Quanta storia raccontano alcuni
termini! Uno fra i più interessanti è senz’altro la ferratella, nome che, come tutti sappiamo almeno in Abruzzo e
Lazio, indica un dolce costituito da una sfoglia sottile di pasta
opportunamente preparata con diversi ingredienti, cotta per compressione tra
due piastre arroventate di un ferro che solitamente lasciano anche delle nervature
in rilievo, tra loro intrecciate a formare una sorta di inferriata a disegno in
genere romboidale.
Che io sappia, tutti gli etimologi, da quelli improvvisati agli studiosi
per mestiere o per passione, non mancano di chiosare che l’etimo della parola è
di per sé evidente, data la sua derivazione dal quel tipo di ferro, appunto. Secondo me, invece, essi sono completamente
fuori strada; non solo, ma così facendo possono tarpare dfinitivamente le ali
ad ogni tentativo, da parte di qualcuno, di trovare una strada diversa. Non
parlo di me, che ormai sono abbastanza smaliziato su queste cose.
In Wikipedia, l’enciclopedia online, si specifica anche che la ferratella, soprattutto nell’Abruzzo
meridionale e nel Molise, è considerata un dolce tipico dei matrimoni. E sfido io! che pubblicai già nell’aprile del 2016 un articolo[1] molto
stimolante, La “fara” longobarda […], in cui parlavo anche dell’istituto matrimoniale romano della con-farre-atio,
cerimonia nella quale gli sposi condividevano, mangiandola, una focaccia di
farro (tipo di grano antichissimo e comune a Roma) offrendola anche a Iuppiter Farr-eus, espressione che potremmo tradurre per ora con Giove del farro, ma vedremo cosa si
nasconde anche sotto questo appellativo.
Nell’articolo citato facevo vedere come uno dei significati di questa
radice far/fer, prima dello strato linguistico latino, fosse proprio quello di
‘unione, mescolanza, ecc.’ qui applicata naturalmente all’idea di “matrimonio”,
uno stretto legame tra un uomo ed una
donna sancito dalla legge. Ecco dunque il motivo per cui le ferrat-elle, anche oggi,
alludono ad esso. E non in virtù dell’essere prodotte dal ferro, ma in quanto farr-ata ‘cibi di farro’, consumati nella con-farre-atio
‘cerimonia nuziale’.
Nel Gargano, soprattutto a
Manfredonia, si produce un altro dolce, un po’ diverso dal precedente, chiamato
proprio farr-ata. Questo è composto da due sfoglie
rotondeggianti di cui una si riempie di farcitura di ricotta insieme ad un po’
di cannella, l’altra vi si mette sopra a
mo’ di coperchio avendo cura di premere e incollare insieme i bordi delle due
sfoglie prima di infornare e cuocere. Questo tipo di dolce viene fatto risalire
ai Romani che lo usavano nella
confarreatio, come ho detto prima, a differenza della ferrat-ella, per quanto riguarda il nome, che
invece ne condivide l’etimo, a mio avviso. Il particolare ferro con cui si formano, non schioda i linguisti dalla loro
convinzione.
In un sito web[2] si riporta
un’usanza scomparsa da anni: al mattino, prima dello spuntar del sole, ragazzini
infarinati percorrono le strade di Manfredonia cercando di vendere le farrate ancora calde al grido di farrète cavede uè… uè… chi vole i farrète ‘farrate calde uè… uè, chi vuole le farrate?’ (mi sia perdonato qualche involontario errore). Sorge
spontanea la domanda:” Perché questi ragazzi percorrono le strade prima dello
spuntare del sole?” Per il semplice motivo che il sole, in qualche lingua del remotissimo
passato, doveva essere indicato con
quella radice /far/, come ho mostrato nell’articolo sopra citato, e come fa
intuire l’appellativo di Iu-piter (Giove) Farr-eus, che doveva ripetere inizialmente lo stesso significato di Iu- ‘luce del giorno’, prima di incrociarsi col lat. farr-eus ‘di farro’. Secondo me, come ho
mostrato non ricordo in quale articolo, anche l’elemento – piter ‘padre’ doveva ripetere il significato di ‘luce,luminoso’. Sicchè
vendere e comprare farrate intorno allo spuntar del sole era di buon
auspicio, data la consonanza semantica dei termini relativi, ma anche perchè si
avvicinava l’ora della prima colazione. Ma questo adesso ci interessa poco.
L’espressione italiana sul far del
giorno ‘alle prime luci dell’alba’ potrebbe attestare qualche contatto con
questa radice /far/ col significato di luce,
fuoco L’altra espressione sul far
della sera potrebbe alludere alla luce
del crepuscolo. E’ comunque naturale che queste espressioni si siano poi
incrociate col verbo farsi (non fare)
che assume talora il significato di ‘divenire, diventare’. Sul far della notte sarebbe nata per analogia rispetto alle precedenti,
quando quel far era diventato
sinonimo di principio o variante di farsi. Quindi, se si vuole essere
razionali fino in fondo, le espressioni italiane avrebbero dovuto suonare sul farsi
del giorno, sul farsi della sera.
Il nome farr-ata dové incrociarsi,
oltre che con il ferro, anche con
lat. for-u(m) ‘buco, cella delle api’, in
conseguenza del suo disegno in superficie richiamante il favo delle api con le numerose celle esagonali. La farrata mi pare esente da questa caratteristica,
ma in uno dei siti consultati per farrata[3],
il dolce di Manfredonia, appare ben visibile sulla superficie di alcune di
esse, un disegno risultante da diverse figure vagamente esagonali e giustapposte come le celle di un favo: scherzi
della cottura? Per chi non lo sapesse anche il wafer ’cialda,ostia’ inglese fa capo a waffle ‘stampo per cialde’ il quale, almeno all’origine, doveva
imprimere un disegno uguale a quello di un favo. La parola ted. wabe ‘favo’ ne è la prova. C‘è anche il
ted. Waffel ‘cialda, cialdone’. L’it.
feritoia non trae l’etimo dal verbo ferire, come tutti sostengono, ma da una
radice variante di quella di foro ‘buco’, sia che si debba suddividere
la parola in feri-toia o in ferit-oia. Credo che anche lo spagn. barqu-illo ‘cialda’ avesse un rapporto con
spagn. e it. barca, in quanto cavità,
buco. Uno potrebbe legittimamente
chiedersi perché questo ricorrere dell’idea di “cella, favo”. La risposta è
che, secondo me, le api fin dagli Egizi erano considerate simbolo di divinità,
sacralità, autorità, potenza. Abbiamo visto sopra che il farro ci ha condotti addirittura al Giove Farreo. Ma questo è un altro discorso che ci distrarrebbe dal
nostro assunto.
La ferratella aveva altri nomi
come cancellata, naula, neola, nevula,
nivola . Cancellata deve far riferimento
al disegno impresso sul dolce a mo’ di in-ferri-ata (questo sarebbe, semmai,
il valore iniziale (?) di ferr-at-ella: altro che il ferro che la produce!). Ora che ci penso il
valore di in-ferriata dové
svilupparsi molto per tempo nell’anticità e potrebbe essersi riferito
addirittura al grande dio romano-italico Giano,
il dio delle porte (lat. ianu-am ‘porta’), ingressi, e passaggi. Sappiamo che il suo tempio più
antico a Roma costituiva una sorta di passaggio coperto, con due porte, una
d’entrata e l’altra d’uscita. Il mese di Gennaio, come dice il nome stesso, era
il suo mese, in quanto inizio dell’anno. Il primo giorno di ogni mese era a lui
dedicato. Nel periodo dell’anno compreso tra dicembre e gennaio, ricorrevano un
po’ dappertutto feste dedicate al Sole, e Ianus era stato, secondo alcuni,
una divinità della luce. Era infatti invocato come Pater matutinus ‘padre dell’aurora’. In altro articolo anch’io ho
mostrato come questa radice implicasse anche il concetto di ‘luce’. Nelle sue
feste si mangiavano e regalavano naturalmente focacce. Il ricorrere di
questo concetto di “inferriata” o “cancellata” in queste denominazioni potrebbe
essere una chiara allusione al grande padrone
dei passaggi, Giano appunto.
L’altra voce nàula (Castel del
Monte-Aq), con le sue diverse varianti, a mio parere deve essere riallacciata
al concetto di “nave”, una cavità, dunque, allo stesso modo di altre connesse
col dolce di cui si parla, come visto sopra. Il termine rispunta addirittura
nella Catalogna, nella forma di neula,
un dolce natalizio composto di una sfoglia sottilissima, arrotolata, sì da
formare una specie di cannoli, ma senza
ripieno. L’idea di “buco, cavità” riappare anche qui, come del resto in alcune
forme di ferratelle in Italia, accartocciate
su sé stesse, con contenuti vari. L’etimo
che se ne dà, quello di ‘nuvola’, mi pare inadeguato. La voce nao,
in molti dialetti dell’Italia del Nord, indica la nave, ma anche una serie di recipienti destinati a vario uso. Cfr.
inoltre ingl. nave ‘navata’, ingl. nav-el ‘ombelico’, ted.Nab-el ‘ombelico’. C’è da far notare che in una delle prime monete romane (un asse di bronzo) nel
recto compariva la figura di Giano Bifronte, nel verso la prua di una nave da guerra. Giano ne era considerato
l’inventore.
A Trasacco-Aq e altrove la ferratella
era chiamata anche cuperchiòla (inteso
come coperchietto )in conseguenza
–dice il Lucarelli[4]-
del fatto che una di esse veniva spesso messa sopra l’altra con in mezzo uno
strato di marmellata di frutta. Ma, se si vuole seguire fino in fondo il
ragionamento, si dovrebbe desumere che solo una delle due avrebbe avuto il
diritto di chiamarsi cuperchiòla, in
quanto usata a mo’ di coperchio. Io
sono del parere che anche qui c’entra l’etimologia popolare che spesso opera
miracoli, trasformando una parola in un'altra anche solo vagamente simile.
Ricordo il ted- Trampel-tier, letter.
‘animale (-tier) che pesta i piedi (trampel)’ dal lat. dromedari-u(m) di origine greca. In questo caso la parola di partenza sarebbe
il lat. cup(p)edi-a(m) ‘ghiottoneria, dolce’, in una forma diminutiva *cup(p)edi-ola che, divenuta semanticamente
immotivata, offri tuttavia al parlante comune la possibilità di essere
trasformata in una comprensibilissima
coperchi-ola, cuperchi-ola. Un’altra prova che dà man forte alla mia
supposizione (tanto più convincente perché ne sono venuto a conoscenza solo dopo
aver scritto quanto sopra) è la presenza, nel dialetto trasaccano, proprio
della voce chëpèta ‘dolce
casalingo fatto di miele e noci tritate, che formano un croccante natalizio’. Chëpèta è dal
latino sopra citato cup(p)edi-a(m)
‘ghiottoneria, dolce’, cela va sans dire,
e non ha dato appigli al parlante, per una sua reinterpretazione. Nel vicino
paese di Luco dei Marsi esiste la voce copèta[5] che indica lo stesso impasto di miele e noci,
utilizzato però per legare insieme due ferratelle.
La voce copèta, con la sua funzione
di ripieno per ferratelle, ci guida
per mano verso l’etimo giusto di trasaccano
cuperchiòla ‘ferratella’, che è quello che ho dato più sopra, cioè lat. *cup(p)edi-ol-a(m) ’dolcetto’. Le parole colgono qualsiasi occasione per
specializzarsi. In abruzzese la voce ferratë[6], oltre che inferriata, significa ‘quantità di ostia che dà il ferro in
una volta', perchè il termine è stato inteso come uno dei tanti sostantivi in -ata, suffisso
aggiunto in questo caso ad un presunto verbo *ferr-are 'usare
il ferro (delle ferratelle)'. Così va il
mondo, Amen!
Questa storia della ferratella è semplicemente
stupenda! e farebbe capire, senza eccessive difficoltà, anche a generazioni di studenti come funziona la
Lingua, nelle sue varie forme, in tutto il mondo. Conoscenza culturale senza pari, che sarebbe
degna almeno di un dibattito.
[1] Cfr. il
mio blog : pietromaccallini.blogspot.com.
[2] Cfr.
sito web: http://www.dauniatur.it/wp/2012/02/21/la-farrata-rustico-sipontino-ultramillenario/
[3] Cfr.
sito web: https://www.google.com/url?sa=i&source=images&cd=&cad=rja&uact=8&ved=2ahUKEwjO2uyhmajhAhXBDOwKHTB0CFwQjRx6BAgBEAU&url=https%3A%2F%2Fwww.bigmountain.it%2Fla-farrata-di-carnevale-sapori-di-puglia%2F&psig=AOvVaw1bsz5Wu9s_X-kUo4J5MjdP&ust=1553977988715983
[4] Cfr. Q. Lucarelli,
Biabbà A-E, Grafiche Di Censso,
Avezzano-Aq, 2002.
[5] Cfr. G.
Proia, La parlata di Luco dei Marsi,
Grafiche Cellini, Avezzano-Aq, 2006.
[6] Cfr. D.
Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo
Polla editore, Cerchio-Aq, 2004.
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