domenica 5 maggio 2019

Il dente molare e il ferro della mula lasciati da san Domenico a Cocullo




La tradizione popolare vuole che gli abitanti di Cocullo, quando san Domenico si accingeva ad andarsene dal  paese dove era rimasto per alcun tempo, lo pregarono di lasciare qualcosa come ricordo e segno concreto del suo passaggio. Allora il Santo estrasse dalla bocca, con le sue mani, un dente molare e glielo consegnò insieme ad un  ferro della mula con cui era solito spostarsi.  Un dente è ancora oggi custodito in una teca nella chiesa di san Domenico dove si conserva anche un ferro piegato ad uncino (in modo da assomigliare ad un vero ferro di cavallo) ad una estremità; il resto del ferro costituisce il manico e l’impugnatura, dato che esso, fino a non moltissimi anni fa, veniva arroventato nel fuoco e poggiato sulle parti dolenti o malate delle persone per farle guarire.   Con quali esiti non saprei dire! Alla processione solenne della festa di san Domenico dei primi di maggio partecipano anche due ragazze che, procedendo di fianco alla statua, portano cesti con dentro sacri pani, in ricordo di un miracolo operato dal Santo, nei riguardi di una povera donna che, portato un sacchetto di grano a macinare in un mulino, ne offrì un po' a san Domenico che era presente, e che gliene aveva chiesto per darlo alla sua mula legata ad un albero fuori del mulino. La farina che ne uscì, quando la donna macinò il poco grano che era rimasto, fu tanta da riempire, con suo grande stupore, più di due grossi sacchi. 

   Secondo me nemmeno questo dettaglio dell’abbondante farina deve essere per forza attribuito totalmente all’inventiva popolare, giacchè circolava tra le lingue italiche ed indoeuropee una radice mel (simile a quella di mola) che indicava bontà ed abbondanza, come nel lat. mul-t-u(m) ‘molto’, lat. mel-ior-e(m) ‘migliore’ e nel gr. mála ‘assai’, per cui era molto facile che un eventuale mito sulla mola e la farina attraesse a sé anche qualche altro termine simile risalente a questa radice.  Non bisogna pertanto credere che la storiella sia nata improvvisamente per san Domenico su un piano sincronico della lingua, ma essa poteva trascinarsi dalle epoche più antiche, anche preistoriche,  accrescendosi pian piano intorno ad un nucleo originario: I miti sono nati con l’uomo parlante, alimentati proprio dagli incroci di parole simili.  

    Ora, stando a quello che dirò, questi tre episodi attribuiti al Santo, e cioè quello del dente molare, del ferro della mula, e della farina del mulino sono, contrariamente alle apparente, strettamente collegabili tra loro, nel senso che essi si sono sviluppati, attraverso l’immaginazione e la credulità popolare, intorno ad uno stesso nucleo iniziale rappresentato dalla parola mola, incrociatasi con mula  simile nella forma, e dalla parola farro, far-ina.

     Il lat. mol-a(m) significava ‘mola, macina da mulino, mulino’ oltre che, al pl. mol-as, ‘denti molari’. Infatti nel dialetto abruzzese[1] mόlë vale ‘mola, macina’, ma anche ‘dente molare’.  Quindi il collegamento tra il dente molare e la mola o mulino è strettamente dimostrato dall’etimo stesso dei termini. Quello con farina si spiega  perché il lat. mol-a(m) significava anche ‘farina di farro’, una specie di tritello salato che si spargeva sulle vittime d’un sacrificio. Cfr. lat. mol-ĕre ‘macinare’.  Il farro, lo si sa, è il più antico tipo di grano conosciuto dai Romani e la parola far-ina ne era un derivato. Resta da dimostrare il collegamento di questi episodi con quello del ferro della mula, che sembra del tutto estraneo ai precedenti.

    Si può, però, cominciare ad osservare che il termine mula, assuona molto con quello di mola. E può anche darsi che nella preistoria (a cui secondo me bisogna spostare questi episodi) si incontrassero diverse varianti di mola simili, ad esempio, all’ingl. mill ‘mulino’, ted. Mühle ‘mulino’, danese mӧlle ‘mulino’ che potevano più facilmente incrociarsi con il femminile mula. Anzi, proprio l’uso di questo femminile nell’episodio in questione fa pensare che esso sia dovuto all’incrocio con mola, dato che in genere si usa dire che uno viaggia con un mulo, a dorso di mulo, e non con una mula, a meno che l’episodio della saga di san Domenico si riferisse a fatto realmente accaduto e verificato da testimoni oculari, cosa molto improbabile almeno a mio avviso. Ora, però, ammesso che quello che dico sia vero, bisogna ancora spiegare il senso di ferro, primo termine dell’espressione ferro della mula.  Detto semplicemente esso è, secondo me, variante di farro, dal latino medievale  farr-u(m) , latino classico far, il quale, oltre ad aver dato origine al lat. far-in-a(m) ‘farina’ significava esso stesso ‘farina’, specificamente quella usata nei sacrifici come avveniva per la mola, di cui si è parlato più sopra.  Indicava anche una focaccia sacra o genericamente un pane, il quale  richiama i pani sacri portati nei cesti  da ragazze durante la processione di san Domenico a Cocullo. Quindi tutta l’espressione ferro della mula ripete tautologicamente, secondo me, il significato di ‘farina’ o ‘pane’ o può avere avuto anche il senso di ‘farina del mulino’, dato che nei nostri dialetti il mulino è chiamato generalmente mola, termine assonante con mula (femmina del mulo)come ho fatto già notare, , e, ora che ci penso, soprattutto con gr.múlē ‘mola’, dorico múla 'mola'.  Le molte parole di sapore greco da me individuate nella Marsica sono quasi tutte doriche.
   Il passaggio farro > ferro, anche se non fosse dovuto alla presenza, già in antico, di una variante fer di lat. far ‘farro’ e non fosse giustificabile linguisticamente, potrebbe essere benissimo reinterpretazione dovuta all’etimologia popolare, la quale solitamente fa miracoli e passa ben al di sopra delle norme esistenti. Ma si dà il caso che in diverse parlate abruzzesi, tra cui quelle della Valle Peligna di cui fa parte Cocullo, la /a/ tonica si trasformi in /è/ come in nèvë  ‘nave’, ferrë fëlètë ‘ferro filato’, chèsë ‘casa’, chènë ‘cane’, ecc. Ma questo fenomeno trabocca anche nella Marsica orientale (ad Aschi) e perfino a Cerchio, vicinissimo al mio Aielli, dove l’avverbio e preposizione aiellese ‘nnànzë ‘innanzi’ suona ‘nnènzë.

   Ma ci sono buone probabilità dell’esistenza di una variante fer, di cui dicevo. A Trasacco, infatti, il verbo sfarrà ‘macinare il farro o un miscuglio di cereali’ presenta la variante sfërrà nonostante la possibilità che quest’ultima si confonda con il verbo trasaccano sfërrà dai vari significati di ‘liberare dai ferri, disarmare, togliere il ferro dallo zoccolo del cavallo o altro animale, sferrare, scagliare, lanciare contro’[2]. Del resto  anche il lat. farr-agin-e(m) ‘biada per animali (miscuglio di farro, orzo e altro)’ presenta nei nostri dialetti la variante ferr-àina, uguale al sardo ferr-àina, port. ferr-agem, provenz. ferr-atges, catal. ferr-atge.  E’ pertano evidente che la variante ferr- non era dovuta a qualche accidente di pronuncia, ma all’esistenza di una solida variante di farr-, non registrata nel latino ufficiale.

    Si può osservare, concludendo, che questi episodi presi in esame hanno come contenuto l’attività della macinazione che assomiglia a quella del masticare, spezzare e triturare il cibo con i denti  prima di deglutirlo, operazione per la quale è necessario un ottimo stato di salute degli stessi .  I fedeli, infatti, il giorno della festa, usano anche tirare una cordicella legata ad una campanella, afferratola con i denti, pensando così  di rafforzarli e di mantenerli esenti da malattie per l’intercessione del Santo.   



[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, Polla editore, Cerchio-A, 2004.

[2] Cfr. Q. Lucarelli, Biabbà Q-Z, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2003.

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