venerdì 12 febbraio 2021

Un altro verbo un po’ strano, ad Aielli, fino a quando non si trova il filo che lo sdipana.

 


 

     Non credo che oggi nelle nostre case si nomini più il verbo fëlërìssë ‘muffirsi (del pane)’, dato che il pane si compera giornalmente e difficilmente diventa stantio, tanto meno fëlërìtë. Quando ero ragazzo il pane ogni quindicina o più di giorni veniva portato a cuocere al forno pubblico.  Non ricordo quante pagnotte mia madre preparasse ogni volta, ma dovevano essere un bel numero per bastare ad una famiglia di cinque componenti, i miei genitori, mio fratello, mio nonno ed io. E’ comprensibile che le ultime pagnotte corressero il rischio di cominciare a fëlërìssë, ma venivano consumate ugualmente, col raschiar via la parte guasta, in genere piccola.  Il pane allora era considerato quasi sacro, almeno dalle persone più anziane. Ricordo che una volta mio padre mi guardò con una espressione severissima di rimprovero, semplicemente perché   avevo poggiato una pagnotta sul tavolo nel verso sbagliato. C’erano ancora famiglie, però, che stentavano a nutrirsi.

    Il verbo fëlërìssë  è della terza coniugazione riflessiva. Donde può arrivare questa forma così strana in apparenza? La domanda può restare sospesa in aria per anni se è vero che io stesso, dopo una prima ed erronea sistemazione della parola, ho praticamente atteso tutta una vita per raggiungere quella che ritengo una risposta giusta.

      Tanti anni fa, nella mia studiosa e meditabonda adolescenza (la mia inclinazione all’etimologia deve essere un fatto legato al DNA), riuscìi solo ad avvicinare la voce al dialettale filë, italiano filo,  il quale mi sembrava rispondere alla forma, diciamo così, della muffa verdognola del pane: una serie si sottilissimi filamenti intrecciati tra loro. E ne fui abbastanza pago, senza essere disturbato più di tanto da cose che mi sembravano marginali, come la necessità di dover porre come base una forma *fil-er- con la sillaba finale lasciata lì a fare non so che.

     Ora che sono prossimo alla vecchiaia più decrepita e che ho studiato diverse cose relative alla lingua (oddio! non è che possa stare alla pari di certi signori che conoscono a menadito tanti problemi teorici legati alle parole!) mi è venuto in mente, ripensando a questa parola, che esiste il fenomeno della vocale anaptittica (anaptissi, detta anche epentesi), il quale non  sarebbe altro che il fenomeno inverso della sincope: insomma, con parole più latine, esso si verifica quando una vocale, invece di cadere, sia nella pronuncia che nella scrittura, va ad inserirsi tra due consonanti che stavano bene senza, come in italiano  battesimo < lat. baptism-u(m): e il fenomeno non è di ieri, si riscontra anche nelle lingue osco-umbre, pensate un po’!.  Allora ho avuto il sospetto che la prima vocale indistinta di lërìssë potesse essere un’intrusa e che la parola, all’origine, dovesse sonare *flërìssë, una chiara compagna del verbo it. fiorire, anche se non riflessivo.  Così tutto diventava più chiaro perché il lat. flor-e(m) ‘fiore’ vale anche prima lanugine nelle guance degli adolescenti, annunciatrice della mascolinità. Caspita! mi son detto =naturalmente tra me e me, dato che vivo solo=, ecco, sono riapparsi i filamenti cui avevo collegato l’etimo della parola tantissimi anni fa.  E che si tratta di verità me lo garantisce il verbo trasaccano fiërì ‘fiorire’ il quale ha due significati, direi contrapposti, uno si riferisce al bel colore assunto dal pane e altro cibo  cotto al forno, l’altro si riferisce al pane  stantio, umido, che mostrai primi segni di ammuffimento, e significa appunto ammuffire[1].  Il termine trasaccano per ‘ammuffire’ ha preferito procedere sulla scia del più comune it. fiorire, aiellese fiurì ‘fiorire’, mentre l’aiellese fëlërìssë ‘ammuffirsi’, pur essendo composto della stessa sostanza, ha mantenuto fino a noi quella forma anaptittica che aveva assunto (snobbando l’altra?) chissà quando.



[1] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà F-P, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2003.

Nessun commento:

Posta un commento