La tradizione popolare vuole che
gli abitanti di Cocullo, quando san Domenico si accingeva ad andarsene dal paese dove era rimasto per alcun tempo, lo
pregarono di lasciare qualcosa come ricordo e segno concreto del suo passaggio.
Allora il Santo estrasse dalla bocca, con le sue mani, un dente molare e glielo
consegnò insieme ad un ferro
della mula con cui era solito spostarsi. Un dente è ancora oggi custodito in una teca
nella chiesa di san Domenico dove si conserva anche un ferro piegato ad uncino
(in modo da assomigliare ad un vero ferro di cavallo) ad una estremità; il
resto del ferro costituisce il manico e l’impugnatura, dato che esso, fino a
non moltissimi anni fa, veniva arroventato nel fuoco e poggiato sulle parti
dolenti o malate delle persone per farle guarire. Con
quali esiti non saprei dire! Alla processione solenne della festa di san
Domenico dei primi di maggio partecipano anche due ragazze che, procedendo di fianco alla statua, portano cesti
con dentro sacri pani, in ricordo di
un miracolo operato dal Santo, nei riguardi di una povera donna che, portato un
sacchetto di grano a macinare in un mulino, ne offrì un po' a san Domenico
che era presente, e che gliene aveva chiesto per darlo alla sua mula legata ad un albero fuori del mulino.
La farina
che ne uscì, quando la donna macinò il poco grano che era rimasto, fu tanta da
riempire, con suo grande stupore, più di due grossi sacchi.
Secondo
me nemmeno questo dettaglio dell’abbondante
farina deve essere per forza attribuito totalmente all’inventiva popolare, giacchè
circolava tra le lingue italiche ed indoeuropee una radice mel (simile a quella di mola) che indicava bontà ed abbondanza, come
nel lat. mul-t-u(m) ‘molto’,
lat. mel-ior-e(m) ‘migliore’ e nel gr. mála ‘assai’, per cui era molto facile che un eventuale mito
sulla mola e la farina attraesse a sé anche qualche altro termine simile risalente a questa radice. Non bisogna pertanto credere che la storiella
sia nata improvvisamente per san Domenico su un piano sincronico della lingua, ma essa poteva trascinarsi dalle epoche più antiche, anche preistoriche, accrescendosi pian piano intorno ad un nucleo
originario: I miti sono nati con l’uomo parlante, alimentati proprio dagli
incroci di parole simili.
Ora, stando a quello che dirò, questi tre episodi attribuiti al Santo, e
cioè quello del dente molare, del ferro della mula, e della farina del mulino
sono, contrariamente alle apparente, strettamente collegabili tra loro, nel
senso che essi si sono sviluppati, attraverso l’immaginazione e la credulità
popolare, intorno ad uno stesso nucleo iniziale rappresentato dalla parola mola, incrociatasi con mula simile nella forma, e dalla parola farro, far-ina.
Il lat. mol-a(m) significava
‘mola, macina da mulino, mulino’ oltre che, al pl. mol-as, ‘denti molari’. Infatti nel dialetto abruzzese[1] mόlë vale
‘mola, macina’, ma anche ‘dente molare’.
Quindi il collegamento tra il dente molare e la mola o mulino è
strettamente dimostrato dall’etimo stesso dei termini. Quello con farina si spiega perché il lat. mol-a(m) significava anche ‘farina di farro’, una specie di tritello
salato che si spargeva sulle vittime d’un sacrificio. Cfr. lat. mol-ĕre ‘macinare’. Il
farro,
lo si sa, è il più antico tipo di grano conosciuto dai Romani e la parola far-ina ne era un derivato. Resta da
dimostrare il collegamento di questi episodi con quello del ferro della mula, che sembra del tutto
estraneo ai precedenti.
Si può, però, cominciare ad osservare che il termine mula,
assuona molto con quello di mola. E può anche darsi che nella preistoria (a cui secondo me bisogna
spostare questi episodi) si incontrassero diverse varianti di mola simili, ad esempio, all’ingl. mill
‘mulino’, ted. Mühle ‘mulino’, danese mӧlle ‘mulino’
che potevano più facilmente incrociarsi con il femminile mula. Anzi, proprio l’uso di questo femminile nell’episodio in
questione fa pensare che esso sia dovuto all’incrocio con mola, dato che in genere si usa dire che uno viaggia con un mulo, a
dorso di mulo, e non con una mula, a meno che l’episodio della saga di san
Domenico si riferisse a fatto realmente accaduto e verificato da testimoni
oculari, cosa molto improbabile almeno a mio avviso. Ora, però, ammesso che
quello che dico sia vero, bisogna ancora spiegare il senso di ferro, primo termine dell’espressione ferro della mula. Detto semplicemente esso è, secondo me,
variante di farro, dal latino
medievale farr-u(m) , latino classico far, il quale, oltre ad aver dato
origine al lat. far-in-a(m) ‘farina’
significava esso stesso ‘farina’, specificamente quella usata nei sacrifici
come avveniva per la mola, di cui si
è parlato più sopra. Indicava anche una focaccia sacra o genericamente un pane, il quale richiama i pani sacri portati nei cesti
da ragazze durante la processione di san Domenico a Cocullo. Quindi
tutta l’espressione ferro della mula ripete
tautologicamente, secondo me, il significato di ‘farina’ o ‘pane’ o può avere
avuto anche il senso di ‘farina del mulino’, dato che nei nostri dialetti il mulino è chiamato generalmente mola, termine assonante con mula (femmina del mulo), come ho fatto già notare, , e, ora che ci penso, soprattutto con gr.múlē ‘mola’, dorico múla 'mola'. Le molte
parole di sapore greco da me individuate nella Marsica sono quasi tutte
doriche.
Il passaggio farro > ferro, anche se non fosse dovuto alla
presenza, già in antico, di una variante fer
di lat. far ‘farro’ e non fosse giustificabile
linguisticamente, potrebbe essere benissimo reinterpretazione dovuta
all’etimologia popolare, la quale solitamente fa miracoli e passa ben al di
sopra delle norme esistenti. Ma si dà il caso che in diverse parlate abruzzesi,
tra cui quelle della Valle Peligna di cui fa parte Cocullo, la /a/ tonica si
trasformi in /è/ come in nèvë ‘nave’, ferrë fëlètë ‘ferro
filato’, chèsë
‘casa’, chènë
‘cane’, ecc. Ma questo fenomeno trabocca anche nella Marsica orientale (ad
Aschi) e perfino a Cerchio, vicinissimo al mio Aielli, dove l’avverbio e
preposizione aiellese ‘nnànzë ‘innanzi’ suona ‘nnènzë.
Ma ci sono buone probabilità dell’esistenza di una variante fer,
di cui dicevo. A Trasacco, infatti, il verbo sfarrà ‘macinare il farro
o un miscuglio di cereali’ presenta la variante sfërrà nonostante
la possibilità che quest’ultima si confonda con il verbo trasaccano sfërrà dai vari significati di ‘liberare
dai ferri, disarmare, togliere il ferro dallo zoccolo del cavallo o altro
animale, sferrare, scagliare, lanciare contro’[2]. Del
resto anche il lat. farr-agin-e(m) ‘biada per animali (miscuglio di farro, orzo e altro)’
presenta nei nostri dialetti la variante ferr-àina, uguale al sardo ferr-àina, port. ferr-agem, provenz. ferr-atges, catal. ferr-atge. E’ pertano evidente
che la variante ferr- non era dovuta a qualche accidente di pronuncia, ma
all’esistenza di una solida variante di farr-, non registrata nel latino
ufficiale.
Si può osservare, concludendo, che questi episodi presi in esame hanno
come contenuto l’attività della macinazione che assomiglia a quella del
masticare, spezzare e triturare il cibo con i denti prima di deglutirlo, operazione per la quale
è necessario un ottimo stato di salute degli stessi . I fedeli, infatti, il giorno della festa,
usano anche tirare una cordicella legata ad una campanella, afferratola con i
denti, pensando così di rafforzarli e di
mantenerli esenti da malattie per l’intercessione del Santo.
[1] Cfr. D.
Bielli, Vocabolario abruzzese, Polla
editore, Cerchio-A, 2004.
[2] Cfr. Q.
Lucarelli, Biabbà Q-Z, Grafiche Di
Censo, Avezzano-Aq, 2003.
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