, già omerico, di argyro-tόks-os ‘dall’arco d’argento’ riferito ad Apollo, dio del sole.  Il quale, guarda caso, aveva la sede sul monte Elic-ona in Beozia, insieme alle Muse. Si faccia attenzione al fatto che la prima componente di Elic-ona  va a combaciare, o quasi, con Eligi-o, il nome con cui è indicato il molo di sant’Eligio, nelle cui vicinanze si trova  la sorgente sottomarina di acqua dolce chiamata Anello di san Cataldo, della quale parlerò più sotto.     
   La questione è questa: in greco la voce hélik-s  significa ‘avvolgimento, spira, elica’ ma in alcuni composti assume il valore di ‘brillante, splendente’ (forse dalla radice di gr. sélas ’splendore’ da cui anche gr. selnē ‘luna’, con la normale caduta del sigma iniziale) come in helico-stéphan-os (Bacchilide) che significa ‘dal diadema brillante (hélico-)’.  Guarda caso, anche sant’Eligio di Noyon in Francia era un orafo, un lavoratore quindi dell’oro e di altri metalli preziosi, che poi divenne vescovo, vissuto tra il Vi e VII sec. d. C.   A parte la veridicità di questi Santi dell’alto Medioevo, il nome di Eligio doveva risalire quindi ad una voce dal valore di ‘luce, luminosità’ ed è poco credibile la proposta di chi lo fa derivare dal verbo lat. elig-ĕre  ‘scegliere’ e quindi ‘Eletto’.

   Ma c’è un altro fatto che fa ben capire come i toponimi, che possono essere nati anche migliaia e migliaia di anni fa, raccolgano i vari significati di parole formalmente uguali o simili che sono arrivate nei paraggi nel corso della loro lunghissima vita e con esse possono dar vita ad aneddoti vari.  Si racconta, infatti, che quando san Cataldo giunse a Taranto di ritorno dalla Terra Santa il mare Grande era in preda ad una spaventosa tempesta che il Santo calmò gettando in acqua, proprio nei pressi del molo Sant’Eligio, il suo  anello pastorale il quale, caduto nel fondo, fece sgorgare una sorgente d’acqua dolce, la cui presenza è desumibile anche dal movimento dell’acqua in superficie che causa il formarsi di cerchi concentrici, sorgente  chiamata anche oggi Anello di san Cataldo oppure Citro di san Cataldo. E’ probabilissimo, quindi,  che la spaventosa tempesta della leggenda sia, appunto, il fantasioso ampliamento  della realtà del ribollire in superficie  delle acque della sorgente.  La voce tarentina  citro indica una sorgente sottomarina: il termine è di ascendenza greca; famosi nell’antichità erano i Khýtroi (Chitri), sorgenti calde alle Termopili. In greco  khýtr-os vale ‘pentola’, ma evidentemente in tempi più antichi la parola indicava anche la ‘sorgente’, dalla radice del verbo khé-ein ‘versare, fare scorrere’.  

    Ora, a me pare chiaro che il concetto di “anello” possa essere perfettamente espresso anche dalla suddetta parola greca hélik-s ‘avvolgimento, spira, elica’ che però, storicamente, non aveva in Grecia il significato precipuo di ‘anello’.  Questo è un indizio che il termine in questione fosse in loco già dal periodo preistorico, portato dalle diverse ondate di popoli indoeuropei.  Persino nella mia Marsica si incontrano tante radici greche che, come ho mostrato in altri articoli del mio blog, non possono farsi risalire ai contatti  avuti tra gli antichi pastori marsi e le popolazioni dell’Apulia attraverso la transumanza.   Comunque mi pare assodato che tutta la saga di san Cataldo ha origini non cristiane ma pagane, forse addirittura preistoriche, proprio per questi riscontri linguistici che coinvolgono il gr. hélik-s ‘avvolgimento, spira’.

     Resta da interpretare il nome Cat-aldo, che si sarà senz’altro incrociato con diverse radici. Per farla breve, però, secondo la mia interpretazione di tutta la saga, esso dovrebbe essere un termine tautologico, cioè formato da due componenti con lo stesso significato, per intenderci come l’it. gira-volta.  La prima componente dovrebbe essere costituita dalla radice di ingl. hot ‘caldo, bollente’, ant. ingl. hat ‘caldo, bollente’, ingl. heat ‘calore’, ant. ingl. had-or ‘brillante, chiaro’.  La seconda componente –ald dovrebbe essere la prima radice di lat. alt-are ‘altare’ messo in connessione da diversi linguisti con il verbo ad-ol-ēre ‘bruciare, far bruciare, o far fumare’, in riferimento alle vittime da sacrificare.  La seconda componente di lat. alt-are, cioè are, è da collegare al lt. ar-a(m) ‘altare’, la cui radice è quella di ar-id-u(m) ‘arido, secco’ e di lat. ard-ēre ‘ardere, bruciare’.  

    Io non pretendo di avere sempre la verità in mano in queste scorribande nel lontanissimo passato di una tradizione religiosa, ma una cosa è certa: le notizie leggendarie che si affollano intorno ad una festa o un santo sono di una utilità impareggiabile, perché da esse può emergere, con questo metodo che mi pare molto proficuo (sebbene anch’esso possa talora incappare in qualche trabocchetto non previsto), la verità che giace al fondo.  Ripeto, la connessione tra gr. hélik-s ‘spira, avvolgimento’ e il molo Sant’Eligio, presso cui sarebbe caduto l’anello del Santo, è troppo evidente e stretta per essere casuale.  Naturalmente nessun anello cadde in quelle acque, non siamo così creduloni; ma vi cadde certamente nella leggenda perché il nome di Eligio (o simile), già presente da epoche immemorabili in quel luogo ad indicare non solo i cerchi concentrici che si formavano sulla superficie acquea, ma anche il vicino molo ,  andò a combaciare con quello di sapore greco con il significato di ‘avvolgimento, curva’, e probabilmente proprio di ’anello’ in qualche parlata locale. Anche nella città di Capua si trova una chiesa dedicata al Santo,con un arco adiacente chiamato anch'esso di Sant'Eligio.  Può sembrare strano, ma io penso che il nome della chiesa derivasse proprio da quest'arco, ritenendo realistica la supposizione di alcuni studiosi che pensano che esso rinchiudesse un'antica porta della città di età classica e forse preclassica. In una lingua precedente a quella latina, una parola similissima a quella di Eligio indicava insomma   proprio l'arco, il quale  corrisponde al concetto di "curva, cerchio".

    PS. Scusate, ma mi sono ricordato proprio ora, ed è stato come un fulmine a ciel sereno, che in latino il dio Giove, capo di tutti gli dei e padrone del cielo diurno (la radice del suo nome, col valore di ‘luce, luminosità, giorno’ si ritrova in molte lingue indoeuropee, compreso il gr. Zeύs) aveva anche l’epiteto Elici-us che è quasi la fotocopia del nome Eligio, di cui si è parlato sopra.  I linguisti, in genere, derivano l’epiteto   ab eliciendis fulminibus, espressione latina secondo cui il termine deriverebbe dal lanciare, far scaturire i fulmini’. Giove era anche signore delle folgori, che sono sempre un fenomeno luminoso. Da taluni moderni, l’appellativo Elici-us, è inteso come ‘colui che manda la pioggia’. C’è sempre di mezzo la radice del verbo lat. elic-ĕre ‘trarre fuori, lanciare, far scaturire’.  Per me andrebbero bene ambedue i significati, l’uno riferito alla luce o folgore e l’altro riferito all’acqua, che potrebbe essere intesa come quella fatta scaturire da san Cataldo nel fondo del mare, presso il molo di Sant’Eligio: in effetti la tradizione popolare attinge a simili coincidenze per dar vita alle sue leggende.  Ma io ho già espresso il mio parere: l’appellativo di cui si parla aveva inizialmente il valore di ‘splendore, luminosità’. Nella mitologia greca, infine, Elice era una delle ninfe che nutrirono Zeus fanciullo nell’isola di Creta e che fu trasformata in una delle stelle dell’Orsa Maggiore.

   In greco esisteva un altro appellativo di Zeus che era Katai-bt-ēs  inteso come ‘colui che scende giù (con fulmini e tuoni)’, dal verbo kata-baín-ein  ‘scendere, fare scendere, approdare, abbattere, buttare giù’.  La preposizione gr. kataí è una variante poetica di katá giù, sotto, verso, ecc.’.  Anche qui io credo che il significato originario dell’epiteto fosse quello di ‘luce, luminosità’. Della radice cat- ‘luminosità’ ho già indicato l’ingl. heat ‘calore’, ant. ingl. hat ‘caldo, bollente’, ecc.; la radice di -bat-ēs è forse quella del scr. bha-ti ‘luce’[1]. Ma quello che mi preme sottolineare è il fatto che l’epiteto Katai-bát-es, in una probabile pronuncia dialettale tarentina in epoca seriore,  sarebbe potuto essere *Kata-vàtë oppure Katà-vatë > Catà-vete , andando a combaciare col nome dialettale di  Cataldo, che vedo scritto Cat-avete in alcuni post.  E’ vero che normalmente, ad esempio, l’aggettivo latino alt-u(m) ‘alto’, simile alla seconda componente di Cat-aldo, in molti dialetti centro-meridionali dà come esito àvëtë o àutë (persino nel mio paese di Aielli-Aq, ad esempio,  è ancora in auge la forma àvëtë, e l’espressione italiana sono salito diventa so’ sàvëtë, dal partic. passato latino salt-um ‘salito’, del verbo lat. sal-ire ‘salire’), ma nel caso di questo epiteto, ammesso che fosse presente a Taranto nell’antichità, potrebbe essersi verificato il suo clandestino e perfetto  camuffamento sotto il nome dialettale di Cataldo, diffusosi a quanto pare diversi secoli d. C. 

    L’epiteto, inoltre, potrebbe aver dato vita ad altri tratti della saga di san Cataldo, come quello del suo approdo in una zona del Mar Grande o nella marina di San Cataldo a Lecce, dato che il verbo kata-baín-ein significa anche approdare, scendere dalla nave.  E non solo! uno dei significati del verbo, infatti, è ‘abbattere, buttare giù’ e potrebbe quindi essere alla base della credenza che san Cataldo, per far calmare una spaventosa tempesta, avesse buttato il suo anello, andato a finire nel fondo del mare, cioè sotto la sua superficie.

  In greco, guarda caso, l’epiteto katai-bát-ēs era usato anche per l’Acheronte, uno dei fiumi infernali.  Ed è un appellativo appropriato con il suo significato di ‘discendente’, visto che si tratta di fiume sotterraneo come suggerisce la preposizione katái ’sotto’.  Esso, inoltre, si adatta a pennello ad indicare la sorgente sottomarina di san Cataldo di cui sopra e, per finire, potrebbe anche alludere alla figura del sole calante ad occidente.

   Per dirla tutta, secondo il mio metodo di lavoro e un principio basilare della mia linguistica, un flusso d’acqua e d’ogni altro liquido, fosse esso un rigagnolo o un fiume possente,  nella mentalità dell’uomo onomaturgo equivaleva ad ogni flusso luminoso, il quale, sotto forma di raggi, si diffondeva da un punto luminoso attraverso lo spazio fino a colpire i nostri occhi.  Quell’uomo naturalmente non poteva parlare di fotoni e quanti di luce, ma ben immaginava che la luce si propagasse come onde nel mare. Nella mitologia greca Eliconio era epiteto di Poseidone, dio del mare e signore di Elice, città dell’Acaia.  Pausania, geografo greco, forse di origine asiatica, vissuto  probabilmente nel II sec. d. C. (ma cominciò ad essere citato non prima del VI sec. d.C.), ci tramanda che la città di Elice fu distrutta da un terremoto e dalle enormi onde di un concomitante tsunami nel 373 a.C.  Pausania, geografo greco, forse di origine asiatica, vissuto  probabilmente nel II sec. d. C. (ma cominciò ad essere citato non prima del VI sec. d.C.), ci tramanda che la città di Elice fu distrutta da un terremoto e dalle enormi ondate di un concomitante tsunami nel 373 a.C.[2] che ne avrebbe inghiottito i restiIo suppongo, piuttosto, che egli prendesse per vera una tradizione leggendaria nata intorno al nome della città di Elice. In mare, in effetti, non sono stati rinvenuti resti di città.


Mi sono occupato linguisticamente di qualche altro Santo o figura mitica, ma rispondenze così numerose e perspicue, tra le parole fondamentali della tradizione leggendaria arrivata fino a noi e quelle di lingue varie dell’ambito indoeuropeo, come le rispondenze relative a san Cataldo, credo che non le abbia mai incontrate.



[1]  Dico “forse”  perché in greco questa radice ha  dato forme  come  il verbo phaín-ein ’splendere, rilucere, apparire’, che noi pronunciamo come se all’inizio ci fosse la fricativa sorda –f-, mentre la pronuncia classica greca era quella di una labiale sorda aspirata, più vicina alla sonora –b-. Va con sè, poi, che quando interviene un incrocio l’etimologia popolare fa miracoli, nel senso che  stravolge, a volte quasi completamente, la parola d’origine come avviene, ad esempio, nel ted. Trampel-tier  ‘dromedario’ dal latino d’origine greca dromedari-u(m), inteso come se fosse ‘animale (Tier) che scalpita (trampeln)‘ mentre in greco dromas  significava 'corridore', cioè '(cammello) veloce'.



[2] Pausania, VII, 24,6.
   


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