lunedì 20 aprile 2020

La festa di San Zopito a Loreto Aprutino




   E’ una festa molto caratteristica e veramente singolare che si svolge nel paese di Loreto Aprutino in provincia  di Pescara, in onore di San Zopito, appunto. Lo strano nome del Santo sarebbe dovuto, secondo l’interpretazione di alcuni, al fatto che sulla lapide di un loculo delle catacombe di San Callisto, da dove le sue reliquie sarebbero arrivate a Loreto, si poteva leggere l’espressione latina Sopitus in Domine ‘Addormentato nel Signore’.   Pare che ci sia una data precisa di nascita, quella del 25 maggio 1711, quando le reliquie del martire sarebbero  state traslate nella chiesa di San Pietro Apostolo di Loreto, di cui si hanno notizie fin dal secolo XI d.C. La data di celebrazione della festa è quella del lunedì successivo alla domenica di Pentecoste. 

    Ora, viste le caratteristiche peculiari della manifestazione religiosa che andrò a descrivere (sia pure per sommi capi), a me sembra assolutamente impossibile che una festività che si presenta con tutti i crismi di una religiosità  primitiva legata all’agricoltura, possa essere nata improvvisamente e artificiosamente dopo la traslazione delle reliquie suddette.  Recentemente è comparsa un’altra interpretazione, in base alla quale un altro nome proveniente dalle catacombe sarebbe quello greco di Zpyr-os, nome che etimologicamente vale ‘che ravviva il fuoco’ e che figurativamente avrebbe potuto dare un possibile nome personale dal significato di ‘vivificatore’. 

   Riflettendo su queste circostanze,  mi è venuto in mente che tra la gente di Loreto e tra gli stessi ecclesiastici locali sia potuto nascere, ad un certo punto, il desiderio di trovare una degna giustificazione ufficiale alla loro festa e, soprattutto, al nome stranissimo del Santo.  In epoche passate il commercio delle reliquie dei Santi, vere o false che fossero, era molto attivo, e così bastò magari l’iniziativa di un parroco di allora per far venire da San Callisto le reliquie e il nome del martire per la loro festa che così, apparentemente, sarebbe iniziata con quell’anno.  Comunque, ferma restando la mia convinzione dell’origine primitiva della festa, sarebbe anche possibile chiarire la cosa se nell’anagrafe di Loreto o in qualche altro archivio, magari della parrocchia, si potessero reperire documenti anteriori al 1711, dove potrebbero comparire o meno nomi personali Zopito che attesterebbero quindi indirettamente lo svolgimento o meno della festa in quegli anni. Ma per quanto riguarda l’anagrafe comunale, potrebbe insorgere un’altra difficoltà, sebbene piuttosto rara, legata al fatto che i nomi da imporre ai neonati dovrebbero essere nomi già esistenti e riconosciuti, non solo nell’ambito del paese ma all’interno di una comunità più vasta.  Esistevano di queste norme in passato, oggi mi pare che si sia di manica più larga.  Allora poteva capitare che nomi Zopito esistessero già nella pratica locale, ma che la registrazione ufficiale avvenisse sotto altri nomi.  Ancora oggi conosco, infatti, ad Aielli diverse persone chiamate con un nome ma registrate all’anagrafe con un altro. 

   Ora trascrivo parte di quanto avevo affermato su questo Santo in altro articolo intitolato San Zopito, San Pietro, Giove ed altro del giugno 2009, presente nel mio blog: pietromaccallini.blogspot.com.

     Comincio con l’epiteto tany()-pteros ‘dalle lunghe ali’ dell’inno omerico a Selene. E’ altamente improbabile che un poeta greco, sia pure dell’età arcaica, abbia potuto inventare un attributo così strano per la luna, anche se vista nelle vesti di una divinità.

    Si deve ragionevolmente pensare che tany()-pteros ‘dalle lunghe ali’ sia il relitto di parola arcaica riferita alla luna, presente magari in qualche parlata locale, o piuttosto la sopravvivenza, nella tradizione poetica, di qualche raro epiteto lunare. Secondo il mio modo di vedere esso si spiega comunque benissimo se si mette in rapporto con nomi simili della tradizione mitica e del lessico greco della medesima area semantica. Fermo restando l’assunto, di cui sono convinto, che questi composti nascono sotto la spinta della ripetizione tautologica dello stesso concetto nelle due componenti, mi viene naturale collegare –pteros al termine celtico patera, fornitoci da Ausonio, che significa ‘sacerdote di Apollo’; alle tre patere d’oro situate dinanzi alla statua di Giunone nel tempio di Giove sul Campidoglio; a Saint Patr-ik che, nella leggenda, accende il fuoco pasquale qualche istante prima che i druidi accendano il loro fuoco pagano sulla collina di Tara; al colle di San Pietro, con relativa chiesa di San Pietro sorta come riadattamento di un precedente tempio pagano nell’area di Alba Fucens, dedicato, secondo una tradizione giunta fino a noi, agli dèi della luce diurna o solare, Giove[1] o Apollo; al monte San Pietro nel territorio di Aielli-Aq, con la chiesa medievale di San Pietro[2] quasi sulla sommità, i cui ruderi, noti come Casarilë Santë Petrë, sfidano ancora i secoli e forse sono l’ultimo indizio del culto, in quel sito, di una originaria e antichissima divinità della luce[1]; al concetto, in ultima analisi, di espansionediffusioneemanazione proprio della luce, ma anche delle acque, del vento, e di ogni cosa che possa essere collegata al movimento, e ben presente nell’etimo di –pteros che è lo stesso di lat. pet-ere ‘andare, assalire, chiedere’, greco -pt-omai ’cado’, greco pot-amόs ’fiume’, greco pét-omai ’io volo’: ecco perché tany()pteros è, in poesia, un normale esornativo per gli uccelli che sono naturalmente ‘veloci, volanti’ e ‘volatili’ piuttosto che, letteralmente, ‘dalle lunghe ali’ per cui il termine poteva inizialmente indicare anche gli uccelli tout court. Una volta viene usato addirittura per la mosca “schizzante” (Simonide, fr. 6).

      Un termine simile è  taný-dromos ‘veloce nella corsa’; anche όrnis ‘uccello’ sfrutta quasi certamente il concetto di ‘movimento’ (cfr. όrnymi ‘metto in moto, eccito, sollevo, ecc.’). Le chiese di San Pietro su menzionate ci ricollegano alla stupenda festa di San Zopίto che si svolge, in concomitanza con la Pentecoste, a Loreto Aprutino-Pe. Un bue bianco, caratteristicamente addobbato con uno specchio ovale in mezzo alla fronte (chiaro simbolo del disco del sole, a mio parere) e cavalcato da un angelo (un ragazzino biondo in tunica bianca con un fiore rosso tra le labbra e molti monili d’oro attorno al collo) munito di un parasole, entrava in passato nella chiesa di San Pietro (ora, ahimè, si ferma sul sagrato per divieto di qualche autorità religiosa timorosa che la cerimonia potesse tralignare nel paganesimo) e andava ad inginocchiarsi, come per mesi era stato addestrato a fare, dinanzi al busto ligneo di San Zopito. Il bue assisteva alla cerimonia e naturalmente defecava a suo piacimento: dal tipo e dalla quantità degli escrementi i contadini traevano auspici per il raccolto. Ora, senza soffermarmi su altri particolari interessanti, mi pare che non si possa negare la natura solare di questa antica divinità il cui strano nome, se rettamente inteso, ci porta dritto dritto a un equivalente del lat. Iu-piter, in cui la componente Iu- risulta da un precedente Dieu-, come tutti sanno. Solo che in questo caso il nesso Di- ha dato come esito un’affricata sonora, come è avvenuto normalmente all’interno o alla fine di tante altre parole, ma anche nel gr. Zéus 'Giove'. Che la componente –pito sia la continuazione di –piter mi pare confermato dal nome della chiesa di San Pietro, dove il bue entra (almeno fino a non molti anni fa) e dove si conserva il busto del Santo, nonché dall’imprecazione Dio prete![3] in uso in Romagna, in cui 'prete' è l’esito dell’originario piter, avendo subito la stessa metatesi della diffusa voce dialettale preta, dal lat. petra, e il normale passaggio della /i/ tonica breve in /e/, come in 'vetro', dal lat. vitrum. Ahimè! quella che all’origine era una innocua invocazione o esclamazione (o Giove! oppure per Giove!) ha subito un processo di degenerazione, destino impietoso di ogni terrena cosa, trasformandosi in una curiosa imprecazione! Ricordo anche che, dalle nostre parti, sentivo spesso in giro pronunciare la blanda imprecazione Dio frate!, specchio del greco Zeús phrátrios , cioè Zeus protettore delle fratrie o, latinamente, delle gentes. Ma il significato originario di phrátrios doveva essere, secondo me, lo stesso di Zeus (splendore), più vicino al ted. brodel-n ’bollire’ o ted. braten ’arrostire’ o ingl. to burn ‘ardere’ che alla nozione di ‘fratello’. Tra le mandrie di buoi sacri al Sole è famosa quella violata dai compagni di Ulisse arrivati in Trinacria. I Dios-curi, figli di Giove e di Leda, ai quali veniva attribuito anche il fuoco di Sant’Elmo, nell’inno omerico loro dedicato, accorrono ksouthêisi pter-ýg-essi ‘ con le ali veloci’ alle invocazioni dei marinai in difficoltà nel mare agitato. E ugualmente non può meravigliare il fatto che i due gemelli, alle loro apparizioni, siano seguiti da uno stormo di rondini se è vero che ksouthos equivale a “rondine”[4].

    Anche in questo caso io penserei che le ali loro attribuite siano dovute al gioco delle assonanze come dimostra anche il relativo aggettivo ksouthόs dai significati molteplici di 'giallo-oro, fulvo, chiaro, sonoro, acuto, agile, veloce', tutti riconducibili, secondo me, all’idea basilare di movimento,vivacità. Nel mito poi, Ksouthόs, marito di Creusa, svolge il ruolo di padre putativo di Ione, figlio che Creusa aveva avuto da Apollo. Si è quindi sempre nell’ambito di termini, a mio avviso, collegabili con la luminosità del dio del sole. Nello Ione di Euripide c’è un passo in cui Ione, custode del tempio di Apollo a Delfi, descrivendo il suo duro, anche se gradito, lavoro di uomo delle pulizie, afferma che tutti i giorni deve svolgere il suo servizio hám’ halίou / ptér-ygi thoâi (letteral. ‘ con del sole l’ala veloce’, cioè ‘ col primo sorgere del sole’, vv. 122-23). Credo che anche quest’espressione vada inserita nel contesto di una tradizione poetica o mitica antichissima all’origine della quale il valore di ptér-yx (ala) doveva essere semplicemente quello di 'luce'. La componente tany()- corrisponde pari pari al greco Tán ( ma anche alle varianti DánZánZén,ecc.), forma dialettale di gr. Zeús (da *Di-eus: cfr. lat. di-es 'giorno', lat. Iu-piter inteso normalmente come Giove padre in cui però a mio parere -piter, insieme a pater, è qui variante di -pter-os; lat. Iov-emì 'Giove'). 

    C’è da fare ancora qualche osservazione sulla festa di San Zopito. Naturalmente non sarà sfuggita l’insistenza sulla idea di “luce, chiarore, bianchezza “  ricorrente a più riprese: il bue bianco, il ragazzino dai capelli biondi, il parasole bianco, i monili d’oro ornamentali, il busto argenteo di San Zopito. E’ un’orgia di luce e oggetti chiari, luminosi che sembra sottolineare la natura della divinità che si va celebrando.  Quanto al parasole è a mio avviso molto pertinente ricordare feste ateniesi che si celebravano ad Atene, in onore della di Atena Poliade (figlia di Zeus), protettrice della città, feste in cui un parasole bianco (come quello portato dal ragazzino sul bue nella festa di San Zopito) era portato alla dea del Partenone dalle sue sacerdotesse. La parola greca è skír-on ‘parasole’ e ha probabilmente la stessa radice di gr. skiá ‘ombra’, ted. Schirm ‘schermo, ombrello’.  Il parasole era portato anche ad Elio, dio del sole, e Posidone, dio del mare.  Ma poteva esserci stato l’incrocio del termine con radici come quella dell’ingl. sheer ‘puro, schietto’, arcaico ‘brillante’. Ci sarebbero altre osservazioni da fare relativamente alla festa di San Zopito, ma mi fermo qui  e ripeto che una festa con queste caratteristiche non può in alcun modo nascere improvvisamente nel 1711, in virtù della presunta o vera traslazione a Loreto Aprutino di spoglie di un martire sottratte alle catacombe di  San Callisto, Roma.
   Dimenticavo un’altra osservazione abbastanza importante: il nome stesso dell’antico paese di Loreto, contiene la radice di lat. laur-um ‘alloro’, pianta sacra ad Apollo, divinità del sole.
  
 
[1] Cfr. Luigi Mammarella, Alba Fucens, Adelmo Polla editore, Cerchio-Aq, 1987, p. 73. 

[2] Cfr.Andrea  Di  Pietro, Agglomerazioni delle popolazioni attuali della diocesi dei Marsi, Avezzano-Aq, 1869, p.146.

[3] Cfr. Aurelio Nardelli, Il secolo XX (breve?-lungo?), E. D. C. Editrice, Avezzano, 2005, p.225. 

[4] Cfr. Robert Graves, I Miti Greci, Edizione CDE spa, su licenza della Longanesi & C., Milano, 1985, p.144 n. 1, p.227 n.6. 




[1] Il  maschile casarìlë non esiste come nome comune nel nostro dialetto di Aielli-Aq  in cui mi pare che non esistano nemmeno altri diminutivi terminanti in – arilë., anche se il vocabolo viene  associato vagamente all’idea di  ‘casa, casale, ecc.’. Il diminutivo di casa, suona da noi cas-arèlla, casétta, nomi femminili.   Suppongo che cas-arìlë  debba avere a che fare con monte Cassino (.lat.  Cas-inum) c on la celebre abbazia edificata su pecedente sito sacro ad Apollo; con Zèús Kásios (del monte Casio); col vocabolo cassia (lat. casi-am) identificabile con la canella alba  con la corteccia bianca.  Infine propongo la parola ebraica ari-el (focolare di Dio) con cui veniva indicata a volte Gerusalemme. Dio aveva sul Sion il suo focolare: le cime dei colli e dei monti erano sedi preferite da queste divinità e da Giove.  Ma la seconda componente –arìlë potrebbe essere quella di un precedente cas-aurile  e richiamare il personale lat. Aur-eli-u(m) ‘Aurelio’  che si deriva da una radice italica (cfr.sabino aus-el ‘sole’) in rapporto con l’etrusco Usil ’dio del sole’.  

Nessun commento:

Posta un commento