sabato 28 luglio 2018

Universo


                                                     
                                                       
                                                      
  Cominciai a riflettere su questa parola da quando, adolescente di 12 anni già alle prese con l’amato latino, mio fratello che frequentava gli ultimi anni del Liceo mi traduceva la scritta posta sulla sommità della Porta Jannëtèlla la quale suonava sumptibus universitatis erecta, cioè ‘(Porta) costruita a spese di tutta la cittadinanza’.  La traduzione non era perfetta perché mio fratello non sapeva che nel latino medievale la parola universitat-e(m) aveva assunto il valore giuridico-politico di ‘municipio, comune’ e così la intendeva nel senso di ‘insieme dei cittadini’ e simili. 

    Ora, l’aggettivo latino univers-us, a, um  significa ‘intero, tutto, tutto quanto’ e, al neutro singolare o plurale, indica ‘tutte le cose (del mondo), l’universo’.  Fin qui è tutto chiaro, ma l’etimologia a mio avviso non lo è nonostante tutti i linguisti, credo, diano oggi più o meno questa spiegazione: uni-vers-us, cioè ‘rivolto (-versus, dal lat. vert-ere ‘volgere’) in una sola (uni-) direzione’ e, quindi, ‘tutto intero’.  Sinceramente questa spiegazione non mi ha mai soddisfatto perché la trovo alquanto artificiosa nel suo desumere il concetto di “intero, tutto” da quello di “unidirezionalità”. E in effetti tutte le parole latine che iniziano per uni- sono lontane dall’esprimere un’idea di “direzione” invece di quella costante  di “unicità”.  E’ allora chiaro, a mio avviso, che questa direzione è un’aggiunta insinuatasi surrettiziamente nella spiegazione, in quanto suggerita dal significato di ‘rivolto’ dato a vers-us. Il quale deve essere inteso allora diversamente dal solito, ma purtroppo la linguistica tradizionale ha qui le armi spuntate, non avendo fatto un salutare e purificante bagno nel fluido miracoloso e iridescente della linguistica che oso chiamare quantistica

   Ho accennato, infatti, nell’articolo Il termine latino “pectin-e(m)” e le sue varie significazioni che il lat. vers-u(m) ‘verso (di poesia)’ allude secondo me a un movimento lineare, ad una serie di “piedi” che formano l’insieme del verso. Non per nulla la parola significa in latino anche ‘solco, fila, filare’.  Non condivido pertanto l’etimo che lo vuole derivato dal lat. vert-ere ’volgere’, in quanto esso avrebbe indicato l’andare a capo (e quindi lo svoltare) nella prosa e soprattutto nella poesia. Nonostante la suggestione esercitata nel nostro cervello da questo significato di ‘svolta, voltata, girata’ che sembra il più naturale, il termine vers-u(m) in poesia doveva indicare una serie di elementi più piccoli, allineati uno dopo l’altro, e, all’origine, qualsiasi serie o insieme di qualsiasi cosa. Se accettiamo questo ragionamento, il più è fatto per arrivare ad una spiegazione più accettabile di quella canonica  dell’agg. lat.  uni-vers-us, a, um ‘intero, tutto, tutto quanto’.  Se la radice vers- indica il gruppo, l’insieme allora l’aggettivo corrispondente dovrà significare ‘relativo al gruppo, alla massa, totale, generale, intero, tutto’, come succede (ma non è certo) al lat. tot-us, a, um ‘tutto, intero’ il cui sostantivo, nell’area osco umbra, era touta  che indicava la ‘totalità (dei cittadini)’, cioè la ‘città’ o la ‘comunità’. La radice è presente anche nell’area germanica e baltica.

    L’agg. sostantivato, sia singolare uni-vers-u(m) che pl. uni-vers-a ha il valore di ‘universo’, come ho detto, in quanto ‘totalità, somma di tutte le cose esistenti, stelle, pianeti, ecc.’.  Anche in tedesco l’aggett. sostantivato All ‘tutto’ vale ugualmente ‘universo’.

    La parte iniziale uni- rimanda al lat. un-us, a, um ‘uno, uno solo’. La sua radice, però, come ho mostrato nell’interessante articolo del mio blog (aprile 2014) Il “municipio” ovvero il concetto di “unità” [], poteva indicare, oltre al concetto di “unità” anche quello opposto, ma sottostante e sottinteso , di “molteplicità” o di “gruppo, insieme”. Essa allora dovrebbe essere tautologica rispetto all’altra –vers- rafforzando il concetto di “totale” o di “totalità” del termine. Nei nostri dialetti (Avezzano, Luco)  si incontra la voce mund-ìnë, mond-ìnë, mont-ìnë col significato di ‘mucchio di covoni’ altrimenti detto cavallìttë[1]: uno dei tanti insiemi che anche la radice cavall- poteva esprimere. Ad Aielli la voce indicava un ‘mucchio di fieno’ e credo si sia incrociata con lat. mont-e(m) ’monte’.  In latino mund-u(m) esprimeva, oltre a ‘mondo, terra, universo’, anche ‘corredo d’abbigliamento, oggetti di toeletta’ e, collettivamente, ‘strumenti, attrezzi’, tutti significati che riposano su quello implicito di “gruppo, serie”. L’agg. mundus, a, um ‘pulito, elegante’ si sarà sviluppato dal significato di ‘ordine’ proprio degli insiemi ben disposti e connessi ?  E come non collegare il lat. mund-u(m) ‘sole’ (in Manilio) col ted. Mond ‘luna’, che in altro articolo del blog ho considerato espressione di un’idea di “luce”? E come si spiega il dialettale monnézza < mondezza? Essa non è altro che l’it. immondizia con l’aferesi della sillaba iniziale, favorita dal significato di ‘mucchio, cumulo’ della radice di mund-u(m) ‘insieme, ammasso, cumulo (di immondizia, come di ogni altra cosa). Ma potrebbe anche derivare direttamente da quest’ultimo significato.

    Secondo me la dice lunga il fatto che pure l’altro termine latino per ‘universo, mondo’ aveva anche il significato collettivo di ‘strumenti, attrezzi, oggetti di toeletta, corredo d’abbigliamento’, un insieme di oggetti, appunto.  E ad un insieme ben ordinato doveva alludere anche il gr. kósm-os ‘mondo, universo, ordine, ornamento, abbellimento, ecc.’.  

     Anche l’ingl. world ‘mondo, terra, universo’ credo rientri in quest’ordine di idee, nonostante l’etimo accettato da tutti, il quale parla di  ‘esistenza umana, età’. La parola, infatti, deriva dall’ant. inglese wor-uld, wor-old  inteso come ‘età, vita (-old) dell’uomo (wer-)’. L’ant. norreno è ver-öld. A me, francamente, sembra un po’ strano che da questo significato iniziale ‘esistenza umana’ si sia potuto passare poi anche a quello di ‘universo’. Sarebbe più comprensibile il movimento inverso. Ho pensato allora che il primo membro wor-, ver- non fosse altro che il secondo membro di uni-vers-o (ma senza l’ampliamento in –s), e che la seconda parte –old  non fosse che un originario –*ord dissimilato in –old per la presenza della /r/ nel precedente wor-, ver-, dissimilazione favorita anche  dal nuovo significato che il composto veniva ad assumere, una volta scomparsi dalla lingua i significati originari dei suoi componenti.  Di cui, il secondo, -ord appunto, doveva appartenere alla famiglia di lat. ordo,-inis ‘ordine, serie, disposizione ordinata, fila, rango, schiera, classe sociale, ecc.’. In ingl. esiste anche il termine order ‘ordine’ ma esso è piuttosto tardivo, proveniente dal fr. ordre ‘ordine’.   La radice di lat. ord-ine(m) deve essere in qualche rapporto con quella di lat. art-u(m) ‘giuntura, articolazione, membro’[2]

    L’ingl. world ‘mondo, universo’, più che essere riferito alla vita degli uomini sulla terra, doveva indicare all’inizio il sistema ordinato dell’intero universo (secondo una delle definizioni del Webster), ma anche qualsiasi altro insieme.  Ed è molto indicativo, a mio parere, il significato dato alla parola dai chiromanti, secondo il vocabolario Merriam-Webster.  Esso ruota intorno al valore di ‘falange, dita, parte della mano’[3]: un insieme, dunque, o un’articolazione!

    La radice della componente –ord è la stessa del lat. ord-iri ‘ordire, tessere, fare la trama’ con riferimento ai fili dell’ordito. Essa potrebbe essere la stessa del mongolo ordu ‘tribù, accampamento’ che a noi è arrivata, attraverso tramiti diversi (turco, lingue slave) col significato dispregiativo di orda, massa disordinata di soldati, che per la verità non era caratteristica dei guerrieri mongoli, sottoposti a severa disciplina. In turco la parola indicava l’ esercito. Quindi il suo valore di fondo doveva essere sempre quello di ‘insieme, popolo, massa, schiere, esercito’.

    Non si può escludere, però, che la seconda componente dell’a. ingl.  wor-old  rimandi ad un sostantivo simile l’ingl. health ‘salute’ collegato con ol. heel ‘intero, tutto, molto, ecc.’ se ol. heel-al significa ‘ universo’ in quanto “totalità”.  Si sarebbe avuta così una trafila *wor-hold> worold>world.  E non è escluso che il suffisso –al di ol. heel-al ‘mondo’ sia invece all’origine una componente tautologica del termine, da individuare nel ted. All  ‘ universo’, in quanto “tutto”, e nel ted. Welt-all 'universo'.

     Nelle lingue slave l'idea di "mondo" si è incrociata con quella di "luce"  la quale ha finito, anzi, con lo scalzare quella precedente di "totalità".  Il mondo è stato inteso, insomma, come il regno della luce: cfr. serbo-cr. svjet-lo 'luce'serbo-cr.  svijet  'mondo'.  Ma l'aggettivo sve 'tutto' e il sostantivo svjet-ina 'folla' fanno supporre che il sostantivo per 'mondo' originariamente non alludesse alla 'luce' ma alla 'totalità' delle cose esistenti. Anche nel greco moderno kósm-os significa ‘mondo’ e ‘gente’. In altri termini sia l’idea di “mondo, universo” sia quella di “folla, gente” fanno capo all’idea sovraordinata di “insieme, raggruppamento, totalità”.










[1] Cfr. l’articolo del mio blog Covone: etimologia (marzo 2016).

[2] Cfr. l’art. del mio blog Il termine “armento” […] del marzo 2014.

[3] Per il concetto di “mano” cfr. l’art. del mio blog Il “municipio” ovvero il concetto di “unità” (aprile 2014).



martedì 24 luglio 2018

Il termine lat. pectine(m) ‘pettine’ e le sue varie significazioni




   Diversi sono i significati di pectin-e(m) ‘pettine’ di facile comprensione, tenendo presente la forma standard di un pettine:1) strumento d’osso (oggi anche di plastica) per ravviare e rassettare i capelli; 2) strumento per cardare o tessere; 3) rastrello[1]; 4) plettro per “pizzicare” le corde della lira.  Le difficoltà cominciano con il significato di ‘pube’, la macchia di peli del corpo umano dall’ombelico in giù verso gli organi genitali.

   L’italiano obsoleto pettignone  ‘pube’ è un ampliamento del nome in questione, dal latino parlato *pectin-ion-e(m). Nel dialetto abruzzese, ma anche in altri del Meridione, si incontrano voci simili dal significato di ‘pube’, come pëttën-arë, pëttën-icchië[2].  Ora, Tullio De Mauro, ne Il dizionario della lingua italiana, sotto il lemma pettignone, dandone l’etimologia,  osserva che il nome alluderebbe all’aspetto dei peli del pube, volendo dire che essi assomiglierebbero ai “denti” del pettine.  Ma è mai possibile una cosa simile? Ammesso che il rapporto fra i due termini sia basato sulla somiglianza tra i due referenti, non posso assolutamente accettare che chi per primo usò la voce *pectin-ion-e(m) non sia stato in grado di trovare un termine di paragone meno vago e più concreto e credibile di quello di pectin-e(m) ‘pettine’.  E ce ne erano tanti, come cirr-u(m) ‘ciuffo’, lanug-in-e(m) ‘lanugine, pelame’ e gli stessi pil-u(m) ‘pelo, peli’ e vill-u(m) ‘vello, pelo’.  

   Allora bisogna dedurre che qualcosa non va nel ragionamento seguito da De Mauro e da altri, con tutto il rispetto dovuto ai linguisti di questo calibro. A mio parere la questione è questa: la somiglianza tra i significati di due parole corradicali può essere, diciamo così, estrinseca e superficiale o intrinseca e profonda. E’ superficiale quando, come nel caso in questione, essa è dovuta più che altro alla suggestione che la forma esteriore di un oggetto (il pettine) suscita nella mente di chi lo osserva il quale la ritrova, a volte solo vagamente, nell’oggetto indicato da altro nome corradicale (il pettignone).  Così facendo ci lasciamo guidare solo dal senso della vista che però non è alla base della formazione delle parole le quali sono essenzialmente un prodotto dell’attività intuitiva della mente, coadiuvata naturalmente da tutti nostri sensi. E’ un errore capitale credere che per ogni referente la nostra mente abbia creato un significato unico e specifico, quando invece essa procede, in questa attività, dall’universale al particolare, sicchè si verificherà che sotto un unico concetto generico si ritroveranno molti oggetti, anche molto diversi tra loro, con significato più o meno specializzato rispetto a quello generico a loro sovraordinato che, benchè sia all’origine e alla base delle loro specificità, tende a scomparire nel fondo delle parole dove dorme il suo sonno millenario.  Questo è il significato intrinseco e profondo dei vocaboli, il quale, per quanto non si imponga solitamente subito alla vista dell’osservatore, ne costituisce tuttavia la “radice” prima, benchè possa ancora rinviare a significati via via sempre più generici. 

   Ora, questo significato di fondo emerge chiaramente soprattutto quando ci è possibile confrontare tra loro diversi referenti che ne siano portatori. 

   Ritornando al nostro pectin-e(m) ‘pettine’ possiamo notare, infatti, che l’espressione latina pecten dentium indica la fila compatta di denti nella bocca, e non mi pare che essa voglia alludere ai “denti” come “punte” paragonabili ai peli, bensì alla serie compatta dell’insieme dei denti.  La cosa si chiarisce ancora meglio con voci dialettali corradicali di lat. pect-in-e(m) ‘pettine’ come gli abr. pétt-ëlë , pëtt-ël-éllë , pëtt-ìnë che significano ‘infilzata di fichi secchi, fatta con fuscelli, in forma di triangolo. Un’infilzata è dunque, come supponevamo per l’espressione latina precedente, una serie  di elementi (non importa di che cosa: denti, fichi secchi o altro).  L’accento sulla penultima sillaba di pëtt-ìnë fa capire che la voce si è incrociata con l’it. petto: infatti uno dei suoi significati è ‘Il davanti della camicia, staccato e ben incartato’. Un altro suo significato ‘arnese con più bracci per sostegno di candele’ lo ricollega a quello di ‘sfilza, serie’ e quindi a quello più generico di ‘gruppo, insieme, massa, ecc.’ 

    Così si può con certezza asserire che è errato cercare di spiegare dei significati collegandoli con quello del termine corradicale più comune e diffuso in una lingua, in quanto questa diffusione è in gran parte casuale e non è dovuta ad un sua presunta qualità di primogenitura.  Se il concetto di “pettine” è più diffuso rispetto a quello di “pube” ciò avviene perchè il pettine lo adoperiamo più volte al giorno (specie le donne vanitose) mentre il concetto di “pube” se ne sta nascosto nell’ombra ed è certamente meno popolare anche dei termini dei vicini organi sessuali di cui, anzi, si ha un’inflazione di voci, soprattutto nei dialetti.

   Pecten significa talora anche ‘verso (di poesia)’, che presso i classici non era altro che un insieme, una serie di unità ritmiche più piccole come i piedi: il concetto rientra quindi in quello di sfilza, serie, filare, concatenamento di elementi, della stessa natura di quello indicato dal lat. vers-u(m) ‘verso’, concetto che sembra espressione di un movimento lineare come quello del greco stíkh-os ‘fila, schiera, verso, riga’. Ma la parola poteva repentinamente cambiare tipo di movimento espresso, rendendolo circolare come in una giravolta o piroetta della danza, per influsso del verbo vert-ere ‘girare, voltare’, che evidentemente non era il solo a dirigerlo nella danza dei significati, anche se noi stentiamo a crederlo.

   Per pecten ci sarebbero anche altri significati da analizzare, ma mi fermo qui, pago di aver delucidato il meccanismo, molto fluido e instabile, in base al quale si originano i diversi significati particolari delle parole, rivelando una tendenza alla mobilità e al travestimento quasi si trattasse delle particelle subatomiche di cui si occupa la fisica quantistica[3].
 




[1] Dell’etimo di rastrello, che nel suo valore di ‘composizione di vari elementi’ coincide con quello che qui dò di lat. pect-in-e(m), ho parlato nell’articolo I Rostri, la famosa tribuna del Foro romano (maggio 2016).

[2] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq. 2004.

[3] Dei rapporti tra fisica quantistica e significati delle parole ho già parlato abbastanza nell’articolo del mio blog Il parapetto ovvero della libertà delle parole (febbraio 2016).

sabato 14 luglio 2018

Vocabolario abruzzese di Domenico Bielli: “Palazzë, ag. Una varietà di fico grosso”.



Vattelapesca donde derivi l’aggettivo! L’unico termine italiano cui esso sembra chiaramente alludere è palazzo che al massimo, però, potrebbe suggerire, con un po’ di buona volontà, l’idea di “grandezza”.   Ma in realtà la strada che porta alla soluzione del dilemma c’è in questo caso ed è anche abbastanza agevole, una volta diradate le nebbie che l’oscurano.

   In greco si incontra la parola phḗlēk-s , che il Rocci traduce “fico agreste, cioè che sembra maturo ma non è”.  Sicuramente  agreste sta qui per “agresto” che in italiano significa ‘acerbo, aspro’. Difatti il vocabolario del Gemoll traduce direttamente “fico acerbo”.  Il Rocci suggerisce anche l’etimo dal gr. phêl-os ‘ingannatore’ in quanto quel tipo di fico sembrerebbe maturo senza esserlo. Ma, secondo me, se presso qualche scrittore greco il termine ha questo significato esplicitato dal Rocci, ciò è dovuto a semplice incrocio con la parola greca per ‘ingannatore’, che non costituisce a mio parere il suo vero etimo il quale scaturirà direttamente dal significato generico di ‘fico’, come succede spessissimo in tanti altri casi. 

   In abruzzese si incontra la voce fëllacciànë ‘fiorone, fico fiore’[1], cioè il fico primaticcio che matura alla fine della primavera o inizio dell’estate.  E’ strano però che i linguisti, pur formulando qualche ipotesi sull’etimo di questa voce, non indichino affatto il gr. phḗlēk-s di cui ho detto sopra.  Sarà forse perché il significato di ‘fico acerbo’ non collima con quello di ‘fiorone’? Ma questi sono accidenti superabilissimi spiegabili con qualche incrocio, appunto! Li avrà distolti il suono della vocale /a/ presente in tutta la sua pienezza nella voce laziale (Bellegra-Rm) di fallacciano[2]?

  Alcuni linguisti riconducono la voce abruzzese, che presenta altre varianti come fëllàccë, fëllàcchië (più vicine al termine greco citato), al lat. fic-u(m) ’fico’ attraverso, credo, la forma dialettale latina ricostruita *fic(u)la-c(u)l-u(m), una sorta di doppio diminutivo di fic-u(m) ‘fico’, con assimilazione regressiva della prima /c/ alla /l/ successiva dopo la caduta, nella pronuncia,  della /u/ intermedia (sincope), dando così come esito filla-. La seconda /c/ seguita da /l/ ha dato l’esito normale –cchjë   formando la voce fillà-cchje passata quindi a fëlla-cchjë, con trasformazione nella  vocale indistinta /ë/ della /i/ nella sillaba iniziale non accentata.

   A parte tutto ciò, resta anche il fatto notevole che nel dialetto dorico, come i cultori di greco sanno, ad ogni eta impuro (da me reso graficamente con –ē-) corrisponde un’alfa, che ha il suono aperto della /a/ italiana.  Quindi il termine attico-ionico phlēk-s ‘fico acerbo’ sopra citato, in dorico avrebbe dovuto presentare la forma *phálak-s che richiama, nella pronuncia, la voce suddetta fallacc-iano di Bellegra-Rm. Ma il bello è che essa richiama anche l’abr. palazzë , del titolo di questo articolo, riferito a ‘varietà di fico grosso’.  In effetti la pronuncia di /ph/ in greco  era quella di una semplice /p/ seguita da un leggero soffio di aspirazione, tanto che nei primi tempi di trascrizione in latino arcaico, esso veniva reso anche col semplice /p/, che è un’occlusiva labiale, non una fricativa sorda /f/ come oggi noi la pronunciamo. Quindi, a mio parere, l’abr. palazzë e l’abr. fëllacc-iànë (che all’origine dovevano indicare nient’altro che il concetto di “fico”) attestano le due oscillazioni di pronuncia esistenti ab antico di una base originaria corrispondente al dorico *phálak-s.

   La pronuncia della parte finale di palazzë deve derivare da una forma  originaria *phalàk-jë (evolutasi da dorico phálak-s) con pronuncia prima gutturale, poi palatale e, successivamente, affricata (ts)  dando come esito appunto palazzë. Il passaggio da palatale –ccë ad affricata sorda –zzë è attestato in diverse voci abruzzesi come zichë da cichë ‘piccolo, poco’[3]; abr. zizëlà ‘cigolare’ da abr. cëcëlà ‘cinguettare’ (arcaico chëchëlà ‘cinguettare’), ad Aielli-Aq. ed altrove.  Alcuni fanno derivare il nome fëllaccianë suddetto e varianti dal personale Felicianus ‘Feliciano’ e arrivano anche a metterlo in connessione col nome del Santo.  A parte il San Feliciano patrono di Foligno si incontrano anche i santi Primo e Feliciano, martirizzati nel IV sec. d. C. che, data la loro incertissima esistenza reale, potrebbero avere a che fare con questi frutti “prim-aticci” o “primizie”, nel senso che il nome di Feliciano potrebbe essere stato quello di una divinità della natura e della fecondità in tempi preistorici.

   Porto a conoscenza di chi non lo sapesse  che in Grecia, nelle feste di Dioniso (Bacco) chiamate Falloforie, gruppi di vergini portavano in processione enormi “falli” di legno di  fico, simboli del dio Priàpo, il quale adornava spesso orti e giardini anche a Roma, rappresentato appunto con quel simbolo di legno di fico. Perché il legno di fico? Come sempre accade in questi casi, il motivo è da cercare nel semplice incrocio di termini simili: la prima parte del dorico *phál-ak-s è quasi uguale al gr. phall-ós ‘fallo’, simbolo della forza generatrice.  In qualche dialetto e in periodi precedenti a quello classico quel termine doveva significare direttamente ‘fico’. Del resto  la radice delle due parole greche  era la stessa, e cioè BHEL ‘essere turgido, rigonfio, rotondeggiante’, significato adatto sia per l’organo sessuale maschile, sia per ogni frutto, in specie quello del fico in genere e del tipo fëllacciànë in particolare.  Nella radice è incluso anche il significato di ‘rigonfio, grosso’ che spesso accompagna la definizione di questo tipo di fico. Gli incroci sono molto importanti perché possono spiegare fatti particolari altrimenti poco comprensibili.  Un altro significato di fëllacciànë ‘fico primaticcio di colore nero con riflessi azzurrognoli’[4]: come mai spunta questo colore nero? Io non credo affatto che queste precisazioni siano casuali. Ci deve essere una qualche giustificazione.  Secondo me difficilmente il termine deriva direttamente da quello del dialetto dorico: esso potrebbe essere arrivato dalle nostre parti anche prima che esso approdasse in Grecia e potrebbe essersi incrociato con una radice per ‘nero’ come quella che ritroviamo nell’ingl. black ‘nero’ che, secondo i linguisti, è quella del lat. flag-r-are ‘ardere, bruciare’ in quanto il nero è il colore di qualcosa bruciato.  La radice sarebbe BHLEG ‘brillare’ molto simile nella forma esteriore a quella di gr.  phlēk-s ‘fico acerbo’.

   Quante cose ci raccontano le parole, in specie alcune, su epoche lontanissime dell’uomo, se sappiamo prenderle per il verso giusto e interrogarle senza presunzione! Altrimenti si chiudono a riccio e diventano mute come pietre. Sono giustamente gelose, soprattutto verso i saccenti insopportabili, dei loro autentici tesori.
     

  




[1] Cfr. Cortellazzo-Marcato, I Dialetti Italiani, UTET Torino, 1998, sub voce.

[2] Voce che indica il ‘fico’ che matura dopo la metà di luglio.  A fine luglio a Bellegra-Rm se ne celebra infatti la sagra.

[3] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla edit., Cerchio-Aq. 2004.


venerdì 29 giugno 2018

Isole dei Ciclopi. Genesi e sviluppo del mito.






   Le isole Ciclopi o dei Ciclopi formano un piccolo arcipelago nel mare siciliano di fronte a Catania, esattamente davanti ad Aci Trezza. Esso consiste di un isolotto, tre faraglioni e quattro scogli disposti ad arco.   La tradizione mitica vuole che essi siano le rocce e i cocuzzoli di montagna scagliati da Polifemo contro la nave di Ulisse che fuggiva, o anche il masso lanciato sempre dallo stesso Polifemo contro il pastorello Aci che amava, ricambiato, la ninfa Galatea di cui anche il Ciclope era perdutamente innamorato. Una volta mentre Aci la baciava in riva al mare fu visto da Polifemo che, accecato dalla gelosia, lo colpì con un grosso masso uccidendolo. Il pastorello fu trasformato nel fiume, in gran parte sotterraneo, che prese il suo nome e il masso rotolò nel mare antistante. 

     Ora, la stragrande maggioranza degli esegeti del mito dei Ciclopi e anche della gente più o meno acculturata credo pensi che esso, come molti altri, noto già ad Omero, padre della civiltà occidentale che ne parla nell’Odissea, si sia sviluppato autonomamente per motivi diversi connessi con la difficoltà e pericolosità della navigazione di quei tempi lontani e con i racconti dei naviganti tramandati di generazione in generazione, già da millenni prima del presunto ritorno di Ulisse alla sua Itaca.  E questo sarà una parte della verità, ma in fondo la meno interessante.  Perché non si è ancora capito che questi racconti, benchè possano aver avuto un nucleo originario e autonomo di verità, sono stati poi alimentati, accresciuti e moltissimo diversificati soprattutto grazie ai molti nomi di luogo (toponimi) con cui sono venuti a contatto, nel corso di millenni, passando di bocca in bocca e di parlata in parlata, e rispondenti a concetti comuni, fatti e nomi personali via via accumulatisi in quei racconti.

     Il mito dei Ciclopi, insomma, potrebbe aver avuto origini molto lontane già rispetto alla narrazione di Omero (IX - VIII sec. a.C.) e non essere nato in Sicilia, alle falde dell’Etna, come molti pensano, ma altrove nel Mediterraneo; io sono però convinto che nella zona antistante Catania esso si incontrò col toponimo preesistente di Ciclope o Ciclopi  che probabilmente aveva però già perso il significato originario di ‘faraglione, isolotto, scoglio’ in una lingua ivi parlata in tempi precedenti, e fu naturale così collegare quei faraglioni al nome mitico dei Ciclopi proveniente da quel racconto favoloso. Che il nome di Ciclope avesse avuto quel significato di ‘pietra, scoglio, faraglione’, almeno per un certo periodo di tempo, accanto ad altri significati supponibili nella lunga teoria di anni e lingue attraversate, è a mio parere chiaramente mostrato nell’articolo del mio blog intitolato I Ciclopi e il concetto di rotondità del 28/6/2009, articolo collegato con l’altro della stessa data e intitolato Le categorie aristoteliche ostacolano la comprensione [].  Purtroppo, gentile lettore, è necessario armarsi di pazienza e leggerli questi articoli se si vuole eliminare almeno una gran parte dei dubbi relativi a queste mie asserzioni.
   Che il termine ciclope, nel suo probabile significato di ‘rupe, roccia’, non fosse limitato a zone a contatto col mare è secondo me dimostrato dal toponimo Scoglio dei Ciclopi nel monte Cimo in Val d’Adige: una parete fortemente a strapiombo. L’altro toponimo Vajo del Ciclope nel Veneto si riferisce ad un canalone (vajo) fortemente incassato del monte Campo d’Avanti.  Il concetto di “canalone” rientra in quello di “rotondità” ben analizzato negli articoli ricordati.

   Nella descrizione del ciclope Polifemo da parte di  Omero (Od. IX, vv. 187-192) ricorre due volte l’agg. pelṓri-os il cui significato in greco ruotava intorno al concetto di ‘enorme, gigantesco, spropositato, orrendo, mostruoso’, tutte qualità che la tradizione, quasi sicuramente anche prima di Omero, aveva addossato a questo mitico personaggio e ai suoi simili, che erano pastori e vivevano isolati, come cocuzzoli di monti selvosi separati gli uni dagli altri: è questa l’espressione, da me messa al plurale, usata da Omero.  Allora come non pensare ai faraglioni di Aci Trezza o di qualche altra località raggruppati insieme, ma allo stesso tempo svettanti isolatamente l’uno dall’altro? E per l’aggettivo pelṓri-os  come non pensare al Capo Peloro (gr. Pelōrís), la punta estrema nord-orientale della Sicilia che era un promontorio pericoloso per la presenza di forti correnti marine provocate dall’incontro delle acque del Tirreno con quelle dello Ionio? Allo stesso tempo il nome includeva appunto il concetto di “punta” somigliantissimo a quello di “cocuzzolo, vetta, cima” adatto ad indicare giganti. Ecco, dunque, come a mano a mano si plasmò la figura dei Ciclopi: l’apporto dei toponimi risulta fondamentale nella definizione della loro  figura e della loro natura.  Toponimi, ma che all’origine erano stati nomi comuni con chiari significati.  In fondo è la lingua stessa, attraverso molti millenni, che alimenta questi racconti favolosi, qualunque sia stato il motivo originario che diede loro l’avvio.  L’unico occhio rotondo sulla fronte di questi mostruosi giganti è infatti la traduzione in caratteri fisionomici dell’ingannevole  significato letterale  del termine stesso che li indica, kýkl-ōps, il cui primo membro vale ‘cerchio, giro’ mentre il secondo vale ‘occhio, viso’.  Ma c’è da sottolineare che in greco il termine, a parte la sua designazione di questi giganti mitologici, valeva anche semplicemente ‘rotondo, circolare’ senza alcun riferimento all’occhio.  E questo la dice lunga sulla tendenza dell’uomo a interpretare a suo modo le parole che usa. L’etimologia d’altronde è un bisogno connaturato all’uomo, giacchè il linguaggio che egli inventò all’origine era formato da parole che avevano tutte un significato, sia pure generico, e pertanto, quando egli si trova dinanzi a parole oscure, istintivamente va alla ricerca di quella loro chiarezza originaria.

    Il concetto di “rotondità” dietro cui poteva nascondersi quello di “ altura, monte, cocuzzolo, ecc.” mi ha fatto fare un’altra riflessione che prima non mi era balenata nella mente.  Come quasi tutti sappiamo dalla geografia, in Grecia esistono gli arcipelaghi delle isole Sporadi e quello delle Cicladi, le quali ultime avrebbero avuto questo nome perché disposte in circolo rispetto all’isola di Delo, che in realtà non si trova più o meno in mezzo ad esse ma molto decentrata, vicino a Micono (dove sono stato!), quasi sul bordo nord-orientale di questo affollatissimo gruppo di circa 220 isole. Essendo così numerose esse formano un ammasso, per forza di cose, più o meno rotondeggiante.  Ma quello che più di ogni altra considerazione (oltre a quella relativa alle isole dei Ciclopi) mi impedisce di credere alla bontà del significato apparente di gr. Kýkl-ades, termine che indica le suddette isole  ma che è anche aggettivo significante precisamente ‘che sta disposto in circolo, circolare’, è l’esistenza nel mar Ionio di due isolette con qualche scoglio note già nell’antichità col nome di Stróph-ades (perché qui sarebbe sbarcato Enea in cerca della  nuova patria dopo la distruzione di Troia, secondo l’Eneide, e qui abitavano le famose arpie[1], uccelli mostruosi e sozzi), termine che, con altra radice, esprime lo stesso significato apparente di Kýkl-ades, cioè ‘disposte in circolo, circolari’.  Solo che qui il significato risulta inappropriato, trattandosi di due isolette che non potevano formare un circolo.
   
   Date le osservazioni precedenti, questi nomi dovevano avere originariamente, a mio parere, il significato di ‘isola’ o ‘isole’ nel senso di ‘arcipelago’.  Però c’è un’altra difficoltà da superare. A nord-ovest e a sud-ovest delle Cicladi ci sono le Spor-ad-es (Sporadi) settentrionali e le Spor-ad-es  meridionali il cui nome, sempre secondo la lingua greca, significa ‘sparse’, inteso come isole sparse  rispetto a quelle disposte in circolo.  Ma in realtà queste isole sparse non sono tra loro più distanti di quelle delle Cicladi, pur non formando figure circolari perché molto inferiori di numero.  Ora, siccome le Cicladi si trovano in mezzo, tra le Sporadi settentrionali e le meridionali, è possibile pensare, ad esempio, che agli inizi remotissimi tutte le isole dell’Egeo venissero indicate con un unico nome, quello di Sporadi, ma nel significato di ‘isole’ prima che prendesse piede nella lingua il termine nsos per ‘isola’.  Nel frattempo forse arrivò altro termine per ‘isole’ che suonava kýkl-ad-es il quale naturalmente premeva, col passare del tempo, per una sua giustificazione basata sul significato che esso aveva nel frattempo assunto nel greco storico. Così, una volta circoscritte le isole Cicladi, restavano sono gli scampoli a nord e a sud delle isole che continuarono a chiamarsi Sporadi, ma non più col significato di ‘isole’ ma di ‘(isole) sparse’.   Infatti è possibile sostenere che la radice di speír-ein ‘spargere, seminare, spruzzare’ possa essere legata a quella di ingl, spur ‘sperone’, ted. Sporn ‘sperone’ e riferirsi a qualcosa che sporge, aggetta, come in fondo avviene per l’isola che, a mio modo di vedere, sporge, si eleva dal mare.

   Da ultimo vale anche la pena notare che tutti questi nomi di isole, Cicl-adi, Spor-adi, Strof-adi terminano col suffisso –adi come nelle isole Eg-adi di cui ho parlato nel precedente articolo, in cui ho visto il turco ada ‘isola’ nella componente finale -adi.

  Alcuni giorni dopo aver scritto il precedente articolo per caso ho aperto il dizionario greco-italiano e italiano-greco pubblicato dalla Casa editrice Polaris nel 1992. Si tratta di un dizionario che mette insieme il Dizionario manuale italiano-greco di F. Brunetti, pubblicato a Torino nel 1881, e il Vocabolario greco-italiano di K. Schenkl pubblicato a Torino nel 1877.  Ebbene, andando a leggere sotto il lemma Isola dizionario italiano-greco ho trovato il bell’esempio di nsōn kýklos ‘gruppo d’isole’.  Ecco la dimostrazione che il greco kýklos  poteva significare anche un ammasso o gruppo, non meglio definito e non  necessariamente circolare, di isole in questo caso, come avevo supposto sopra.  La realtà della lingua è questa: la parola in questione sicuramente non uscì dalla bocca dell’uomo preistorico col significato di ‘cerchio’, il quale ci inganna pertanto senza pietà producendo un’autocertificazione basata sul greco o altre lingue recenti, fosse pure l’indoeuropeo ricostruito, e non dicendoci quasi nulla sulla sua mobilità estrema, di argento vivo, circa il suo significato visto in diacronia e diatopia. Allora è assai probabile che la stessa cosa sia avvenuta per le isole Stroph-ad-es che contengono nel fondo lo stesso significato di ‘circolo, giro’ (come del resto nel sostantivo corradicale sy-stroph- ‘contorcimento’ ma anche ‘raduno, schiera, gruppo, massa, folla’) e per le isole Spor-adi  che richiamano probabilissimamente anche gr. speĩra ’spira, ogni cosa che si avvolge su sé stessa’ ma anche ‘manipolo, schiera, coorte’ significati adatti ad esprimere la nozione di ‘gruppo di isole, arcipelago’.  Ora in effetti mi rendo conto che la nozione di ‘sparse’ per le isole è alquanto banale, essendo esse naturalmente sempre più o meno separate tra loro.  In verità in questo dizionario della Polaris compare, sebbene riferito solo dai grammatici,  uno speír-ein ‘ripiegare, contorcere’ diverso da quello che significa ‘spargere, seminare, spruzzare’ più sopra citato, e molto simile, per il significato, al gr. kýkl-os ‘circolo, gruppo’ o alla radice di Strof-adi. In verità noi non ci rendiamo ben conto, collocando istintivamente le parole di una lingua tutte grosso modo su uno stesso  piano sincronico, della grande profondità in cui esse andrebbero invece sistemate a livelli diacronici diversi, perché esse sono resti di stadi linguistici del passato non esattamente combacianti con quello in cui esse alla fine  appaiono. Per cui, soprattutto nei toponimi, il loro significato è diverso, di poco o di molto, da quello che esprimono in superficie secondo il sistema linguistico, diciamo così, ultimo arrivato.

   A questo punto comincio a sospettare che anche il termine letterario stroph- ‘strofe’ che generalmente viene spiegato facendo riferimento ai canti del Coro della tragedia che girava cantando, appunto, intorno all’altare di Dioniso nell’orchestra, cambiando direzione alla fine di ogni strofe, non doveva significare altro, all’origine, che gruppo di versi. Anche in altre forme di poesia, non meno antica probabilmente di quella drammatica, come la variegata poesia lirica, ricorrevano gruppi di versi con quel nome, come il ben noto distico elegiaco. Un gruppo di due versi è già una strofe, la strofe dell’elegia, appunto.  Poi il termine dové passare ad indicare la danza stessa circolare e il gruppo di versi cantati dal Coro, come voleva del resto il significato evidente della parola. 
  




[1] Il nome di una delle due isole è proprio Arpia, nome che si sarà incrociato con quello degli uccelli, alimentando il mito. Nel mio dialetto di Aielli la voce arpéa era riferita ad una sorta di aquilotto. 




martedì 26 giugno 2018

Isole Egadi




Arcipelago formato da tre isole più importanti, Favignana, Levanzo e Marettimo, oltre a qualche scoglio più o meno grande, al largo della costa occidentale della Sicilia tra Marsala e Trapani.  
 
   Nell’isola di Favignana, nota nell’antichità greco-romana come Aeg-usa e interpretata come ‘isola delle capre’, si trova un toponimo illuminante circa la formazione dei nomi di luogo.  Come ho sempre sottolineato nei miei scritti linguistici bisogna tener presente che i toponimi sono antichissimi, generalmente preistorici, risalenti a decine di migliaia di anni fa. Naturalmente essi si sono spessissimo incrociati con parole simili di comunità e lingue succedutesi nel tempo nei paraggi e, quindi, assumono spesso significati disparatissimi che non rispondono affatto alla conformazione geografica che presumibilmente essi indicavano agli inizi. Voglio dire che un toponimo, ad esempio, relativo ad un colle, monte, altura molto probabilmente aveva originariamente proprio quel significato di ‘monte, colle, altura’ e non quello che risulta attualmente dal valore più vario.

   Ora, l’isola di Favignana è formata da una dorsale montuosa la cui vetta più alta è chiamata Monte Santa Caterina, dove fu costruito in epoca normanna un carcere noto appunto come carcere di Santa Caterina.  Come si spiega questo nome di Santa, spuntato non si sa come, che dovrebbe rispondere a quello di una delle diverse Sante che lo portano? Una soluzione razionale del problema c’è, dato che l’isola era nota ai Fenici col nome di Kàtria: esso è quasi uguale al Càtera, una delle tante  abbreviazioni  del nome Caterina, come Cata, Cate, Catta[1], ecc. Si aggiunga il fatto che la stessa nozione di “isola” è secondo me scaturita originariamente da quella di “altura, monte, colle” (rispetto al piano del mare circostante) e allora si intuisce la probabilissima genesi di questo nome di Santa Caterina.  E’ il caso di ricordare che anche il termine san, santo (come ho spiegato altrove) poteva avere in toponomastica il significato di ‘monte’ e che Catria è un altro famoso monte dell’appennino umbro-marchigiano  di cui parla anche Dante (Paradiso, c.XXI, v. 109-111), cosa che ci fa sospettare che originariamente il termine era un nome comune per ‘monte’.

    Visto che stiamo parlando delle Isole Egadi (lat. Aeg-at-es) e che la spiegazione etimologica che se ne dà fa ricorso al gr. aik-s, gen. aig-ós ‘capro, capra’ in quanto sulle isole questi animali sarebbero stati abbondanti (maledette capre, sempre pronte ad intralciare il passo della vera etimologia come in Capri, Caprera, Capraia!), è bene soffermarsi un po’ ad analizzare questo  nome.  Esso, in greco, valeva ‘grossa onda, cavalloni’ ed era variante a mio parere di gr. aik ‘impeto, slancio’.  Ora basta riflettere che un cavallone è un sollevamento d’acqua marina per capire che anche un’altura è un sollevamento del terreno che dà forma ad un colle o monte. Ma c’è un riscontro linguisticamente più persuasivo nel lat. aequ-um ‘piano, pianura’ ma, talora, anche ‘sommità (di altura)’.  Si ripete lo stesso meccanismo relativo al termine “piano” che in toponomastica e in alcuni dialetti vale anche ‘altura, salita’ e che ho ben analizzato nell’articolo del mio blog Col tempo e con la paglia[] del 24/7/2011. Ho poco fa detto che il concetto di “monte” equivale, a mio avviso, a quello di “isola” (di cui noi oggi avvertiamo però solo la caratteristica dell’isolamento e non quella di elevazione) e allora il nome dell’arcipelago delle Aeg-at-es (Egadi) doveva corrispondere a quello di “isole”.  Tanto più che a mio avviso si tratta di uno dei tanti nomi tautologici, composti cioè di membri dallo stesso significato: in turco infatti ada, corrispondente al secondo membro del lat. Aeg-at-es,  vale ‘isola’.  Ci sarebbe poi una qualche contraddizione logica tra il nome dell’arcipelago il quale farebbe riferimento alle capre che esistevano almeno in tutte le isole maggiori e il nome greco-latino Aeg-usa ‘isola delle capre’ con cui veniva indicata Favignana. Le capre, insomma, erano solo a Favignana o in tutto l’arcipelago?





[1] Cfr. E. De Felice, Dizionario dei cognomi italiani, A. Mondadori Editore, Milano 1978, sub voce Caterina.

lunedì 25 giugno 2018

Arcipelago: la parola più problematica che abbia mai incontrato.




A prima vista la parola in epigrafe appare di sapore e di forma greca, ma il bello è che essa non esiste nel greco antico; compare in quello moderno ma proveniente dall’italiano “arcipelago” (1815), il quale è la sorgente di irradiazione della parola nelle altre lingue europee.  Ed è strano che la sua più antica occorrenza nella nostra lingua non vada oltre l’inizio dell’Ottocento.  Io non credo affatto, come la vulgata dei linguisti vuole, che il termine sia il risultato di una un po’ troppo libera lettura dell’espressione greca Aigaĩon pélagos ‘mare Egeo’ trasformata in arkhi-pélagos. Il mare Egeo è pieno di isole e pertanto si sarebbe sviluppato il significato di ‘gruppo di isole, arcipelago’ benchè il significato letterale indichi solo un ‘mare (-pélagos) principale (arkhi-)’. Questo arkhi-, presente in molte parole greche, è giunto fino a noi nella forma arci- indicante superiorità, preminenza, se premesso ad un sostantivo come nel termine arci-prete oppure indicante qualità superlativa se premesso ad un aggettivo, come in arci-ricco.

   In latino il termine arcipelago non esisteva perché esso poteva essere sostituito, come avviene tuttora, forse, in diverse lingue extraeuropee, dal plurale di insula ‘isola’, cioè insulae seguito o meno dall’aggettivo indefinito nonnullae ‘alcune’ o aliquot ’alcune’ oppure dal nome proprio dell’arcipelago.    E allora come si risolve il rebus?

    E’ un fatto che moltissime parole di tipo greco sono rimaste nei dialetti, come ho mostrato in diversi articoli del mio blog.  A mio avviso qui si tratterebbe di una parola composta che ha attraversato, all’ombra di qualche oscura parlata, tutta la latinità approdando in qualche dialetto e venendo alla luce in italiano solo nel 1815, secondo il dizionario di De Mauro.   A mio parere i due membri del termine dovevano essere, nelle loro lontanissime origini, tautologici  ed indicare genericamente le ‘isole’, in quanto alture elevantisi sul mare.  Infatti la radice del primo membro doveva essere quella del lat. arc-e(m) ‘rocca, cittadella, altura’ che si riscontra in diversi toponimi come il monte Arci nel Campidano in Sardegna.  Anche il secondo membro trova riscontro nel nome di qualche altura come il monte Pelago nei pressi di Ancona e nelle Alpi  Marittime.  Oltre a ciò un’isola Arki i trova nell’Egeo vicino la più nota Patmos di fronte alla costa turca, e un’isola Pélagos, altrimenti nota come Kyra Panagía, è una delle isole Sporadi settentionali. A non parlare delle isole di Pelagosa o isole Pelagose che formano un piccolo arcipelago croato nell’Adriatico, a nord delle isole Tremiti e delle isole Pelagie tra Malta e la Tunisia. Sotto l’influenza del significato greco e latino di pelago, cioè ‘mare’, il composto finì necessariamente per significare, in un primo momento ‘mare di isole (Arkhi-) e poi ‘mare principale’ secondo i significati dei rispettivi membri del termine nella lingua greca storica.

   Ci sarebbe da dire ancora qualcosa sulla radice di  pélagos ‘mare’, ma mi fermo qui.