Anche
l’etimo di abr. cëtërόnë ‘cocomero’ è molto istruttivo circa l’origine delle
parole. Mi pare che non ci siano dubbi
sul fatto che l’etimo di questa parola rimanda al termine it. cedro, lat. citr-u(m) ‘cedro’, gr.kédr-os ‘cedro’. Ora, il frutto del cedro è solo lontanamente paragonabile al cocomero
o anguria: l’unica caratteristica che li unisce è quella di una forma grosso
modo rotonda , anche se il cedro ha
la grandezza di un grosso limone e l’altro è molto più grande. Il sapore del cedro è acre, mentre quello del
cocomero è dolce.
C’è
anche il cetri-olo a
condividere la stessa radice, anche se la sua forma è oblunga piuttosto che
rotondeggiante, ma anche così esso può rientrare, a mio parere, nel concetto
generico di “protuberanza”, alquanto più ampio e sovraordinato a quello di
“rotondità”: si tratta, insomma, di una stessa radice dal significato sempre
più generico, a mano a mano che si scende nelle sue profondità.
In questi casi i linguisti solitamente parlano
di una stessa radice, la quale però, secondo loro, aveva magari un significato
specifico passato, poi, per estensione,
ad indicare altre entità simili. Errore
grave, a mio avviso. In questi casi,
come in quello già visto in altro post del ted. Buche ‘faggio’, lat. fag-u(m) ‘faggio’, gr. phēg-όs ‘quercia’, bisogna pensare che il significato originario della
radice fosse molto generico, quello di ‘pianta, albero’, tanto più che il gr. kédr-os oltre al cedro, una conifera, indicava il ginepro, un arbusto sempreverde.
E c’è anche da sottolineare che il concetto di “protuberanza” poteva
includere tanto la massa, il bitorzolo del frutto, quanto la prominenza della pianta emergente dal suolo.
Ora,
dinanzi a casi che ripetono sempre questo stesso cliché, non credo che sia una
conclusione ascientifica desumere che questo sia un comportamento essenziale
del linguaggio, il quale quindi procederebbe per generalia nel senso che i significati di fondo delle radici
sono sempre molto generici. La stessa
cosa, quindi, sono convinto che succeda, ad esempio, con i nomi specifici degli
animali i quali all’origine dovevano
avere nient’altro che il significato genericissimo di ‘animale’. Non riesco ad immaginare un uomo parlante che,
dinanzi ai molti animali cui dare un nome, si metta a riflettere sulle
caratteristiche salienti di ognuno di essi,
in base alle quali trovare un nome adeguato: operazione difficilissima, anzi, inattuabile
a mio avviso, dato che la facoltà razionale dell’uomo (comparare, distinguere,
sottilizzare, ecc.) deve essersi sviluppata di pari passo con la formazione del
linguaggio il quale, nella fase aurorale, doveva combattere ancora con la tabula rasa
del cervello umano immerso in un caos nebuloso ed era già tanto se riusciva a porre i nomi generici agli
animali, alle cose e, via via, alle operazioni mentali superiori attinenti alla capacità razionale in formazione. Tutto si semplifica se la parola primordiale, in tutte le sue varianti, conteneva, appunto, il concetto generico di “anima, animale” con cui designare ogni entità del mondo reale.
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