Non credo che oggi nelle nostre case si nomini più il verbo fëlërìssë ‘muffirsi (del pane)’, dato che il pane si
compera giornalmente e difficilmente diventa stantio, tanto meno fëlërìtë. Quando ero ragazzo il pane
ogni quindicina o più di giorni veniva portato a cuocere al forno
pubblico. Non ricordo quante pagnotte mia madre preparasse ogni
volta, ma dovevano essere un bel numero per bastare ad una famiglia di cinque
componenti, i miei genitori, mio fratello, mio nonno ed io. E’ comprensibile
che le ultime pagnotte corressero il rischio di cominciare a fëlërìssë, ma venivano consumate ugualmente,
col raschiar via la parte guasta, in genere piccola. Il pane allora era considerato quasi sacro,
almeno dalle persone più anziane. Ricordo che una volta mio padre mi guardò con
una espressione severissima di rimprovero, semplicemente perché avevo poggiato una pagnotta sul tavolo nel
verso sbagliato. C’erano ancora famiglie, però, che stentavano a nutrirsi.
Il
verbo fëlërìssë è della terza coniugazione riflessiva. Donde
può arrivare questa forma così strana in apparenza? La domanda può restare sospesa
in aria per anni se è vero che io stesso, dopo una prima ed erronea
sistemazione della parola, ho praticamente atteso tutta una vita per raggiungere
quella che ritengo una risposta giusta.
Tanti anni fa, nella mia studiosa e meditabonda adolescenza (la mia
inclinazione all’etimologia deve essere un fatto legato al DNA), riuscìi solo
ad avvicinare la voce al dialettale filë,
italiano filo, il quale mi
sembrava rispondere alla forma, diciamo così, della muffa verdognola del pane: una serie si sottilissimi filamenti
intrecciati tra loro. E ne fui abbastanza pago, senza essere disturbato più di
tanto da cose che mi sembravano marginali, come la necessità di dover porre
come base una forma *fil-er- con la sillaba finale lasciata lì a fare non so che.
Ora
che sono prossimo alla vecchiaia più decrepita e che ho studiato diverse cose
relative alla lingua (oddio! non è che possa stare alla pari di certi signori
che conoscono a menadito tanti problemi teorici legati alle parole!) mi è
venuto in mente, ripensando a questa parola, che esiste il fenomeno della
vocale anaptittica (anaptissi, detta anche epentesi), il quale non sarebbe altro che il fenomeno inverso della
sincope: insomma, con parole più latine, esso si verifica quando una vocale,
invece di cadere, sia nella pronuncia che nella scrittura, va ad inserirsi tra
due consonanti che stavano bene senza, come in italiano battesimo < lat. baptism-u(m):
e il fenomeno non è di ieri, si riscontra anche nelle lingue osco-umbre,
pensate un po’!. Allora ho avuto il
sospetto che la prima vocale indistinta di fëlërìssë potesse essere un’intrusa e che la parola, all’origine,
dovesse sonare *flërìssë, una chiara
compagna del verbo it. fiorire, anche
se non riflessivo. Così tutto diventava
più chiaro perché il lat. flor-e(m) ‘fiore’ vale anche prima lanugine
nelle guance degli adolescenti, annunciatrice della mascolinità. Caspita! mi son
detto =naturalmente tra me e me, dato che vivo solo=, ecco, sono riapparsi i filamenti cui avevo collegato l’etimo
della parola tantissimi anni fa. E che
si tratta di verità me lo garantisce il verbo trasaccano fiërì ‘fiorire’ il quale ha due significati, direi
contrapposti, uno si riferisce al bel colore assunto dal pane e altro cibo cotto al forno, l’altro si riferisce al pane stantio, umido, che mostrai primi segni di
ammuffimento, e significa appunto ammuffire[1]. Il termine trasaccano per ‘ammuffire’ ha
preferito procedere sulla scia del più comune it. fiorire, aiellese fiurì ‘fiorire’,
mentre l’aiellese fëlërìssë ‘ammuffirsi’,
pur essendo composto della stessa sostanza, ha mantenuto fino a noi quella
forma anaptittica che aveva assunto (snobbando l’altra?) chissà quando.
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