lunedì 18 marzo 2019

Tramoggia


                                                                      

La parola latina da cui deriva l’it. tramoggia  è tri-modia pl.  e sing.  tri-modi-u(m)  dallo stesso significato.  Il modi-u(m) ‘moggio’ era un’unità di misura per aridi, della capacità di circa nove litri. Chi non ricorda il titolo della tragedia del nostro D’Annunzio La fiaccola sotto il moggio?  Una tramoggia, stante la sua etimologia da tres ‘tre’ modia ’moggi’, doveva contenerne quindi una trentina scarsa, cosa che non mi pare esatta se penso alla tramoggia che vedevo quando, nella fanciullezza e fino alla giovinezza, andavo con i miei genitori alla mola del paese a macinare il grano.  Il recipiente era molto più ampio, tanto da contenere, ad occhio e croce, almeno un paio di sacchi di grano.  

  A parte la sua effettiva capacità, che naturalmente poteva variare di caso in caso, mi è capitato di dimostrare molte volte nei miei articoli che le parole difficilissimamente nascono belle e nuove dalla bocca di  chi per primo deve esprimerle, giacchè esse riciclano spessissimo materiale linguistico già esistente che si presta automaticamente a specializzare il suo precedente significato generico. Una cosa del genere deve essere capitata alla nostra tramoggia se si analizza bene il verbo abruzzese tra-muggià [1]‘passare da un punto all’altro’, detto di dolore: lu dulόrë tra-muggéjjë. E’ assolutamente impossibile sostenere che il verbo, il quale presumibilmente viene da molto lontano nel tempo quando ancora doveva essere vivo il valore apparente di lat. tri-modia  (tre moggi), abbia qui un valore metaforico basato sulla funzione della tramoggia che fa passare il grano alla macina sottostante. Nemmeno oggi, d’altronde, che l’etimo del termine non è più evidente al parlante comune si potrebbe mai dare un suo uso metaforico in tal senso.  C’è anche da notare che un nome per questo strumento io non l’ho mai sentito dai miei compaesani e così, forse, sarà stato negli altri paesi: il verbo tra-muggià, quindi,  potrebbe essere nato indipendentemente da vocabolo lat. tri-modia ‘tramoggia’  il quale, a sua volta, suona come reinterpretazione di un precedente vocabolo per ‘recipiente’ simile a modi-u(m), il cui primo elemento tri- (anche tra-) si prestò a cambiare il significato in ‘tre moggi’. Il valore iniziale di questi termini doveva essere quello generico di ‘cavità, recipiente’ che si specializzò ad indicare l’unità di  misura degli aridi, grazie all’incrocio con la radice del verbo lat. met-iri ‘misurare’. La spiegazione per me più naturale è, invece, che il possibile verbo *tri-modi-are o *tra-modi-are indicasse già di suo questo passaggio e che la radice dell’elemento  –modi- abbia a che fare con quella di lat. mod-ul-u(m) ‘tubo d’acqedotto’. Così la tramoggia meravigliosamente appare nella sua natura profonda che è quella di tubo, imbuto o budello che trasfonde lentamente liquidi e aridi da un recipiente all’altro.  Il *tra-modi-are è quasi una variante di lat. e it. tra-mut-are che ha anche il significato di ‘travasare’. Dimenticavo il gr. mot-ari-on ‘canaletto di scolo’ (in Ippocrate).  Per l’elemento tri-  nel significato di cunicolo, passaggio, movimento mi limito a citare, per la toponomastica, la città francese sulla Manica Tré-port, nome che ripete tautologicamente il significato di porto, che come sappiamo equivale a quello di passaggio (cfr. ingl. ford ’guado’, ted. Furt ‘guado’): in questo caso Trè-  deve essere variante di fr. trou ‘buco’; in Sicilia, nella provincia di Messina, si incontra il Passo dei Tre, un valico montano. Molto interessante è il nome di una stretta gola del monte Citerone in Beozia, nota come Dry-όs  kephal-aí ‘teste di quercia o di albero (dry-όs: cfr. ingl. tree ’albero’)’ oppure come Treĩ-s  kephal-aí ‘tre teste’: è chiaro come il sole che la prima parte della denominazione è la risultante di una doppia interpretazione di una stessa base preistorica col valore evidentemente di ‘gola, passaggio’.  Le keph-al-aí ‘teste’ non c’entrano nulla, e suppongo che esse si ritrovino finanche nel Passo del Cav-allo nel monte Baldo (Verona), nella Grotta del Cav-allo (Puglia) e nella Grotta del Cav-all-one nella Maiella in quanto cav-ità (cfr. ingl. cave ‘grotta’, lat. cav-ern-am ‘caverna, fenditura’). Ma c’è anche l’espressione cavallo dei pantaloni, cioè l’inforcatura simile ad un in-cavo (cfr. l’espressione in-cavo delle ascelle). Inoltre penso che l’elemento –allo sia lo stesso del mutt-àll ‘imbuto’ (a San Salvo-Ch.) che fra poco citerò. Nello stesso lat. i-ter ‘cammino, percorso, passaggio’ l’elemento -ter non è un’inutile desinenza, ma contiene in sé lo stesso significato del primo elemento i- ‘andare’. E mi fermo qui.

    A San Salvo-Ch. il nome dell’imbuto  è   mutt-àll[2] (meglio scritto mutt-àllë, con vocale indistinta finale); si direbbe una variante del più diffuso mutë, mut-éllë, mmutt-ìjjë, ecc. di cui ho parlato nell’articolo precedente Etimo di imbuto.  Proprio la sua particolarità mi ha fatto meditare sull’apparente suffisso diminutivo -éllë  che all’origine tale non era (lo avevo capito da molto tempo per altri casi) se è vero che esso se la deve vedere, ad esempio, con il gr. mét-all-on ‘fossa, galleria,miniera, cava’, da cui il nome di metallo. Met-all-éia ‘scavo, cunicolo, galleria’ è un suo degno sosia. Questo significato di ‘cunicolo, budello sotterraneo’ mi riporta dritto dritto al concetto di ‘cavità, imbuto’ di cui è questione. Altre forme dialettali come im-mutta-turu, am-mutta-turo ‘imbuto’ sono propaggini di queste voci e non vanno ricondotte a tardo lat. im-but-u(m), come ho mostrato nell’articolo citato, né tanto meno all’it. botte che si fa risalire ad un latino tardo butt-e(m) ‘vasetto’.  Naturalmente esse si sono incrociate con it. botte o il suo sosia tardolatino, e sono munite del suffiso -tore che indica la persona o strumento che compie l’azione. Ma anche qui state ben attenti! Il detto suffisso credo sia  diventato tale solo successivamente perché il suo simile -tura indica solo l’azione come in lat. arma-tur-a(m) ‘armatura’ e it. anda-tura.  Il siciliano muta-tura vale ‘spinta’ e  muta-turi  o im-muta-turi  vale ‘che o chi spinge’.   E così siamo tornati all’im-mutta-turu ‘imbuto’ sopra citato, il quale è uno strumento che tramuta o spinge qualcosa spostandola dalla condizione in cui si trova e inducendola ad altra condizione e situazione.

   Un capitolo a sé, anche se breve, va riservato ai vocaboli italiani im-botta-toio e im-botta-vino ‘grande imbuto per vino’, data l’importanza della cosa.  I vocabolari e gli etimologi, nessuno escluso, sotto i rispettivi lemmi chiosano senza tentennamento alcuno che si tratta di grosso imbuto per travasare il vino nelle botti, come i vocaboli stessi del resto a chiare note sembrano asserire. A nessuno è venuta in mente la riflessione che potrebbe trattarsi di una radice che aveva la possibilità di indicare sia la botte sia altra cavità come quella dell’imbuto, allo stesso modo dei casi precedenti.  Ora, se è vero che la voce tardolatina butt-e(m) ’vasetto’ sembra più adatta ad indicare una botticella che un imbuto, bisogna fare i conti anche con un termine come lat. bot-ul-u(m) ‘salsiccia, budello’, con cui veniamo comodamente reimmessi nella carreggiata che ci riporta dritti al concetto di “imbuto”. Esiste anche un ingl. boot (fr. botte ‘stivale)’ che oltre a significare generalmente ‘stivale’, una cavità, dunque, vale anche drain cock, cioè ‘rubinetto di spurgo, drenaggio’ per carro botte ed altri mezzi, e siamo di nuovo quindi nella zona calda dei tubi, tubicini, budelli.  Basta riflettere, a mio parere, su alcuni termini italiani come im-botta-mento per cominciare a capire che la radice in questione poteva assumere significati particolari non pienamente rispondenti a quello di botte. Nel vocabolario di T. De Mauro il lemma imbottamento  presenta, oltre all’ovvio significato di imbottatura (immissione di liquido in una botte), anche quello idraulico di sifonamento, cioè, in breve, di infiltrazione di acqua alla base di un terrapieno o quello di incanalamento sotterraneo di corsi d’acqua. L’idea di “infiltrazione” è vicina a quella di “imbuto” il quale ha proprio la funzione di lasciar passare lentamente il liquido. Anche in toponomastica si incontrano fossi con questo nome come Fosso della Botte nell’isola del Giglio e altrove: una radice così legata al terreno non può essere nata come mera metafora di botte ma doveva significare direttamente, in lingue del passato, il fosso, il canale, la valle che designava. Ma si incontrano nelle campagne diverse Fonte Botte  che naturalmente non traggono in ballo la botte ma semmai l'it. butto 'getto d'acqua, spruzzo'. La radice del verbo  it. butt-are che viene solitamente ricondotta al fr. bout-er 'colpire, gettare, germinare' da un supposto  francone  *bot-an 'colpire', doveva essere invece molto più antica, a mio parere, se essa era così radicata nel territorio. Per questa strada, ora che ci penso, si può recuperare anche il tardo lat. im-but-u(m) ‘imbuto’ che tuttavia  non ha nulla da spartire col verbo lat. imbu-ere ‘impregnare, imbevere’, di etimo ignoto e forse da suddividere in im-bu-ere. Si potrebbe trattare allora di variante della radice raddoppiat di lat. bi-b-ere  'bere' ben attestata in area indoeuropea. Comunque la differenza con la radice di mutu ‘imbuto’ resta intatta. Ma non basta.  La stessa storia si ripete, senza che i linguisti se ne accorgano, per il fr. en-tonn-oir ‘imbuto’ che apparentemente, e con tutta evidenza, sembra avere il significato di ‘(imbuto) per riempire la botte (tonn-eau)’, con il suffisso di nomen agentis –oir. Ma ahimè! occhio alla penna!  Anche in questo caso bisogna svegliare la linguistica dormiente.  Si dà il caso che l’igl. tunn-el ‘galleria’ abbia la stessa radice di ingl. tun ‘barile, botte’ (fr. tonne ‘grossa botte’) e che abbia anche i significati di ‘canna del camino (arcaico), condotto’, e ─indovinate un po’! ─  proprio di ‘imbuto’, anche se nei dialetti[3].  Allora l’en-tonn-oir  francese trova la sua identità non nella botte che pure riempie, ma nel suo essere un cannello, un budello, e un versatore, non importa se della botte o di altri recipienti. Specializzandosi, ha rinunciato alle sue molte possibilità iniziali e, amante della precisazione a tutti i costi, ha finito col gettarsi in braccio alla sola botte, perdendo l’identità più generica di imbuto. Ognuno ha i suoi gusti. L’altro termine imbotta-vino ‘imbuto’ non è da meno, anzi ce la mette proprio tutta per assestarci una botta mortale tra capo e collo, al fine di tramortirci ed impedirci di ragionare, con quel –vino che attesta il suo amore forsennato per esso, rifiutando  ogni altro liquido.  Ma tutta questa prosopopea si sgonfia non appena si fa avanti la voce romagnola bin-el ‘imbuto’ che, col suo primo elemento, smonta tutta la pagliacciata. A mio parere si tratta di radice da confrontare con ingl. bin ‘cassone, arca’, una cavità, dunque, e con fr. bin-et ‘bocciòlo per moccoli di candela’, cioè un tubicino, un cannellino. Ben-accia nell’italiano arcaico indicava una grossa cesta con cui si portavano le uve nella tinaia.  Bisogna citare anche l’it. benna, parola proveniente dai dialetti settentrionali col valore di ‘cesta, corba, carretto’ e riferita a quella specie di contenitore apribile,  situato sull’estremità del braccio mobile di una scavatrice. E, buon ultimo, il lat. ven-a(m) 'vena, canaletto'. 

 Ma mi accorgo ora che non ho finito.  Giulio Bertoni[1], nella sua ricerca sulle denominazioni dell’imbuto  dell’Italia del nord, cita per ultimo, a p. 11, un vocabolo bolognese che suona salva-venna  ‘imbuto’  il cui secondo elemento è quello testé analizzato. Il primo salva-   è da confrontare col logudorese salv-ad-ello [2]  ‘vena del dito mignolo’.  Ma la cosa importante è che questo –venna  ci fa capire che le forme  bvinèl ‘imbuto’o buvinèl ‘imbuto’ (a Bologna)  non possono risalire, come lui sostiene, al verbo bev-ere per il semplice motivo che è molto più probabile che esse abbiano inglobato al loro interno l’elemento –venna o una sua variante, e che quindi debbano intendersi come risultato di più elementi saldati insieme ed evidenziabili in questo modo b-vin-èl o bu-vin-èl : l’elemento interno         -vin è quello che corrisponde al precedente -venna   e al primo elemento del  romagnolo bin-èl  ‘imbuto’.  
     Colpo di coda! L’elemento bu-  ci potrebbe riportare al tormentato tardolatino im-but-u(m) nel senso che la radice –but-  sarebbe un suo ampliamento. L’idea di “imbevere, impregnare, infiltrare”, infatti, è vicina a quelle di “penetrare, diffondersi e scorrere”. Ma attenzione! Il sostantivo, benchè coincida formalmente col part. passato del verbo lat. im-bu-ere ‘imbevere, ecc.’, non può essere all’origine del sostantivo. Le voci marchigiane sarvaì, sarvai ‘imbuto’ credo presuppongano il primo elemento del bolognese salva-venna sopra analizzato.  Amen! 



[2] Cfr. l’articolo Origine di sardo thalàu/thàlau […]presente nel mio blog (settembre 1911).





[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo Polla editore, Cerchio-Aq,2004.

[3] Cfr. Vocabolario Merriam-Webster.









                                                                      


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