Ma come è possibile! Ho controllato
i due dizionari etimologici e i quattro vocabolari in mio possesso in cerca
dell’etimologia del termine del titolo e non ho potuto fare a meno di meravigliarmi,
in senso negativo, di quello che tutti ripetevano. La parola sarebbe derivata
dall’italiano collo, parte del corpo
umano fra la testa e le spalle, per metonimia, cioè (per quelli che non
conoscono o non ricordano il vocabolo tecnico metonimia), dal fatto che
inizialmente il carico da portare in qualche viaggio lo si accollava, in altri termini lo si metteva sul collo o sulle spalle
proprie o di qualche persona prezzolata.
Ora, ammesso che il verbo possa derivare dal sostantivo collo anatomico (non ne sono certo, succedono cose incredibili nelle lingue!) credo che non sia affatto certo lo stesso etimo per il sostantivo collo ‘bagaglio, sacco’, perché esiste lì, a portata di mano, il lat. culle-u(m) o cule-u(m)‘sacco di cuoio’. Forse gli illustri studiosi hanno pensato che una derivazione da culle-u(m) avrebbe dovuto dare come esito in italiano un *cuglio o *coglio allo stesso modo di it. coglia ’scroto’, it. cogli-one dal lat. cole-u(m) ‘testicolo’, latino tardo cole-on-e(m)’coglione’. Ma una tale derivazione avrebbe creato problemi di confusione tra l’eventuale *coglio ‘sacco’ e la coglia ‘scroto’. A questo punto è più logico supporre un normale incrocio (non derivazione!) intervenuto tra lat. culle-u(m) ’sacco’ e lat. coll-um ‘collo (parte del corpo)’ che ha dato it. collo ‘balla, bagaglio’. A parte il fatto che l’it. coglia ‘scroto’ sembra avere un antecedente uguale a quello greco di cole-όn ‘guaina, fodero’ molto simile, d’altronde, al lat. culle-u(m) ‘sacco’, il resto mi sembra normalissimo, inutilmente complicato da menti peraltro dotte! O forse è stato il significato in qualche modo ristretto del lat. culle-u(m), cioè ‘sacco di cuoio (in genere per liquidi)’ a farlo mettere da parte, ma allora, con la stessa pignoleria, non dovremmo collegare alla radice cul(l)- nemmeno il lat. cul-ill-a(m) ‘grande tazza’, diversa dall’idea di “sacco” come il lat. cul-ign-a(m) ’piccola coppa’. Ma è chiaro che il significato di fondo di questi termini è quello generico di ‘cavità’ o 'rotondità', non importa se concava o convessa. Del resto anche lo stesso culle-u(m) indicava un sacco dentro il quale non si mettevano liquidi, ma i condannati per parricidio, in compagnia di qualche vipera o serpente, prima di essere gettati nel Tevere.
Spinto dal dubbio che nutrivo sull’etimo di it. accoll-are sono andato a compulsare i
vocabolari e i dizionari etimologici e ho avuto la conferma di quello che più sopra
sospettavo. Tutti ripetevano la stessa cosa, tranne il vecchissimo vocabolario
di P.Petrocchi (1892), il quale per lo meno non si lasciava prendere per il
naso dal termine “collo (parte del corpo)”e proponeva come etimo l’ingl. coil ‘corda raggomitolata’.
Debbo dire che si possono trovare ottimi etimi, anche solo riflettendo
sui significati che una parola può avere o avere avuto in diacronia o in
sincronia, nei diversi settori di applicazione. Mi sembrava che il verbo avesse
potuto avere come base di partenza non il lat. coll-u(m) ‘collo (anatomico)’ ma un termine in uso nel lat. volg. *colla
risalente al gr. kόlla ’colla, glutine’.
Il verbo in questione doveva così avere all’origine il significato di
‘incollare, attaccare, applicare (qualcosa su qualche altra)’ e poi, incrociatosi
col lat. coll-u(m) ‘collo’, non ha
potuto evitare di trasformarlo in quello di ‘applicare un carico o incarico sul
collo, sulle spalle (di qualcuno)’
facendo credere a tutti, compresi gli studiosi, che questa fosse la sua
legittima e incontrovertibile natura, legata a filo doppio con il significante
e il significato di collo, parte del
corpo umano. Ma questa è tutta una messinscena, che viene smontata da un
significato che il part. passato del verbo, cioè accollato, prende in araldica: esso si riferisce a due scudi
contigui, cioè accostati e quasi in contatto l’uno con l’altro, o alle figure
di losanghe che si toccano per le punte. Non si può avere una prova migliore e più
concreta di questa, circa il significato originario del verbo.
Ora, sicuramente ci saranno altri termini nel nostro vocabolario e in
quello di tante altre lingue che si comportano esattamente come questo accollare, ed è un gravissimo peccato
che generazioni di giovani studenti, in tutto il mondo, debbano restare
all’oscuro di questi stupendi comportamenti dei vocaboli ─ che del resto non sono difficili
da capire─, perché
uno studioso solitario come me (anche se da alcuni anni pubblico qualche
articolo sulla rivista internazionale Quaderni
di semantica) difficilmente riuscirà a far traballare apparati
culturali e poteri consolidati in
linguistica, anche se dovessero per caso
condividere in cuor loro la mia visione.
Soprattutto nei modi di dire tradizionali si annidano vere e proprie
chicche che stupiscono molto, come succedeva ai miei studenti quando gliene
spiegavo alcuni. Perché si dice non dire
mai gatto se non ce l’hai nel sacco? In effetti non sarebbe stato meglio
parlare, ad esempio, di coniglio data
la maggiore commestibilità o gustosità della sua carne rispetto a quella di un
gatto, anche se talora in periodi di magra, ricordo, mangiavamo noi ragazzi anche
gatti. L’equivoco si scioglie subito se
si suppone dietro la voce gatto il
latino capt-u(m) ‘preso’ che
risulta più realistico rispetto al gatto,
in quanto tutta la locuzione verrebbe a significare non dire mai: «preso!» se non ce l’hai nel sacco. Si poteva allora trattare di
qualsiasi animale.
Perché mai, ancora, si dovrebbe dare per scontato che, tr le tante
addizioni aritmetiche possibili, solo quattro
e quattro otto possa esprimere qualcosa fatto in un batter d’occhio? In
verità basta grattarne la crosta superficiale per vedere apparire, ancora una
volta, il lat. coacte ‘alla svelta’
sotto il quattro (cfr. il napoletano quattë ’quattro’)
e il lat. oc(i)te(r) ‘velocemente’ sotto l’otto. Si nota un cumulo di avverbi allo stesso modo
in cui diciamo, concitatamente, a qualcuno di sbrigarsi, usando l’espressione subito, subito, veloce!
Anche la mia lingua madre, il dialetto di Aielli, mi ha riservato una
sorpresa con l’espressione ‘ngòr’ a ssòlë ‘in faccia, di fronte al sole’, la
quale di primo acchito sembra doversi interpretare come, anche se con
insoddisfacente approssimazione, come in
cuore al sole; in realtà sotto si nasconde il puro latino incoram solis ‘di fronte al sole’.
Questi stupendi “giochetti” non sono naturalmente appannaggio del solo
italiano e dei suoi dialetti. C’è in
inglese, ad esempio, un’espressione abbastanza strana, fat chance ‘grassa (fat)
possibilità’, che ha lo stesso significato di slim chance ‘esigua, minima (slim)
possibilità’. Ora, lo studioso Steven Pinker[1],
direttore del Centro di neuroscienza cognitiva al famoso MIT (Massachusetts Institute of Technology di
Boston), si trae d’impaccio prontamente osservando che la locuzione fat chance è sarcastica: a mio avviso
egli avrebbe potuto più dimessamente, ma con maggiore aderenza alla realtà,
avviarsi a risolvere il problema, se avesse umilmente sfogliato un dizionario
danese (io ne posseggo uno tascabile!) constatando così che dan. fed ‘grasso’ corrisponde ad ingl. fat ‘grasso’, ma che esiste anche un
verbo formalmente simile alla radice in questione, e cioè fedte ‘lesinare’ e un agg. fedted ‘unto’ ma anche ‘spilorcio’, i quali lo avrebbero messo sulla
buona strada facendogli balenare nella testa che l’ingl. fat chance doveva aver
iniziato il suo cammino come ‘lesinata, risicata, scarsa possibilità’, dato che
il fat dovette necessariamente
coincidere, alla partenza, con la radice di dan. fedte ‘lesinare’. E ognuno conosce l’importanza del danese per il
lessico inglese. In danese esiste anche l'aggettivo fatt-ig 'povero' che rimanda ad una idea di "scarsità". C’è poco da fare, gli studiosi non riescono a staccarsi dalla
superficie delle lingue forse perchè troppo imbevuti di norme che ne descrivono
sostanzialmente solo lo strato superiore, senza riflettere abbastanza che
bisogna sempre sospettare che sotto sotto la Lingua ci stia ingannando, nonostante
l’evidenza! Amen.
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