La parola latina da cui deriva
l’it. tramoggia è tri-modia pl. e sing.
tri-modi-u(m) dallo stesso
significato. Il modi-u(m) ‘moggio’ era un’unità di misura per aridi, della capacità di
circa nove litri. Chi non ricorda il titolo della tragedia del nostro
D’Annunzio La fiaccola sotto il moggio? Una tramoggia,
stante la sua etimologia da tres ‘tre’ modia ’moggi’, doveva
contenerne quindi una trentina scarsa, cosa che non mi pare esatta se penso alla
tramoggia che vedevo quando, nella fanciullezza e fino alla giovinezza, andavo
con i miei genitori alla mola del paese a macinare il grano. Il recipiente era molto più ampio, tanto da
contenere, ad occhio e croce, almeno un paio di sacchi di grano.
A parte la sua effettiva capacità, che naturalmente poteva variare di
caso in caso, mi è capitato di dimostrare molte volte nei miei articoli che le
parole difficilissimamente nascono belle e nuove dalla bocca di chi per primo deve esprimerle, giacchè esse
riciclano spessissimo materiale linguistico già esistente che si presta
automaticamente a specializzare il suo precedente significato generico. Una
cosa del genere deve essere capitata alla nostra tramoggia se si analizza bene il verbo abruzzese tra-muggià
[1]‘passare
da un punto all’altro’, detto di dolore: lu
dulόrë tra-muggéjjë.
E’
assolutamente impossibile sostenere che il verbo, il quale presumibilmente
viene da molto lontano nel tempo quando ancora doveva essere vivo il valore
apparente di lat. tri-modia (tre moggi), abbia qui un valore metaforico basato
sulla funzione della tramoggia che fa passare il grano alla macina sottostante.
Nemmeno oggi, d’altronde, che l’etimo del termine non è più evidente al
parlante comune si potrebbe mai dare un suo uso metaforico in tal senso. C’è anche da notare che un nome per questo
strumento io non l’ho mai sentito dai miei compaesani e così, forse, sarà stato
negli altri paesi: il verbo tra-muggià, quindi, potrebbe essere nato indipendentemente da
vocabolo lat. tri-modia ‘tramoggia’ il
quale, a sua volta, suona come reinterpretazione di un precedente vocabolo per
‘recipiente’ simile a modi-u(m), il cui primo elemento tri-
(anche tra-) si prestò a cambiare il
significato in ‘tre moggi’. Il valore iniziale di questi termini doveva essere quello
generico di ‘cavità, recipiente’ che si specializzò ad indicare l’unità di misura
degli aridi, grazie all’incrocio con la radice del verbo lat. met-iri ‘misurare’. La spiegazione per me più naturale è, invece, che il possibile
verbo *tri-modi-are o *tra-modi-are indicasse già di suo questo
passaggio e che la radice dell’elemento –modi- abbia a che fare con quella di
lat. mod-ul-u(m) ‘tubo d’acqedotto’. Così la
tramoggia meravigliosamente appare nella sua natura profonda che è quella di tubo, imbuto o budello che
trasfonde lentamente liquidi e aridi da un recipiente all’altro. Il *tra-modi-are è quasi una variante di
lat. e it. tra-mut-are che ha anche il significato di ‘travasare’. Dimenticavo
il gr. mot-ari-on ‘canaletto di
scolo’ (in Ippocrate). Per l’elemento tri- nel significato di cunicolo, passaggio, movimento mi limito a citare, per la
toponomastica, la città francese sulla Manica Tré-port, nome che ripete tautologicamente il significato di porto, che come sappiamo equivale a
quello di passaggio (cfr. ingl. ford ’guado’, ted. Furt ‘guado’): in questo caso Trè- deve essere variante di fr. trou ‘buco’; in Sicilia, nella provincia di
Messina, si incontra il Passo dei Tre, un valico montano. Molto
interessante è il nome di una stretta gola del monte Citerone in Beozia, nota
come Dry-όs kephal-aí ‘teste di quercia o di albero (dry-όs: cfr. ingl. tree ’albero’)’ oppure come Treĩ-s kephal-aí ‘tre teste’: è chiaro come il sole che la prima parte della
denominazione è la risultante di una doppia interpretazione di una stessa base
preistorica col valore evidentemente di ‘gola, passaggio’. Le keph-al-aí ‘teste’ non c’entrano nulla, e suppongo che esse si ritrovino finanche
nel Passo del Cav-allo nel monte
Baldo (Verona), nella Grotta del Cav-allo (Puglia) e nella Grotta del Cav-all-one nella Maiella in quanto cav-ità (cfr. ingl. cave ‘grotta’, lat. cav-ern-am ‘caverna, fenditura’). Ma c’è
anche l’espressione cavallo dei pantaloni,
cioè l’inforcatura simile ad un in-cavo (cfr. l’espressione in-cavo
delle ascelle). Inoltre penso che l’elemento –allo sia lo stesso del mutt-àll ‘imbuto’ (a San Salvo-Ch.) che fra poco citerò. Nello stesso
lat. i-ter ‘cammino, percorso, passaggio’ l’elemento -ter
non è un’inutile desinenza, ma contiene in sé lo stesso significato del primo
elemento i- ‘andare’. E mi fermo qui.
A
San Salvo-Ch. il nome dell’imbuto è mutt-àll[2]
(meglio scritto mutt-àllë, con vocale
indistinta finale); si direbbe una variante del più diffuso mutë,
mut-éllë, mmutt-ìjjë,
ecc. di cui ho parlato nell’articolo precedente Etimo di imbuto. Proprio la
sua particolarità mi ha fatto meditare sull’apparente suffisso diminutivo -éllë che
all’origine tale non era (lo avevo capito da molto tempo per altri casi) se è
vero che esso se la deve vedere, ad esempio, con il gr. mét-all-on ‘fossa, galleria,miniera, cava’, da
cui il nome di metallo. Met-all-éia ‘scavo, cunicolo,
galleria’ è un suo degno sosia. Questo significato di ‘cunicolo, budello
sotterraneo’ mi riporta dritto dritto al concetto di ‘cavità, imbuto’ di cui è
questione. Altre forme dialettali come im-mutta-turu, am-mutta-turo ‘imbuto’ sono
propaggini di queste voci e non vanno ricondotte a tardo lat. im-but-u(m),
come ho mostrato nell’articolo citato, né tanto meno all’it. botte che si fa risalire ad un latino
tardo butt-e(m)
‘vasetto’. Naturalmente esse si sono
incrociate con it. botte o il suo
sosia tardolatino, e sono munite del suffiso -tore che indica la persona o strumento che compie l’azione. Ma
anche qui state ben attenti! Il detto suffisso credo sia diventato tale solo successivamente perché il
suo simile -tura indica solo l’azione come in lat. arma-tur-a(m) ‘armatura’ e it. anda-tura. Il siciliano muta-tura vale ‘spinta’ e muta-turi o im-muta-turi vale ‘che o chi
spinge’. E così siamo tornati all’im-mutta-turu ‘imbuto’
sopra citato, il quale è uno strumento che tramuta
o spinge qualcosa spostandola dalla condizione in cui si trova e inducendola ad
altra condizione e situazione.
Un
capitolo a sé, anche se breve, va riservato ai vocaboli italiani im-botta-toio e im-botta-vino ‘grande imbuto per vino’, data l’importanza della
cosa. I vocabolari e gli etimologi,
nessuno escluso, sotto i rispettivi lemmi chiosano senza tentennamento alcuno
che si tratta di grosso imbuto per
travasare il vino nelle botti, come i vocaboli stessi del resto a chiare note
sembrano asserire. A nessuno è venuta in mente la riflessione che potrebbe
trattarsi di una radice che aveva la possibilità di indicare sia la botte sia altra cavità come quella dell’imbuto, allo stesso modo dei casi
precedenti. Ora, se è vero che la voce
tardolatina butt-e(m) ’vasetto’
sembra più adatta ad indicare una botticella che un imbuto, bisogna fare i
conti anche con un termine come lat. bot-ul-u(m) ‘salsiccia, budello’, con cui veniamo comodamente
reimmessi nella carreggiata che ci riporta dritti al concetto di “imbuto”.
Esiste anche un ingl. boot (fr. botte ‘stivale)’ che oltre a significare
generalmente ‘stivale’, una cavità, dunque, vale anche drain cock, cioè ‘rubinetto di spurgo, drenaggio’ per carro botte
ed altri mezzi, e siamo di nuovo quindi nella zona calda dei tubi, tubicini,
budelli. Basta riflettere, a mio parere,
su alcuni termini italiani come im-botta-mento per cominciare a
capire che la radice in questione poteva assumere significati particolari non
pienamente rispondenti a quello di botte.
Nel vocabolario di T. De Mauro il lemma imbottamento
presenta, oltre all’ovvio significato di
imbottatura (immissione di liquido in
una botte), anche quello idraulico di
sifonamento, cioè, in breve, di infiltrazione
di acqua alla base di un terrapieno o quello di incanalamento sotterraneo di
corsi d’acqua. L’idea di “infiltrazione” è vicina a quella di “imbuto” il quale
ha proprio la funzione di lasciar passare lentamente il liquido. Anche in
toponomastica si incontrano fossi con questo nome come Fosso della Botte nell’isola del Giglio e altrove: una radice così legata
al terreno non può essere nata come mera metafora di botte ma doveva significare direttamente, in lingue del passato, il
fosso, il canale, la valle che
designava. Ma si incontrano nelle campagne diverse Fonte Botte che naturalmente non traggono in ballo la botte ma semmai l'it. butto 'getto d'acqua, spruzzo'. La radice del verbo it. butt-are che viene solitamente ricondotta al fr. bout-er 'colpire, gettare, germinare' da un supposto francone *bot-an 'colpire', doveva essere invece molto più antica, a mio parere, se essa era così radicata nel territorio. Per questa strada, ora che ci penso, si può recuperare anche il
tardo lat. im-but-u(m) ‘imbuto’ che tuttavia non ha nulla da spartire col
verbo lat. imbu-ere ‘impregnare, imbevere’, di etimo ignoto e forse da suddividere in im-bu-ere. Si potrebbe trattare allora di variante della radice raddoppiat di lat. bi-b-ere 'bere' ben attestata in area indoeuropea. Comunque la differenza con la radice di mutu ‘imbuto’ resta
intatta. Ma non basta. La stessa storia
si ripete, senza che i linguisti se ne accorgano, per il fr. en-tonn-oir
‘imbuto’ che apparentemente, e con tutta evidenza, sembra avere il
significato di ‘(imbuto) per riempire la botte (tonn-eau)’, con il suffisso di nomen agentis –oir. Ma ahimè! occhio alla penna!
Anche in questo caso bisogna svegliare la linguistica dormiente. Si dà il caso che l’igl. tunn-el ‘galleria’ abbia la stessa radice di ingl. tun ‘barile, botte’ (fr. tonne ‘grossa botte’) e che abbia anche i
significati di ‘canna del camino (arcaico), condotto’, e ─indovinate un po’!
─ proprio di ‘imbuto’, anche se nei
dialetti[3].
Allora l’en-tonn-oir francese trova la sua identità non nella botte che pure riempie, ma nel suo
essere un cannello, un budello, e un versatore, non importa se della botte o di altri recipienti. Specializzandosi,
ha rinunciato alle sue molte possibilità iniziali e, amante della precisazione
a tutti i costi, ha finito col gettarsi in braccio alla sola botte, perdendo l’identità più generica
di imbuto. Ognuno ha i suoi gusti. L’altro
termine imbotta-vino ‘imbuto’ non è da meno, anzi ce la mette proprio tutta
per assestarci una botta mortale tra capo e collo, al fine di tramortirci ed
impedirci di ragionare, con quel –vino che
attesta il suo amore forsennato per esso, rifiutando ogni altro liquido. Ma tutta questa prosopopea si sgonfia non
appena si fa avanti la voce romagnola bin-el ‘imbuto’ che, col suo primo elemento, smonta tutta la
pagliacciata. A mio parere si tratta di radice da confrontare con ingl. bin ‘cassone, arca’, una cavità, dunque, e con fr. bin-et ‘bocciòlo per moccoli di candela’,
cioè un tubicino, un cannellino. Ben-accia nell’italiano arcaico indicava una grossa cesta con cui si portavano le uve nella tinaia. Bisogna citare anche l’it. benna, parola proveniente dai dialetti settentrionali col valore
di ‘cesta, corba, carretto’ e riferita a quella specie di contenitore apribile, situato
sull’estremità del braccio mobile di una scavatrice. E, buon ultimo, il lat. ven-a(m) 'vena, canaletto'.
Ma mi accorgo ora che non ho finito. Giulio Bertoni[1], nella sua ricerca sulle denominazioni dell’imbuto dell’Italia del nord, cita per ultimo, a p. 11, un vocabolo bolognese che suona salva-venna ‘imbuto’ il cui secondo elemento è quello testé analizzato. Il primo salva- è da confrontare col logudorese salv-ad-ello [2] ‘vena del dito mignolo’. Ma la cosa importante è che questo –venna ci fa capire che le forme bvinèl ‘imbuto’o buvinèl ‘imbuto’ (a Bologna) non possono risalire, come lui sostiene, al verbo bev-ere per il semplice motivo che è molto più probabile che esse abbiano inglobato al loro interno l’elemento –venna o una sua variante, e che quindi debbano intendersi come risultato di più elementi saldati insieme ed evidenziabili in questo modo b-vin-èl o bu-vin-èl : l’elemento interno -vin- è quello che corrisponde al precedente -venna e al primo elemento del romagnolo bin-èl ‘imbuto’.
Ma mi accorgo ora che non ho finito. Giulio Bertoni[1], nella sua ricerca sulle denominazioni dell’imbuto dell’Italia del nord, cita per ultimo, a p. 11, un vocabolo bolognese che suona salva-venna ‘imbuto’ il cui secondo elemento è quello testé analizzato. Il primo salva- è da confrontare col logudorese salv-ad-ello [2] ‘vena del dito mignolo’. Ma la cosa importante è che questo –venna ci fa capire che le forme bvinèl ‘imbuto’o buvinèl ‘imbuto’ (a Bologna) non possono risalire, come lui sostiene, al verbo bev-ere per il semplice motivo che è molto più probabile che esse abbiano inglobato al loro interno l’elemento –venna o una sua variante, e che quindi debbano intendersi come risultato di più elementi saldati insieme ed evidenziabili in questo modo b-vin-èl o bu-vin-èl : l’elemento interno -vin- è quello che corrisponde al precedente -venna e al primo elemento del romagnolo bin-èl ‘imbuto’.
Colpo
di coda! L’elemento bu- ci potrebbe riportare al tormentato tardolatino
im-but-u(m)
nel senso che la radice –but- sarebbe un suo ampliamento. L’idea di
“imbevere, impregnare, infiltrare”, infatti, è vicina a quelle di “penetrare, diffondersi e
scorrere”. Ma attenzione! Il sostantivo, benchè coincida formalmente col part. passato
del verbo lat. im-bu-ere ‘imbevere, ecc.’, non può essere all’origine del
sostantivo. Le voci marchigiane sarvaì, sarvai ‘imbuto’ credo presuppongano il primo elemento del bolognese salva-venna sopra analizzato. Amen!
[1] Cfr.
sito web: http://www.opal.unito.it/psixsite/Miscellanea%20di%20testi%20di%20genere%20diverso/Elenco%20opere/imgMiscD842.pdf
[2] Cfr.
l’articolo Origine di sardo thalàu/thàlau
[…]presente
nel mio blog (settembre 1911).
[1] Cfr. D.
Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo
Polla editore, Cerchio-Aq,2004.
[3] Cfr.
Vocabolario Merriam-Webster.
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