mercoledì 27 marzo 2019

Le "ferratelle"


                                                     
                                                 


Quanta storia raccontano alcuni termini! Uno fra i più interessanti è senz’altro la ferratella, nome che, come tutti sappiamo almeno in Abruzzo e Lazio, indica un dolce costituito da una sfoglia sottile di pasta opportunamente preparata con diversi ingredienti, cotta per compressione tra due piastre arroventate di un ferro che solitamente lasciano anche delle nervature in rilievo, tra loro intrecciate a formare una sorta di inferriata a disegno in genere romboidale.

  Che io sappia, tutti gli etimologi, da quelli improvvisati agli studiosi per mestiere o per passione, non mancano di chiosare che l’etimo della parola è di per sé evidente, data la sua derivazione dal quel tipo di ferro, appunto.  Secondo me, invece, essi sono completamente fuori strada; non solo, ma così facendo possono tarpare dfinitivamente le ali ad ogni tentativo, da parte di qualcuno, di trovare una strada diversa. Non parlo di me, che ormai sono abbastanza smaliziato su queste cose.

    In Wikipedia, l’enciclopedia online, si specifica anche che la ferratella, soprattutto nell’Abruzzo meridionale e nel Molise, è considerata un dolce tipico dei matrimoni. E sfido io! che pubblicai  già nell’aprile del  2016 un articolo[1] molto stimolante, La “fara” longobarda [], in cui parlavo anche dell’istituto matrimoniale romano della con-farre-atio, cerimonia nella quale gli sposi condividevano, mangiandola, una focaccia di farro (tipo di grano antichissimo e comune a Roma) offrendola anche a Iuppiter Farr-eus, espressione che potremmo tradurre per ora con Giove del farro, ma vedremo cosa si nasconde anche sotto questo appellativo.  Nell’articolo citato facevo vedere come uno dei significati di questa radice far/fer, prima dello strato linguistico latino,  fosse proprio quello di ‘unione, mescolanza, ecc.’ qui applicata naturalmente all’idea di “matrimonio”, uno stretto legame tra un uomo ed una donna sancito dalla legge. Ecco dunque il motivo per cui le ferrat-elle, anche oggi, alludono ad esso. E non in virtù dell’essere prodotte dal ferro, ma in quanto farr-ata ‘cibi di farro’, consumati nella con-farre-atio ‘cerimonia nuziale’. 

Nel Gargano, soprattutto a Manfredonia, si produce un altro dolce, un po’ diverso dal precedente, chiamato proprio farr-ata.  Questo è composto da due sfoglie rotondeggianti di cui una si riempie di farcitura di ricotta insieme ad un po’ di cannella, l’altra vi si mette sopra  a mo’ di coperchio avendo cura di premere e incollare insieme i bordi delle due sfoglie prima di infornare e cuocere. Questo tipo di dolce viene fatto risalire ai Romani che lo usavano nella confarreatio, come ho detto prima, a differenza della ferrat-ella, per quanto riguarda il nome, che invece ne condivide l’etimo, a mio avviso. Il particolare ferro con cui si formano, non schioda i linguisti dalla loro convinzione.

  In un sito web[2] si riporta un’usanza scomparsa da anni: al mattino, prima dello spuntar del sole, ragazzini infarinati percorrono le strade di Manfredonia cercando di vendere le farrate ancora calde al grido di farrète cavede uè… uè… chi vole i farrète farrate calde uè… uè, chi vuole le farrate?’ (mi sia perdonato qualche involontario errore). Sorge spontanea la domanda:” Perché questi ragazzi percorrono le strade prima dello spuntare del sole?”  Per il semplice motivo che il sole, in qualche lingua del remotissimo passato,  doveva essere indicato con quella radice /far/, come ho mostrato nell’articolo sopra citato, e come fa intuire l’appellativo di Iu-piter (Giove) Farr-eus, che doveva ripetere inizialmente  lo stesso significato di Iu- ‘luce del giorno’, prima di incrociarsi col lat. farr-eus ‘di farro’. Secondo me, come ho mostrato non ricordo in quale articolo, anche l’elemento – piter ‘padre’ doveva ripetere il significato di ‘luce,luminoso’. Sicchè vendere e comprare farrate  intorno allo spuntar del sole era di buon auspicio, data la consonanza semantica dei termini relativi, ma anche perchè si avvicinava l’ora della prima colazione. Ma questo adesso ci interessa poco.

    L’espressione italiana sul far del giorno ‘alle prime luci dell’alba’ potrebbe attestare qualche contatto con questa radice /far/ col significato di luce, fuoco L’altra espressione sul far della sera potrebbe alludere alla luce del crepuscolo. E’ comunque naturale che queste espressioni si siano poi incrociate col verbo farsi (non fare) che assume talora il significato di ‘divenire, diventare’. Sul far della notte sarebbe nata per analogia rispetto alle precedenti, quando quel far era diventato sinonimo di principio o variante di farsi. Quindi, se si vuole essere razionali fino in fondo, le espressioni italiane avrebbero dovuto suonare sul farsi del giorno, sul farsi della sera.

   Il nome farr-ata dové incrociarsi, oltre che con il ferro, anche con lat. for-u(m) ‘buco, cella delle api’, in conseguenza del suo disegno in superficie richiamante il favo delle api con le numerose celle esagonali. La farrata mi pare esente da questa caratteristica, ma in uno dei siti consultati per farrata[3], il dolce di Manfredonia, appare ben visibile sulla superficie di alcune di esse, un disegno risultante da diverse figure vagamente esagonali  e giustapposte come le celle di un favo: scherzi della cottura? Per chi non lo sapesse anche il wafer ’cialda,ostia’ inglese fa capo a waffle ‘stampo per cialde’ il quale, almeno all’origine, doveva imprimere un disegno uguale a quello di un favo. La parola ted. wabe ‘favo’ ne è la prova. C‘è anche il ted. Waffel ‘cialda, cialdone’. L’it. feritoia non trae l’etimo dal verbo ferire, come tutti sostengono, ma da una radice variante di quella di  foro ‘buco’, sia che si debba suddividere la parola in feri-toia o in ferit-oia.  Credo che anche lo spagn. barqu-illo ‘cialda’ avesse un rapporto con spagn. e it. barca, in quanto cavità, buco. Uno potrebbe legittimamente chiedersi perché questo ricorrere dell’idea di “cella, favo”. La risposta è che, secondo me, le api fin dagli Egizi erano considerate simbolo di divinità, sacralità, autorità, potenza. Abbiamo visto sopra che il farro ci ha condotti addirittura al Giove Farreo. Ma questo è un altro discorso che ci distrarrebbe dal nostro assunto.

    La ferratella aveva altri nomi come cancellata, naula, neola, nevula, nivola . Cancellata deve far riferimento al disegno impresso sul dolce a mo’ di in-ferri-ata (questo sarebbe, semmai, il valore iniziale (?) di ferr-at-ella: altro che il ferro che la produce!). Ora che ci penso il valore di in-ferriata dové svilupparsi molto per tempo nell’anticità e potrebbe essersi riferito addirittura al grande dio romano-italico Giano, il dio delle porte (lat. ianu-am ‘porta’), ingressi, e passaggi. Sappiamo che il suo tempio più antico a Roma costituiva una sorta di passaggio coperto, con due porte, una d’entrata e l’altra d’uscita. Il mese di Gennaio, come dice il nome stesso, era il suo mese, in quanto inizio dell’anno. Il primo giorno di ogni mese era a lui dedicato. Nel periodo dell’anno compreso tra dicembre e gennaio, ricorrevano un po’ dappertutto feste dedicate al Sole, e Ianus era stato, secondo alcuni, una divinità della luce. Era infatti invocato come Pater matutinus ‘padre dell’aurora’. In altro articolo anch’io ho mostrato come questa radice implicasse anche il concetto di ‘luce’. Nelle sue feste si mangiavano e regalavano naturalmente focacce.  Il ricorrere di questo concetto di “inferriata” o “cancellata” in queste denominazioni potrebbe essere una chiara allusione al grande padrone dei passaggi, Giano appunto.

   L’altra voce nàula (Castel del Monte-Aq), con le sue diverse varianti, a mio parere deve essere riallacciata al concetto di “nave”, una cavità, dunque, allo stesso modo di altre connesse col dolce di cui si parla, come visto sopra. Il termine rispunta addirittura nella Catalogna, nella forma di neula, un dolce natalizio composto di una sfoglia sottilissima, arrotolata, sì da formare una specie di cannoli, ma senza ripieno. L’idea di “buco, cavità” riappare anche qui, come del resto in alcune forme di ferratelle in Italia, accartocciate su sé stesse, con contenuti vari.   L’etimo che se ne dà, quello di ‘nuvola’, mi pare inadeguato. La voce nao, in molti dialetti dell’Italia del Nord, indica la nave, ma anche una serie di recipienti destinati a vario uso. Cfr. inoltre ingl. nave ‘navata’, ingl. nav-el ‘ombelico’, ted.Nab-el ‘ombelico’. C’è da far notare che in una delle  prime monete romane (un asse di bronzo) nel recto compariva la figura di Giano Bifronte, nel verso la prua di una nave da guerra. Giano ne era considerato l’inventore.

  A Trasacco-Aq e altrove la ferratella era chiamata anche cuperchiòla (inteso come coperchietto )in conseguenza –dice il Lucarelli[4]- del fatto che una di esse veniva spesso messa sopra l’altra con in mezzo uno strato di marmellata di frutta. Ma, se si vuole seguire fino in fondo il ragionamento, si dovrebbe desumere che solo una delle due avrebbe avuto il diritto di chiamarsi cuperchiòla, in quanto usata a mo’ di coperchio. Io sono del parere che anche qui c’entra l’etimologia popolare che spesso opera miracoli, trasformando una parola in un'altra anche solo vagamente simile. Ricordo il ted- Trampel-tier, letter. ‘animale (-tier) che pesta i piedi (trampel)’ dal lat. dromedari-u(m) di origine greca.  In questo caso la parola di partenza sarebbe il lat. cup(p)edi-a(m) ‘ghiottoneria, dolce’, in una forma diminutiva *cup(p)edi-ola che, divenuta semanticamente immotivata, offri tuttavia   al parlante comune la possibilità di essere trasformata in una comprensibilissima coperchi-ola, cuperchi-ola.  Un’altra prova che dà man forte alla mia supposizione (tanto più convincente perché ne sono venuto a conoscenza solo dopo aver scritto quanto sopra) è la presenza, nel dialetto trasaccano, proprio della voce chëpèta ‘dolce casalingo fatto di miele e noci tritate, che formano un croccante natalizio’. Chëpèta è dal latino sopra citato cup(p)edi-a(m) ‘ghiottoneria, dolce’, cela va sans dire, e non ha dato appigli al parlante, per una sua reinterpretazione. Nel vicino paese di Luco dei Marsi esiste la voce copèta[5]  che indica lo stesso impasto di miele e noci, utilizzato però per legare insieme due ferratelle. La voce copèta, con la sua funzione di ripieno per ferratelle, ci guida per mano verso l’etimo giusto di trasaccano cuperchiòla ‘ferratella’, che è quello che ho dato più sopra, cioè lat. *cup(p)edi-ol-a(m) ’dolcetto’.  Le parole colgono qualsiasi occasione per specializzarsi.  In abruzzese la voce ferratë[6]oltre che inferriata, significa  ‘quantità di  ostia che dà il ferro in una volta', perchè il termine è stato inteso come uno dei tanti sostantivi in -ata, suffisso aggiunto in questo caso ad un presunto verbo *ferr-are 'usare il ferro (delle ferratelle)'. Così va il mondo, Amen!
  
      Questa storia della  ferratella è semplicemente stupenda! e farebbe capire, senza eccessive difficoltà, anche  a generazioni di studenti come funziona la Lingua, nelle sue varie forme, in tutto il mondo.  Conoscenza culturale senza pari, che sarebbe degna almeno di un dibattito. 
    
  


[1] Cfr. il mio blog : pietromaccallini.blogspot.com.

[4] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà A-E, Grafiche Di Censso, Avezzano-Aq, 2002.

[5] Cfr. G. Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq, 2006.

[6] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo Polla editore, Cerchio-Aq, 2004.





                                                   
                                                   



Nessun commento:

Posta un commento