E’ una festa molto caratteristica e veramente singolare che si svolge nel paese di
Loreto Aprutino in provincia di Pescara,
in onore di San Zopito, appunto. Lo strano nome del Santo sarebbe dovuto,
secondo l’interpretazione di alcuni, al fatto che sulla lapide di un loculo
delle catacombe di San Callisto, da dove le sue reliquie sarebbero arrivate a
Loreto, si poteva leggere l’espressione latina Sopitus in Domine
‘Addormentato nel Signore’. Pare che ci
sia una data precisa di nascita, quella del 25 maggio 1711, quando le reliquie del
martire sarebbero state traslate nella chiesa
di San Pietro Apostolo di Loreto, di cui si hanno notizie fin dal secolo XI d.C. La data di celebrazione della festa è quella
del lunedì successivo alla domenica di Pentecoste.
Ora, viste le caratteristiche peculiari della manifestazione religiosa che
andrò a descrivere (sia pure per sommi capi), a me sembra assolutamente
impossibile che una festività che si presenta con tutti i crismi di una religiosità
primitiva legata all’agricoltura, possa
essere nata improvvisamente e artificiosamente dopo la traslazione delle reliquie suddette. Recentemente è comparsa un’altra
interpretazione, in base alla quale un altro nome proveniente dalle catacombe
sarebbe quello greco di Zṓpyr-os, nome che etimologicamente vale ‘che ravviva il
fuoco’ e che figurativamente avrebbe potuto dare un possibile nome personale
dal significato di ‘vivificatore’.
Riflettendo su queste circostanze, mi è venuto in mente che tra la gente di
Loreto e tra gli stessi ecclesiastici locali sia potuto nascere, ad un certo
punto, il desiderio di trovare una degna giustificazione ufficiale alla loro
festa e, soprattutto, al nome stranissimo del Santo. In epoche passate il commercio delle reliquie
dei Santi, vere o false che fossero, era molto attivo, e così bastò magari
l’iniziativa di un parroco di allora per far venire da San Callisto le reliquie
e il nome del martire per la loro festa che così, apparentemente, sarebbe
iniziata con quell’anno. Comunque, ferma
restando la mia convinzione dell’origine primitiva della festa, sarebbe anche possibile
chiarire la cosa se nell’anagrafe di Loreto o in qualche altro archivio, magari
della parrocchia, si potessero reperire documenti anteriori al 1711, dove
potrebbero comparire o meno nomi personali Zopito che attesterebbero quindi indirettamente
lo svolgimento o meno della festa in quegli anni. Ma per quanto riguarda
l’anagrafe comunale, potrebbe insorgere un’altra difficoltà, sebbene piuttosto
rara, legata al fatto che i nomi da imporre ai neonati dovrebbero essere nomi
già esistenti e riconosciuti, non solo nell’ambito del paese ma all’interno di
una comunità più vasta. Esistevano di
queste norme in passato, oggi mi pare che si sia di manica più larga. Allora poteva capitare che nomi Zopito esistessero già nella pratica
locale, ma che la registrazione ufficiale avvenisse sotto altri nomi. Ancora oggi conosco, infatti, ad Aielli
diverse persone chiamate con un nome ma registrate all’anagrafe con un
altro.
Ora trascrivo parte di quanto avevo affermato su questo Santo in altro
articolo intitolato San Zopito, San
Pietro, Giove ed altro del giugno 2009, presente nel mio blog:
pietromaccallini.blogspot.com.
Comincio con l’epiteto tany(sί)-pteros ‘dalle
lunghe ali’ dell’inno omerico a Selene. E’ altamente improbabile che un poeta
greco, sia pure dell’età arcaica, abbia potuto inventare un attributo così
strano per la luna, anche se vista nelle vesti di una divinità.
Si deve ragionevolmente pensare che tany(sί)-pteros ‘dalle lunghe ali’ sia
il relitto di parola arcaica riferita alla luna, presente magari in qualche
parlata locale, o piuttosto la sopravvivenza, nella tradizione poetica, di
qualche raro epiteto lunare. Secondo il mio modo di vedere esso si spiega
comunque benissimo se si mette in rapporto con nomi simili della tradizione
mitica e del lessico greco della medesima area semantica. Fermo restando l’assunto,
di cui sono convinto, che questi composti nascono sotto la spinta della
ripetizione tautologica dello stesso concetto nelle due componenti, mi viene
naturale collegare –pteros al
termine celtico patera, fornitoci
da Ausonio, che significa ‘sacerdote di Apollo’; alle tre patere d’oro situate dinanzi
alla statua di Giunone nel tempio di Giove sul Campidoglio; a Saint Patr-ik che,
nella leggenda, accende il fuoco pasquale qualche istante prima che i druidi
accendano il loro fuoco pagano
sulla collina di Tara; al colle di San Pietro, con relativa chiesa di San
Pietro sorta come riadattamento di un precedente tempio pagano nell’area di
Alba Fucens, dedicato, secondo una tradizione giunta fino a noi, agli dèi della
luce diurna o solare, Giove[1] o Apollo; al monte San Pietro nel territorio di
Aielli-Aq, con la chiesa medievale di San Pietro[2] quasi sulla sommità, i cui ruderi,
noti come Casarilë Santë Petrë, sfidano ancora i secoli e
forse sono l’ultimo indizio del culto, in quel sito, di una originaria e
antichissima divinità della luce[1];
al concetto, in ultima analisi, di espansione, diffusione, emanazione proprio della luce,
ma anche delle acque, del vento, e di ogni cosa che possa essere collegata al
movimento, e ben presente nell’etimo di –pteros che è
lo stesso di lat. pet-ere ‘andare, assalire,
chiedere’, greco pί-pt-omai ’cado’,
greco pot-amόs ’fiume’,
greco pét-omai ’io
volo’: ecco perché tany(sί)pteros è,
in poesia, un normale esornativo per gli uccelli che sono naturalmente ‘veloci,
volanti’ e ‘volatili’ piuttosto che, letteralmente, ‘dalle lunghe ali’ per cui
il termine poteva inizialmente indicare anche gli uccelli tout court. Una volta viene usato
addirittura per la mosca “schizzante” (Simonide, fr. 6).
Un
termine simile è taný-dromos ‘veloce nella corsa’;
anche όrnis ‘uccello’ sfrutta quasi certamente
il concetto di ‘movimento’ (cfr. όrnymi ‘metto
in moto, eccito, sollevo, ecc.’). Le chiese di San Pietro su menzionate ci
ricollegano alla stupenda festa di San Zopίto che si svolge, in
concomitanza con la Pentecoste, a Loreto Aprutino-Pe. Un bue bianco, caratteristicamente addobbato
con uno specchio ovale in mezzo alla
fronte (chiaro simbolo del disco del sole, a mio parere) e cavalcato da un
angelo (un ragazzino biondo in tunica
bianca con un fiore rosso tra le labbra e molti monili d’oro attorno al collo) munito di un parasole, entrava in passato nella
chiesa di San Pietro (ora, ahimè, si ferma sul sagrato per divieto di qualche
autorità religiosa timorosa che la cerimonia potesse tralignare nel paganesimo)
e andava ad inginocchiarsi, come per mesi era stato addestrato a fare, dinanzi
al busto ligneo di San Zopito. Il bue
assisteva alla cerimonia e naturalmente defecava a suo piacimento: dal tipo e
dalla quantità degli escrementi i contadini traevano auspici per il raccolto. Ora,
senza soffermarmi su altri particolari interessanti, mi pare che non si possa
negare la natura solare di questa
antica divinità il cui strano nome, se rettamente inteso, ci porta dritto
dritto a un equivalente del lat. Iu-piter, in cui la componente Iu- risulta da un precedente Dieu-, come tutti sanno. Solo che
in questo caso il nesso Di- ha dato come
esito un’affricata sonora, come è avvenuto normalmente all’interno o alla fine
di tante altre parole, ma anche nel gr. Zéus 'Giove'.
Che la componente –pito sia la
continuazione di –piter mi pare confermato dal
nome della chiesa di San Pietro, dove il bue entra (almeno fino a non molti
anni fa) e dove si conserva il busto del Santo, nonché dall’imprecazione Dio prete![3] in uso in Romagna, in cui 'prete' è
l’esito dell’originario piter, avendo
subito la stessa metatesi della diffusa voce dialettale preta, dal lat. petra, e il normale passaggio della
/i/ tonica breve in /e/, come in 'vetro', dal lat. vitrum. Ahimè! quella che
all’origine era una innocua invocazione o esclamazione (o Giove! oppure per
Giove!) ha subito un processo di degenerazione, destino impietoso di ogni
terrena cosa, trasformandosi in una curiosa imprecazione! Ricordo anche che,
dalle nostre parti, sentivo spesso in giro pronunciare la blanda
imprecazione Dio frate!, specchio del
greco Zeús phrátrios , cioè Zeus
protettore delle fratrie o,
latinamente, delle gentes. Ma il
significato originario di phrátrios doveva
essere, secondo me, lo stesso di Zeus (splendore), più vicino al ted. brodel-n ’bollire’ o
ted. braten ’arrostire’ o
ingl. to burn ‘ardere’
che alla nozione di ‘fratello’. Tra le mandrie di buoi sacri al Sole è famosa
quella violata dai compagni di Ulisse arrivati in Trinacria. I Dios-curi,
figli di Giove e di Leda, ai quali veniva attribuito anche il fuoco di
Sant’Elmo, nell’inno omerico loro dedicato, accorrono ksouthêisi pter-ýg-essi ‘ con le ali veloci’ alle
invocazioni dei marinai in difficoltà nel mare agitato. E ugualmente non può
meravigliare il fatto che i due gemelli, alle loro apparizioni, siano seguiti
da uno stormo di rondini se è vero che ksouthos equivale
a “rondine”[4].
Anche in questo caso io penserei che le ali
loro attribuite siano dovute al gioco delle assonanze come dimostra anche il
relativo aggettivo ksouthόs dai
significati molteplici di 'giallo-oro, fulvo, chiaro, sonoro, acuto, agile,
veloce', tutti riconducibili, secondo me, all’idea basilare di
movimento,vivacità. Nel mito poi, Ksouthόs, marito
di Creusa, svolge il ruolo di padre putativo di Ione, figlio che Creusa aveva avuto
da Apollo. Si è quindi sempre nell’ambito di termini, a mio avviso, collegabili
con la luminosità del dio del sole. Nello Ione di Euripide c’è un passo in cui
Ione, custode del tempio di Apollo a Delfi, descrivendo il suo duro, anche se
gradito, lavoro di uomo delle pulizie, afferma che tutti i giorni deve svolgere
il suo servizio hám’ halίou / ptér-ygi thoâi (letteral. ‘ con del
sole l’ala veloce’, cioè ‘ col primo sorgere del sole’, vv. 122-23). Credo che
anche quest’espressione vada inserita nel contesto di una tradizione poetica o
mitica antichissima all’origine della quale il valore di ptér-yx (ala)
doveva essere semplicemente quello di 'luce'. La componente tany(sί)-
corrisponde pari pari al greco Tán ( ma
anche alle varianti Dán, Zán, Zén,ecc.), forma dialettale di gr. Zeús
(da *Di-eus: cfr. lat. di-es
'giorno', lat. Iu-piter —inteso
normalmente come Giove padre—
in cui però a mio parere -piter, insieme
a pater, è qui variante di -pter-os; lat. Iov-emì 'Giove').
C’è da fare ancora qualche osservazione
sulla festa di San Zopito. Naturalmente non sarà sfuggita l’insistenza sulla
idea di “luce, chiarore, bianchezza “ ricorrente
a più riprese: il bue bianco, il
ragazzino dai capelli biondi, il
parasole bianco, i monili d’oro ornamentali, il busto argenteo di San Zopito. E’ un’orgia di
luce e oggetti chiari, luminosi che sembra sottolineare la natura della divinità che si va
celebrando. Quanto al parasole è a mio avviso molto
pertinente ricordare feste ateniesi che si celebravano ad Atene, in onore della
di Atena Poliade (figlia di Zeus), protettrice della città, feste in cui un parasole bianco (come quello portato dal
ragazzino sul bue nella festa di San
Zopito) era portato alla dea del Partenone dalle sue sacerdotesse. La
parola greca è skír-on ‘parasole’ e ha probabilmente la stessa
radice di gr. skiá
‘ombra’, ted. Schirm
‘schermo, ombrello’. Il parasole era
portato anche ad Elio, dio del sole, e Posidone,
dio del mare. Ma poteva esserci stato
l’incrocio del termine con radici come quella dell’ingl. sheer ‘puro, schietto’, arcaico ‘brillante’. Ci sarebbero altre
osservazioni da fare relativamente alla festa di San Zopito, ma mi fermo qui
e ripeto che una festa con queste caratteristiche non può in alcun modo
nascere improvvisamente nel 1711, in virtù della presunta o vera traslazione a
Loreto Aprutino di spoglie di un martire sottratte alle catacombe di San Callisto, Roma.
Dimenticavo un’altra osservazione abbastanza importante: il nome stesso dell’antico paese di Loreto, contiene la radice di lat. laur-um ‘alloro’, pianta sacra ad Apollo, divinità del sole.
Dimenticavo un’altra osservazione abbastanza importante: il nome stesso dell’antico paese di Loreto, contiene la radice di lat. laur-um ‘alloro’, pianta sacra ad Apollo, divinità del sole.
[2] Cfr.Andrea Di
Pietro, Agglomerazioni delle
popolazioni attuali della diocesi dei Marsi, Avezzano-Aq, 1869, p.146.
[3] Cfr.
Aurelio Nardelli, Il secolo XX (breve?-lungo?),
E. D. C. Editrice, Avezzano, 2005, p.225.
[4] Cfr.
Robert Graves, I Miti Greci, Edizione
CDE spa, su licenza della Longanesi & C., Milano, 1985, p.144 n. 1, p.227
n.6.
[1]
Il maschile casarìlë non esiste come nome comune nel
nostro dialetto di Aielli-Aq in cui mi
pare che non esistano nemmeno altri diminutivi terminanti in – arilë., anche se il vocabolo viene associato vagamente all’idea di ‘casa, casale, ecc.’. Il diminutivo di casa,
suona da noi cas-arèlla, casétta, nomi femminili. Suppongo che cas-arìlë debba avere a che
fare con monte Cassino (.lat. Cas-inum) c on la celebre abbazia edificata
su pecedente sito sacro ad Apollo; con Zèús
Kásios (del monte Casio); col vocabolo
cassia (lat. casi-am)
identificabile con la canella alba con la corteccia bianca. Infine propongo la parola ebraica ari-el (focolare di Dio) con cui veniva
indicata a volte Gerusalemme. Dio aveva sul Sion il suo focolare: le cime dei
colli e dei monti erano sedi preferite da queste divinità e da Giove. Ma la seconda componente –arìlë potrebbe essere quella di un
precedente cas-aurile e richiamare il personale lat. Aur-eli-u(m) ‘Aurelio’ che si deriva da una radice italica
(cfr.sabino aus-el ‘sole’) in
rapporto con l’etrusco Usil ’dio del
sole’.
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