A Trasacco-Aq, nella Marsica, l’espressione tautologica licchë licchë significa ‘fino fino, sottile
sottile, striminzito’, probabilmente riferito a cose e persone. In abruzzese[1]essa
vale ugualmente ‘magro, magro stecchito’.
Lì per lì il ricercatore si trova spaesato, giacché raramente si conosce
l’aggettivo latino lign-eu(m) ‘legnoso’ ma, detto di persona,
‘secco, scarno’ da lat. lign-u(m) ‘legno, albero, marza, bastone’. Penso, perciò, che il valore di ‘secco’ possa
essere derivato da un precedente valore di ‘stecco, stecca’ (questi ultimi da
voci chiaramente germaniche: ted. Stecken ‘bastone, bacchetta’, ingl. stick
’bastone, stecchino’) da cui è facile derivare quello di ‘magro stecchito’. Difatti ad Avezzano-Aq[2]
si incontra l’espressione licche e
palicche ‘senza mezzi di fortuna o di sostentamento’. Ora, la voce palicchë è anche del vocabolario
abruzzese[3]
e significa proprio ‘stecchino, stecchino da denti’, ma, nell’espressione polirematica fa’ palicchë, vale ‘non
avere da mangiare, digiunare’. La voce pal-ìcchë deve essere parente del lat. pal-u(m) ‘palo, chiodo’ insieme al serbo-croato palica ‘bastone, bacchetta’.
Da
notare che la voce abruzzese licchë ‘secco, scarno’ se viene da
lat. lign-eu(m) ‘legnoso, secco, scarno’(con
perdita della nasale-n-) ha mantenuto
il suono velare della –g- nel gruppo –gn-, cosa che non poteva accadere nell’avezzanese lignìne[4] ‘secco,
asciutto’ (riferito a persona con poco appetito) il quale ha seguito il destino
della palatalizzazione, in italiano, del gruppo –gn- latino. Quindi la voce dialettale deve essere pervenuta dalle nostre parti molto per tempo,
a meno che essa non fosse già, per così dire, stanziale da noi dall’epoca
preistorica o protostorica, come sono propenso a credere.
A
Rocca di Botte-Aq[5]
l’espressione licchelàcche significa ‘né sazio né digiuno’. Essa, caso strano, si ritrova anche nel
dialetto genovese, come ho potuto vedere in internet, col significato di
qualcosa che è al di sotto della sufficienza, di non pienamente
soddisfacente. Mi pare, in questi casi,
che abbiamo a che fare col solito licchë ‘scarno’ e quindi ‘scarso’,
seguito da una variante lacche da chiarire. Esiste in abruzzese anche una forma simile, e
cioè linghë
langhë ‘lemme lemme, mogio mogio’, significato che, di primo acchito,
sembra però un po’ diverso dall’altro, ma vedremo che non lo è. Infatti si deve pensare che langhë abbia
la stessa radice di lat. langu-ēre ‘essere languido, abbattuto, stanco, debole,
malato’: allora, chi potrebbe essere più debole, moscio e privo di energia di colui che mangia in
modo insufficiente, scarso come chi è, per l’appunto, licchë
licchë ‘scarno’? Quindi ci sarà
senz’altro stato un incrocio tra licchë
lacchë ‘che ha mangiato scarsamente’ e questo linghë langhë ‘mogio , mogio, lentamente’. Pertanto
non può essere escluso del tutto che il lat. lign-eu(m) sopra nominato, rietimologizzasse, nel significato di
‘secco,scarno’ una precedente parola con tema ling-. La radice lang- (con la variante lak-, priva di nasale) in questo
significato è ben attestata nei dialetti come nell’aiellese al-lanc-àssë
‘stancarsi, sfinirsi’, aiellese al-lacc-an-ìtë ‘languido (per fame,
sete)’, nel trasaccano allaccanìtë che viene usato anche
per indicare una persona, magra, debole per scarsità di cibo.
Interessanti sono i verbi del dialetto avezzanese al-lang-àsse,
verbo al-lang-an-ìsse, col part. passato e aggettivo al-lang-an-ìte
‘essere debole per denutrizione’ ma
anche con l’interessante significato di ‘essere in spasmodica attesa di evento,
persona, cibo’ che mi fa avvicinare il verbo, come mi pare di ricordare di aver
detto in altro articolo, all’ingl. to long for ‘desiderare ardentemente,
avere una gran voglia di’, radice presente anche nel ted. Ver-lang-en ‘desiderio
vivo, brama, pretesa’. Ad Avezzano c’è
anche la forma metatetica palatalizzata al-lagn-àsse ‘ soffrire per penuria
d’acqua (detto delle piante delle patate, dei fagioli e barbabietole che perciò
presentano foglie ingiallite e rachitiche)’. La radice è presente anche nel lat.
lachan-iss-are o lachan-iz-are ‘essere languido’. Il ted. link ‘sinistro’ doveva indicare la
mano “languida”, cioè quella più debole, imperfetta, manchevole, come la nostra
mano manca. Anche l’aggettivo ted. link-isch significa ‘goffo, impacciato,
senza garbo’ riconfermando il valore di ‘difettoso, manchevole’ della radice. Altro
significato di link è ‘rovescio (di un indumento)’ cioè, a mio parere, la
parte imperfetta, meno curata dal punto di vista della
presentabilità.
Ritornando al licchë nel
significato di ‘pallino, boccino’ di cui ho parlato ultimamente nell’articolo Eracle e Ligi, re dei liguri presente
nel mio blog (pietromaccallini.blogspot.com, del 10 giugno 2020) è curiosa ed
interessante la serie di nomi con cui il pallino viene indicato nel dialetto di
Trasacco-Aq e coè licchë, lixë, bëccìnë, pallìnë, mùsquië, murquië . Noi ad Aielli ci
accontentiamo solo di pallìnë e licchë. Ora, pallìnë
e bëccìnë (boccino) sono di per
sé evidenti; lixë, sarà ampliamento
in sibilante di licchë, fatto che ho
riscontrato anche in altro vocabolo marsicano, e cioè bucchë
‘sacchettino di biada legato al muso del cavallo o altro animale’ che in quel
di Gioia del Marsi è chiamato appunto buxë’. Resta lo strano mùsquië o mùrquië.
Ora, nel libro del Bielli citato, è registrata
la voce muscul-όnë o muschël-όnë di cui è data questa spiegazione:
“coccarola[6],
che si pianta nella parte superiore del fuso e termina con un gancetto per
rattenervi il filo”; questo musc-ul-όnë ‘coccarola’ rispunta in
diversi dialetti: calabrese, salentino, siciliano, dove indica in genere un fusaiolo, in particolare quella a forma
di piccolo boccino o semi-boccino,
con un foro nel mezzo che veniva inserita sulla punta superiore dell’asta del
fuso, munita appunto di un gancetto per trattenere il filo che si stava
torcendo. La parola è senz’altro
antichissima, forse preistorica, visto che si ritrova anche nel sardo
logudorese muskula[7] ad indicare quel tipo di fusaiolo. L’etimo che gli studiosi ne danno oscilla tra lat. musc-a(m), per la velocità con cui gira il fuso, e Il lat. musc-ul-u(m) ‘topolino, muscolo’ rifiutato, quest’ultimo perché,
pensate un po’, il femminile muskula ’fusaiolo’
lo escluderebbe (chiaramente essi non potevano essere illuminati dal trasaccano
maschile musquië ‘pallino’, non
conoscendolo). Secondo me esso è lo stesso di trasaccano muschië
‘pallino (al gioco delle bocce)’ evidentemente
apparentato, almeno formalmente, col lat. musc-ul-u(m) ‘muscolo’ mediante la palatalizzazione della –l-.
Un altro problema: in sardo era chiamata muskula anche una scanalatura sulla musckula stessa, dove alloggiava il filo che man mano veniva
avvolto intorno all’asta del fuso.
In
latino mus-cul-u(m)
significava diverse cose: topolino, muscolo del corpo, energia, forza, muscolo
di mare, conchiglia, sorta di galleria (dove stavano al sicuro gli assedianti),
tipo di barca. Ora, un principio della
mia linguistica è quello che vuole che un termine che indica una protuberanza
(colle, sporgenza, ecc.) o una rotondità può indicare anche una cavità (valle,
canale, fosso, ecc.): porto l’esempio della voce di Opi-Aq coppë ‘avvallamento del
terreno’ che altrove indica l’inverso toponomasticamente , cioè alture (più o
meno arrotondate). D’altronde anche il lat. convex-u(m) significava sia ‘convesso’ che
‘cavo’. Allora ecco spuntare i
significati latini legati al concetto di cavità e rotondità” di questa radice
di musc-ul-u(m): galleria, barca conchiglia. Inoltre, sempre muskula, secondo alcuni autori, come i sardi Spano e Porru
(indicati da Wagner alla nota 426 del libro sopra citato), significa anche
‘gancio’. E c’è qualcuno che lo nega o lo mette in dubbio, e fa male, a mio
parere, perché credo sia impossibile che uno inventi così, alla leggera, un
significato. La questione è di
tutt’altra natura.
Anche
il trasaccano muschië ‘pallino’ mostra come la radice avesse un significato
originario di rotondità (non importa
se si riferisse ad una ruota, un disco, un pallino o altro). E un gancio rientra solitamente nel concetto
di “rotondità, cavità, curva“ come mostra il lat. unc-u(m) ‘gancio’, dall’aggett. lat. unc-u(m) ‘adunco, ricurvo, uncinato’. I quali tutti rimandano al gr. όnk-os ‘uncino’ ma anche ‘punta, angolo, volume, massa,
rigonfiamento, gonfiezza’ e così siamo tornati al concetto di “protuberanza,
rotondità” speculare di quello di “cavità”
come in gr. ank-álē ‘braccio
piegato, gomito’, gr. ánk-os,ous ‘curvatura, gola di monte, forra, convalle’, gr. ánk-istr-on ‘amo, uncino, uncino del fuso’. La variante trasaccana murquië ‘pallino’ deve
essere una forma sottoposta a rotacismo di un originario *mus(i)-cul- riferibile a
musquië ‘pallino’. D’altronde in latino si ha il termine muric-e(m) ‘murice’ un mollusco con una
particolare conchiglia. Diffuso è,
inoltre, nei dialetti centro-meridionali il sostantivo morgio, murgia ‘roccia, grossa pietra’. Ad Aielli abbiamo sia il toponimo Murgia, un contrafforte roccioso, sia la
voce arcaica morgia ‘grosso sasso’,
ma tale da poter essere lanciato contro qualcuno.
Sempre
alla nota 426 del libro di M. Wagner si cita un certo Crocioni (deve essere un
noto studioso marchigiano di nome Giovanni) il quale afferma in un suo scritto
che a Velletri-Rm il termine moskolòne
indica il rigonfiamento inferiore (non superiore) del fuso, e che a Civita
Lavinia-Rm il moskula (evidentemente lo stesso rigonfiamento) “è quasi uguale
alla trottola detta in molti
vernacoli moskula, in grazia della sua rapidità”. E tutto questo per accreditare la falsa
derivazione della moskula ‘fusaiolo’
dalla molesta e schizzante mosca. Osservazione importante: i
linguisti spesso, invece di guardare all’interno del termine di cui si cerca
l’etimo, volgono gli occhi altrove, come qui alla mosca, considerata non in sé, ma per un suo comportamento: se
avessero guardato al trasaccano mùsquië,
sarebbe stato molto diverso, in quanto la natura dell’oggetto indicato da questo termine combacia con quella di fusaiolo, e non una vera o presunta sua qualità. Il significato di trottola, invece, in
questo caso (ma anche negli altri) è da riportare a quello di rotondità, palla, come nel termine it. palèo, grossa trottola, che
richiama, secondo me, la palla, il pall-ino
di cui sopra. L’etimo migliore per lo stesso it. trottola è a mio avviso
quello che ne fa, per metatesi, una *tort-ola, rotondeggiante come il dolce chiamato torta e come la torta
o ri-tort-ola,
un ramoscello flessibile che si avvolge
intorno alle fascine. In latino è turb-in-e(m), radice che indica qualsiasi oggetto in movimento rapido e circolare
o lo stesso movimento vorticoso. In greco è bémb-iks simile ad ant. ind. bimba-s ‘disco, palla’. In ted. è Kreis-el da ted. Kreis ‘circolo, cerchio,
circondario, sfera (di interessi, ecc).
Solo in ingl. abbiamo un top ‘trottola’ un po’ oscuro (simile
al fr. toupie ‘trottola’), ma non tanto, se pensiamo al ted. topf
‘pentola’ che ci riporta al concetto di “cavità” e quindi “rotondità” e al fr. toup-et ‘ciuffo di capelli’ che ci riporta
al concetto di “massa, rigonfiamento’ come nell’aiellese toppa ‘palla di neve’. Lo
spagnolo trompo ‘trottola’ sarà la stessa cosa delle espressioni
italiane tromba marina e tromba d’aria che si riferiscono, in meteorologia, a movimenti
vorticosi e violenti di masse d’aria che si innalzano dal mare o dalla
terraferma. Di una cosa sono certo: la parola per ‘trottola’, in qualunque
lingua, rivela o nasconde sempre lo stesso significato di ‘rotondità, giro,
giramento, ecc.’. Una stessa, identica
radice può assumere i significati più diversi, ma comunque interrelati: palla, pallino, sasso, roccia, scoglio, fusaiolo, trottola.
Il rapporto tra lat. mus, muris ‘topo’ e il lat. mus-cul-u(m) ‘muscolo’, oltre che
‘topolino’, a mio avviso non è dovuto alla guizzante rapidità dell’animaletto (che
d’altronde è poco comparabile con il movimento del muscolo), ma, semmai, all’idea di
“forza, energia” in esso incorporata, concretizzatasi nella massa del muscolo: essa andava a
combaciare col mus ‘topo’ il quale,
nella visione animistica della preistoria, era appunto una delle tante forze (animali e cose) che costituivano
il mondo. Il gr. mýs, my-όs ‘topo, muscolo’ è la fotocopia della relativa voce latina. L’altro
termine gr. epí-ton-os ‘muscolo, tendine’ ben esprime l’energia e la tensione propria di questi organi. Un’ultima notazione. Vorrei precisare che quando io dico
‘rotondità’ non intendo naturalmente riferirmi a qualcosa che risponda ai
canoni precisi della geometria, ma a qualcosa che nella sua forma si avvicina a
quella di un cerchio o sfera, ma più spesso non ne rammenta affatto, di primo
acchito, l’idea, come può avvenire, ad esempio, per un sasso che può avere le forme più irregolari ma che, ciononostante,
a Lecce nei Marsi –Aq, ad esempo, è chiamato pall-ùttë, una ‘pallottola’, dunque. Inoltre ad Aielli la palla di neve è chiamata toppa (come ho detto più sopra), la quale prende il significato di
‘zolla di terra’ a Rocca di Botte-Aq[1]
(ma anche ad Aielli, ora che ricordo, dove significa anche palla di neve, come ho già detto) , oppure di ‘bioccolo di lana o
cotone’ nel Vocabolario abruzzese del
Bielli, sopra citato, oppure, nell forma tuppë, di ‘capelli annodati a palla sulla nuca, ciuffo’ in diversi
dialetti abruzzesi. Et maintenant je suis satisfait!
[1] Cfr. M.
Marzolini, cit. Et
maintenant je suis satisfait!
[1] Cfr. D.
Bielli, Vocabolario abruzzese, A.
Polla editore, Cerchio-Aq2004.
[2] Cfr.
Buzzelli-Pitoni, Vocabolario del dialetto
avezzanese, (senza editore)2002.
[3] Cfr. D.
Bielli, cit.
[4] Cfr.
Buzzelli-Pitoni, cit.
[5] Cfr. M.
Marzolini, “…me ‘nténni?”, Arti
Grafiche Tofani, Alatri-Fr.1995.
[6] La voce coccarola non l’ho trovata in nessuno
dei miei tre vocabolari , compreso quello del Petrocchi. Eppure la si usa in internet con eccessiva
fiducia sul suo significato, ritenendola evidentemente anche italiana..
[7] Cfr.
sito web: https://www.sardegnacultura.it/documenti/7_4_20060330170854.pdf,
pp. 278-79, e nota n.426. Si tratta di un’opera sulla lingua e gli usi sardi
scritta nal 1921 dal tedesco Max Leopold Wagner, famoso linguista del secolo
scorso. Traduzione di Giulio Paulis.
[8] Cfr. M.
Marzolini, cit.
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