La filastrocca veneta in cui ricorre il tema
dell’impiccagione del padre della chiocciola è la seguente (n.105):
Buta, buta
corni,
che tô mari la te ciama,
che tô pari l’è ‘mpiccà
sulla porta
del podestà.
Traduzione: butta, butta (fuori) le corna,/ché tua madre ti chiama,/ ché tuo padre
è stato impiccato/sulla porta del Podestà.
La madre della lumaca qui, invece
di essere dichiarata morta (come avviene nella filastrocca di Aielli-Aq e
Pagliara dei Marsi), chiamerebbe invece la lumaca, e il padre non si sarebbe
impiccato volontariamente ma sarebbe stato impiccato sulla porta del Podestà.
Ora la voce ciama (chiama)
potrebbe richiamare il nome ciamma della lumaca presente nelle
filastrocche abruzzesi e nella parola abruzzese e meridionale ciam-marùca ’lumaca’, come abbiamo assodato
in articoli precedenti. Ma la
considerazione che né nel Veneto né in altre parti del settentrione d’Italia mi
pare essere attestato il suddetto termine, e che il verbo veneto ciamar
‘chiamare’ deriva dal lat. clam-are ‘gridare, chiamare a gran
voce’ mi spinge a trovare un termine attinente alla chiocciola con la radice clam-. Dopo un po’ di riflessione mi si è parato
innanzi l’ingl. clam ‘mollusco bivalve, vongola’, termine che va a pennello per
indicare il guscio della lumaca e che
si è successivamente incrociato con la voce del verbo lat. clam-are ‘chiamare’, diventato in Veneto ciam-ar. Ma esiste in greco un
poco noto termine klemmý-s ‘testuggine’, che conferma la mia supposizione. In tedesco l’aggettivo klamm vale ‘stretto’ e il
sostantivo Klamm significa ‘gola, vallata stretta’. A me pare che il sostantivo contenga il
concetto di “cavità” incrociatosi con quello dell’aggettivo corrispondente.
Quando il significato di un termine ha bisogno di due concetti per essere
chiarito è certo, secondo la mia esperienza, che nel termine convivono due
diverse radici uguali o simili nella forma.
Il
ted. Klamm,
secondo le regole della rotazione consonantica nelle lingue germaniche,
potrebbe derivare da un protoindeuropeo *Glamm, vicino a mio parere al lat. glomus,
-eris
‘gomitolo’ e contenere, nel fondo, il significato di avvolgimento adatto sia per designare l’azione dell’avvolgere e coprire, sia quella dell’ammassare
in una forma più o meno rotondeggiante. E così penso che anche il lat. glum-a(m) ‘gluma, invoglio del grano ed altre
graminacee, pula’ attinga al medesimo concetto, e non derivi, come si sostiene,
dalla nozione di incidere presente nel
gr. glýph-ein ‘incidere, intagliare’.
In ultimo, l’accenno al Podestà
non è naturalmente da riferire né alla massima autorità comunale del fascismo
né a quella del medioevo. Cominciamo con l’osservare, per allontanare il
pensiero dalle figure politiche su accennate, che un termine podestà con varianti come patestò, ecc. si incontra nel calabrese
e che esso significa ‘legno del telaio che mantiene la cassa’[1]. Secondo il Rohlfs il termine deriverebbe da
un greco bizantino *patestόs a sua
volta connesso col greco antico patássō
’batto con rumore’, ma la cosa non mi convince per niente. Di primo acchito io proporrei per il nostro podestà un membro iniziale pot-, pod- con valore di cavità,
buccia come nei rispettivi termini
inglesi pot’vaso’ e pod
’baccello’ e un membro finale -ista
imparentata col gr. hist-όs ‘albero della nave, telaio’ ma anche ‘cella delle
api’ in Aristotele. È quest’ultimo
significato che ripeterebbe quello del primo membro formando un composto
tautologico *pot-ist-όs trasformabile facilmente in podestà dall’etimologia
popolare. Ma c’è un’altra strada, forse
preferibile alla prima, che parte dalla costatazione che in veneto bo
significa ‘bue’, nome con cui in alcune filastrocche viene indicata la
chiocciola anche per via delle corna. Allora si potrebbe supporre un composto
di partenza *bo-tèsta, trasformabile
sempre in podestà dalla folketymology
, termine che d’altronde al nom. sing.
suona in latino potestas, con
l’accento tonico sulla /e/. Il secondo membro tèsta non sarebbe altro che la parola latina test-a(m) dai vari significati di ‘tegola, vaso di terra cotta,
pignatta, guscio di crostacei, ecc.’. Essa è alla base anche di lat. test-udin-e(m)
tartaruga, guscio di tartaruga, ecc.’. La componente –udin- è tutta da studiare, ma ripeterà certamente il valore
dell’altra.
L’it. calamàro, il noto cefalopode simile alla seppia, deriverebbe il
nome, secondo tutti i linguisti, dal fatto che l’animaletto, quando si sente in
pericolo, emette un liquido nero come fa la seppia. Il nome quindi sarebbe
stato suggerito dal termine calamaio che
inizialmente però indicava l’astuccio che conteneva le penne (gr. kálam-os ‘canna, penna’. Io penso che il nome dipenda, come quello
della seppia di cui ho parlato nell’articolo La cantilena per la chiocciola ad Aielli (maggio 2019), dal fatto
che questi animali hanno il corpo rinchiuso in una specie di sacco (mantello)
da cui fuoriescono la testa e i tentacoli. Ora la voce kálam-os, specializzatasi a designare la canna, che ha un fusto vuoto, in realtà
è apparentata, a mio avviso, con gr. kaliá ‘luogo destinato alla dispensa,
granaio, capanna’, con ingl. hall
‘atrio, salone’ e con la radice di lat. cel-are ‘celare, nascondere’. Il termine quindi era adatto ad esprimere
l’idea di ‘avvolgimento, sacco, copertura’ relativa al mantello
dell’animale.
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