domenica 26 maggio 2019

Quatrànë, voce abruzzese irriducibile.





Quatrànë, con le varianti quatràlë, quatràrë, significa ‘ragazzino, ragazzo’.  Non ne ho mai ascoltato un etimo soddisfacente. Del resto nemmeno io, che pure mi inerpico audacemente su sentieri di capra mai battuti,  finora sono riuscito a venire a capo di questa voce che sfugge a qualsiasi  approccio. Col mio fiuto, però, credo  di averne individuato, finalmente,  almeno le tracce. Seguitemi.

  Si incontrano non raramente nelle lingue termini indicanti i bambini   che coincidono con quelli indicanti polloni, getti, germogli, rampolli, ecc.  Valga uno per tutti, il gr. mόskh-os ‘rampollo, ramoscello, fanciullo, giovane, rondinino’. In it. il rampollo stesso  ha questo duplice valore come il lat. pull-u(m) da cui deriva, il quale ha anche quello di ‘pollo’.  Secondo il mio punto di vista ciò accade perché le radici all’origine esprimono una forza che, in questi casi, è quella che si trova dentro  un rampollo, sia esso da intendere come  piantina o come bambino o piccolo di altro animale. 

    Ora mi pare di aver individuato  nell’ingl. gad ‘pungolo (per animali)’, che etimologicamente vale anche  ‘barra, lancia, pertica, bastone’, l’origine prima dell’abruzzese quatrànë ‘ragazzino’. In antico norreno si ha gadr ‘punta, chiodo’ (fate ben attenzione alla /r/ finale in più).  Il ted. Gatter, variante di ted. Gitter, vale ‘cancello’, forse in riferimento alle sbarre lignee o metalliche del manufatto.   Della stessa origine è la voce toscana catro ‘cancello’. Tutto sommato, quindi, questo termine avrebbe potuto indi care anche un pollone cominciando così a dare una spiegazione della  voce abruzzese di cui si parla. Naturalmente è facile supporre, in questo quadro, che il nesso iniziale qua- sia dovuto ad influenza del latino  quadr-u(m) ‘quadro’. D’altronde dalle nostre parti è frequente la voce cèrca per quercia,in cui si è verificato lo stesso fenomeno, ma in senso inverso. In questo caso dovrebbe essere stato il latino ad innovare.

   E’ il momento di introdurre la voce calabrese catër-ìnë  ‘traversa del torchio nella quale gira la vite’ ma anche ‘scodella di legno dotata di un bastoncino graduato per misurare il latte’[1].  La parola significa anche ‘vulva’, una cavità, dunque. Allora è necessario supporre che il termine alludesse a due parole che si erano incrociate, una per cavità e l’altra per ‘stecca barra, bastone, ecc.’ di cui abbiamo parlato. E infatti ecco farsi avanti il composto tautologico abruzzese catra-fossë ‘burrone profondo’. La cui prima componente è ampliamento di ab. catë  ‘secchia’ che fa il paio con il lat. cad-u(m) ‘recipiente per vino’ di origine greca.

   Ad Aielli, il mio paese, con l’espressione la mmànnëla Sanda Catarìna si indicava sia il frutto che l’albero di un tipo di mandorlo che produceva frutti dal guscio piuttosto tenero, poco resistente.  Noi ne possedevamo una in contrada Rënìccia.  In abruzzese, toscano, laziale la càtera (e varianti) indica un tipo di mandorla, che si mangia tenera col guscio verde, quando essa è ancora immatura.  Ora i soliti ignoti fanno derivare il termine da Santa Caterina perchè  la càtera si comincia a mangiare intorno alla festa della Santa, il 29 aprile. Ma a questa spiegazione si oppone il significato del temine aiellese, che si riferisce sia alla pianta, sia al frutto che non è tenero perché immaturo, ma perché è tale per costituzione, anche quando si raccoglie verso settembre passato.

   Allora, stante quello che abbiamo detto,  io penso che la voce càtera  indicasse originariamente l’albero del mandorlo, in quanto estensione di quello di ‘pollone, piantina, pianta’ e che il frutto , pur considerabile una estensione di questo significato, abbia subito probabilmente l’influsso di quello di ‘cavità, rotondità’, data la presenza della doppia protezione  che difende il seme, il mallo all’esterno  e il guscio vero e proprio, duro,  al di sotto.  E’ molto interessante l’accenno alla ‘tenerezza e immaturità’ del frutto nelle voci citate: essa è una spia concreta che ci rivela l’esistenza di un significato, apparentemente perduto dalla parola, relativo all’immaturità del bambino o ragazzo, che si concretizza proprio nel valore di bambino che essa assume pienamente in quatr-ànë.  

  Nel libro VII dell’Eneide Virgilio, parlando di Tyrro, custode degli armenti del re Latino, lo descrive mentre spacca una quercia in quattro parti; quadri-fidam quercum…scindebat (v.509-10) “spaccava una quercia in quattro parti”. Ora, a mio avviso, questi racconti mitici che Virgilio dovè raccogliere prima di comporre il suo poema, si erano formati pian piano nel lontano passato, trascinando con sé termini che magari avevano indicato la stessa parola quercia: l’ggettivo quadri-fid-am letteralmente significa “spaccata (-fid-am)  in quattro (quadri-)” ma io sono convnto che esso valesse ‘, albero,quercia’. Il primo componente lo conosciamo da quello che abbiamo detto sopra, il secondo dovrebbe nascondere un termine simile al gr. phyt-όn ‘pianta, albero, pollone, figlio, tumore’. Les jeux sont faits!

    L’altra voce abruzzese per bambino (in fasce o anche un po’ più grandicello) e cioè cìt-ëlë o cìt-ërë la vedo, pensare un po’, come variante dell’altra radice cad-.  Essa certamente non ha a che fare con l’ingl. child ‘bambino’, come una volta mi propose qualcuno, ma, semmai, con l’ingl. kid ‘capretto’ ma usato spesso per ‘figlio’. Non bisogna passare sotto silenzio il toscano cìtto, cìtt-olo (arcaico)‘bambino, ragazzino’, divenuto spesso zito, zita, zit-èlla, e nemmeno il serbo-croato čedo ‘bambino, bambina’.





[1] Cfr. Cortelazzo-Marcato. I dialetti italiani, UTET, Torino, 1998.





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