Quatrànë, con le varianti quatràlë, quatràrë, significa
‘ragazzino, ragazzo’. Non ne ho mai
ascoltato un etimo soddisfacente. Del resto nemmeno io, che pure mi inerpico audacemente
su sentieri di capra mai battuti, finora sono riuscito a venire a capo di
questa voce che sfugge a qualsiasi approccio.
Col mio fiuto, però, credo di averne
individuato, finalmente, almeno le
tracce. Seguitemi.
Si
incontrano non raramente nelle lingue termini indicanti i bambini che coincidono con
quelli indicanti polloni, getti, germogli, rampolli,
ecc. Valga uno per tutti, il gr. mόskh-os ‘rampollo, ramoscello, fanciullo,
giovane, rondinino’. In it. il rampollo
stesso ha questo duplice valore come il
lat. pull-u(m) da cui deriva, il
quale ha anche quello di ‘pollo’. Secondo
il mio punto di vista ciò accade perché le radici all’origine esprimono una forza che, in questi casi, è quella che si
trova dentro un rampollo, sia esso da
intendere come piantina o come bambino o
piccolo di altro animale.
Ora
mi pare di aver individuato nell’ingl. gad ‘pungolo (per animali)’, che
etimologicamente vale anche ‘barra,
lancia, pertica, bastone’, l’origine prima dell’abruzzese quatrànë ‘ragazzino’. In antico norreno si ha gadr ‘punta, chiodo’ (fate
ben attenzione alla /r/ finale in più). Il
ted.
Gatter, variante di ted. Gitter, vale ‘cancello’, forse in
riferimento alle sbarre lignee o
metalliche del manufatto. Della stessa
origine è la voce toscana catro ‘cancello’. Tutto sommato,
quindi, questo termine avrebbe potuto indi care anche un pollone cominciando così a dare una spiegazione della voce abruzzese di cui si parla. Naturalmente
è facile supporre, in questo quadro, che il nesso iniziale qua- sia dovuto ad influenza del latino quadr-u(m) ‘quadro’. D’altronde
dalle nostre parti è frequente la voce cèrca per quercia,in cui si è verificato lo stesso fenomeno, ma in senso
inverso. In questo caso dovrebbe essere stato il latino ad innovare.
E’ il
momento di introdurre la voce calabrese catër-ìnë ‘traversa del torchio nella quale gira la
vite’ ma anche ‘scodella di legno dotata di un bastoncino graduato per misurare il latte’[1].
La parola significa anche ‘vulva’, una
cavità, dunque. Allora è necessario supporre che il termine alludesse a due
parole che si erano incrociate, una per cavità
e l’altra per ‘stecca barra, bastone, ecc.’ di cui abbiamo parlato. E infatti
ecco farsi avanti il composto tautologico abruzzese catra-fossë ‘burrone profondo’. La cui prima componente è ampliamento di
ab. catë
‘secchia’ che fa il paio con il
lat. cad-u(m) ‘recipiente per vino’ di origine
greca.
Ad
Aielli, il mio paese, con
l’espressione la mmànnëla Sanda Catarìna
si indicava sia il frutto che l’albero di un tipo di mandorlo che produceva frutti
dal guscio piuttosto tenero, poco resistente.
Noi ne possedevamo una in contrada Rënìccia. In abruzzese, toscano, laziale la càtera (e varianti) indica un tipo di
mandorla, che si mangia tenera col guscio verde, quando essa è ancora
immatura. Ora i soliti ignoti fanno
derivare il termine da Santa Caterina perchè la càtera
si comincia a mangiare intorno alla festa della Santa, il 29 aprile. Ma a
questa spiegazione si oppone il significato del temine aiellese, che si
riferisce sia alla pianta, sia al frutto che non è tenero perché immaturo, ma
perché è tale per costituzione, anche quando si raccoglie verso settembre
passato.
Allora, stante quello che abbiamo detto,
io penso che la voce càtera indicasse originariamente l’albero del mandorlo, in quanto
estensione di quello di ‘pollone, piantina, pianta’ e che il frutto , pur
considerabile una estensione di questo significato, abbia subito probabilmente
l’influsso di quello di ‘cavità, rotondità’, data la presenza della doppia protezione
che difende il seme, il mallo
all’esterno e il guscio vero e proprio,
duro, al di sotto. E’ molto interessante l’accenno alla ‘tenerezza
e immaturità’ del frutto nelle voci citate: essa è una spia concreta che ci
rivela l’esistenza di un significato, apparentemente perduto dalla parola, relativo
all’immaturità del bambino o ragazzo,
che si concretizza proprio nel valore di bambino
che essa assume pienamente in quatr-ànë.
Nel
libro VII dell’Eneide Virgilio, parlando di Tyrro, custode degli armenti del re
Latino, lo descrive mentre spacca una quercia in quattro parti; quadri-fidam
quercum…scindebat (v.509-10) “spaccava una quercia in quattro parti”.
Ora, a mio avviso, questi racconti mitici che Virgilio dovè raccogliere prima
di comporre il suo poema, si erano formati pian piano nel lontano passato, trascinando
con sé termini che magari avevano indicato la stessa parola quercia: l’ggettivo quadri-fid-am letteralmente significa “spaccata (-fid-am) in quattro (quadri-)” ma io sono
convnto che esso valesse ‘, albero,quercia’. Il primo componente lo conosciamo
da quello che abbiamo detto sopra, il secondo dovrebbe nascondere un termine
simile al gr. phyt-όn ‘pianta,
albero, pollone, figlio, tumore’. Les
jeux sont faits!
L’altra voce abruzzese per bambino (in fasce o anche un po’ più
grandicello) e cioè cìt-ëlë o cìt-ërë la vedo, pensare un po’, come
variante dell’altra radice cad-. Essa certamente non ha a che fare con l’ingl.
child ‘bambino’, come una volta mi
propose qualcuno, ma, semmai, con l’ingl. kid ‘capretto’ ma usato spesso per
‘figlio’. Non bisogna passare sotto silenzio il toscano cìtto, cìtt-olo (arcaico)‘bambino, ragazzino’,
divenuto spesso zito, zita, zit-èlla, e
nemmeno il serbo-croato čedo ‘bambino, bambina’.
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