lunedì 13 maggio 2019

La parola e la parabola




Tutti i linguisti sostengono che l’it. parola deriva dal lat. parabol-a(m) ‘similitudine, paragone, parabola, proverbio, parola’(c’è anche la forma lat. parabolē ) a sua volta presa dal greco parabol ‘paragone, comparazione, giustapposizione, parabola’ ma talora anche ‘detto, proverbio, favola, apologo’, significati, questi ultimi, che si avvicinano al valore più generico di it. parola, assunto però, così dicono i linguisti, a partire dal latino, successivamente alla predicazione dei primi Cristiani che erano soliti riferirsi alle parabole di Cristo, le quali, come intendiamo anche oggi, sono racconti di fatti  verosimili tratti dalla vita comune, da servire come ‘esempi’ per i fedeli.  Dalla forma parabol-a(m), che molto per tempo (già nella Vulgata —fine del IV sec. d. C.) aveva assunto il significato di ‘parola’, si passò in italiano a paravola>paraola> parola.  Contemporaneamente a parola si sviluppò anche il verbo parl-are. Non è quindi campata in aria la supposizione che questo valore di ‘parola, parlare’ fosse presente anche nel periodo classico del latino, sebbene nascosto all’ombra di qualche dialetto e rispuntato improvvisamente (?) nella Vulgata.  
 
    Ora, nel vocabolario abruzzese del Bielli[1], si incontrano la voce parlécchiē ‘fandonia, panzana’ e la voce parlecchi-are ‘frottolone, bugiardo’ le quali dovrebbero risalire all’originaria parabola (parle-cchie presuppone un lat. *parabole-cula, diminutivo di parabola), data anche la circostanza che in italiano si hanno termini con significati simili come para-bol-ano ‘chiacchierone, fanfarone’, para-bol-one ‘chiacchierone’, fara-bol-one (toscano) chiacchierone, imbroglione’, farabol-ano ’chiacchierone, imbroglione’.  In abruzzese si ha farambul-onë dallo stesso significato.  Mi domando come sia possibile che queste parole che mostrano un significato fortemente peggiorativo di lat. parabol-a(m) possano essere derivate da esso. I significati noti erano quelli di ‘similitudine, parabola (evangelica), proverbio’.  Allora diventa sempre più accettabile la supposizione che facevo sopra circa la possibilità che vi fosse una vita nascosta della parola parabol-a(m), con i suddetti significati,  all’ombra di qualche dialetto o strato sociale diverso da quello egemone.  La nozione di ‘imbroglio, inganno’ si ritrova, vedi caso, già nel verbo gr. para-báll-ein Comunque a me non pare che le ultime voci citate con la /f/ iniziale attestino un’alterazione casuale della consonante /p/ (presente nelle altre voci) mutatasi  in fricativa /f/ ma che esse siano dovute  all’alternarsi di due radici diverse, dall’identico significato: una dovrebbe essere quella confusasi col prefisso greco para- di para-bolḗ ‘comparazione, ecc.’(da gr. para-báll-ein ‘gettare presso’) e presente, a mio parere, anche nel gr. pe-par-eῖn ‘mostrare, indicare’, infinito aoristo raddoppiato. Il significato è prossimo a quello di ‘dire, dichiarare, ecc.’.  Inoltre la  nozione di ‘imbroglio, inganno’, che spunta talora nei termini sopra citati simili a para-bol-one ‘chiacchierone’,  si ritrova, vedi caso, già nel verbo gr. para-báll-ein che vale anche ‘ingannare’ e in gr. pará-bόl-os ‘ ingannevole’.

     L’altra radice fara- dovrebbe essere quella di lat. fari-ari ‘dire’ presente nelle XII Tavole secondo lo scrittore latino Gellio. Questa sarà da intendere come ampliamento della radice di lat. f-ari ‘parlare, dire’ fatta risalire alla radice indoeuropea bhā ‘parlare’, presente anche in lat. fa-cund-u(m) ‘facondo, eloquente’, in lat. fa-bul-a(m) ‘conversazione, diceria, apologo, favola, mito’, in lat. fam-a(m) ‘fama’, identica al gr. dorico phámā ’fama’.  Il lat. fa-bell-a(m) ‘piccola favola, piccolo aneddoto’ che nel sistema grammaticale latino svolge la funzione di diminutivo, doveva essere all’origine in realtà una semplice variante di fa-bul-a(m), il cui secondo elemento –bul- non era un non meglio identificato suffisso, ma doveva essere variante di -bell- e doveva avere un significato tautologicamente  identico a quello del primo elemento fa- di cui si è parlato. Esso a mio avviso si ritrova nel lat. bal-are o bel-are ‘belare’ e anche nel gr. para-bolḗ nel significato di ‘detto, proverbio, favola, apologo’.  En passant faccio notare che tutti questi significati rimandano all’idea di dire, parlare e credo che non sia un caso. Anche il gr. log-os ’parola, racconto, ecc.’ può indicare un fatto favoloso e irreale, come d’altronde anche il gr. mỹth-os ‘parola, discorso, favola, mito’. E’ vano poi pensare che la radice di lat. bal-are ‘belare’ sia onomatopeica, presunto ampliamento delle voci bee o baa usate nelle  lingue ad indicare imitativamente il belato di pecore e capre.  Queste non sono altro, invece, che forme della radice bha di cui si è parlato, col significato fondamentale di ‘suono’ di qualsiasi tipo, anche quello causato dalle  parole quando vengono pronunciate.  Come ho mostrato in altro articolo, non credo affatto nelle onomatopee. Credo sia superfluo elencare altri termini simili come, ad esempio, il ted. bell-en ‘abbaiare’, medio tedesco bol-en ‘risonare’, ingl. bell-ow ‘muggito, urlo’, ingl. bawl ’grido, pianto’.  Anche il lat. iu-bil-u(m) ‘grido, acclamazione’ presenta la variante bil- che ripete tautologicamente il valore di iu-  da appaiare al gr. iō- ‘suono, grido’, gr. iá ‘suono, grido’, ecc.  Il significato di ‘grido di gioia’ si sviluppò quando la parola si incrociò con Giubileo, la festa religiosa ebraico-cristiana.

    Ci sarebbero diverse altre osservazioni da fare in proposito ma mi limito solo alla seguente: quasi tutti i verbi greci simili a para-báll-ein  composti con altri prefissi, presentano, tra gli altri, significati come mettere innanzi, presentare, offrire, proporre, esporre, i quali sembrano ad un passo dal generare il significato di ‘esprimere, annunciare, dire’ come il verbo sym-báll-ein ’mettere insieme, paragonare, incontrare, ecc.’  ma anche ‘esporre, esprimere, dichiarare’.  Col verbo gr. phér-ein ‘portare, riferire, dire’ succede la stessa cosa che col verbo lat. ferre ‘portare’ e ‘riferire,dire’. Il gr. pro-phér-ein ‘portare avanti,ecc. ma anche ‘enunciare, dire, proferire’ come l’it. proferire dal lat. pro-ferreportare avanti’ ma anche ‘ presentare, esporre’.  Anche gr. para-phér-ein ‘portare presso, avanti, ecc.’ significa altresì ‘ pronunciare, narrare, riferire’. Il lat. voci-fer-ari significava ‘schiamazzare, risonare’ e non ‘diffondere una notiza o un pettegolezzo (voci-)’ come in italiano per influsso, credo, del lat. ferre ‘portare’: insomma non si tratta di diffusione di voci , ma solo di voce, grida, rimbombo schiamazzo, concetto ripetuto tautologicamente anche nella componente fer-.

    Per la variante far- ‘parlare, dire’ si potrebbe citare anche l’it. fan-far-one , dallo sp. fan-farr-on ‘sbruffone, spaccone’ che si crede derivato dall’arabo far-far ‘loquace’ il quale presenta la radice raddoppiata, che, guarda caso, è proprio quella di cui parliamo. Ma il membro iniziale fan- potrebbe essere autonomo se si riflette sul toscano fan-fano ‘fanfarone, chiacchierone, imbroglione’, la cui origine potrebbe essere molto antica e coincidere con quella di gr. phaín-ein (cioè phan-) ‘illuminare, mostrare, indicare’ ma talora anche  ‘far risonare, dire’.  Da non dimenticare lo sp. far-ol ‘smargiassata, sparata’ e anche ‘bluff’ nel gioco delle carte, avvicinandosi al significato di ‘imbroglio’.   Caratteristica è la voce del dialetto di Trasacco-Aq  pam-parr-ònë [2] variante  di fan-farr-ònë  e, a mio parere, derivante da questo.  Infatti dalle  nostre parti l’incontro di una nasale con la fricativa /f/ generava in antico il nesso (-mb-): l’espressione in fumo diventava, ad esempio, m-bumë; tuttora la voce m-bùssë (femm. m-bόssa, per metafonesi) da noi vale ‘bagnato’ dal lat. in-fus-u(m) ‘versato, bagnato’. Quindi per la parola in questione si avrà avuta dapprima una forma fam-parr-ònë o fam-barr-ònë e successivamente, per assimilazione della /f/ iniziale alla /p/ della sillaba successiva, la forma pam-parr-ònë . La fan-fara in origine doveva essere un suono squillante, come quello del corno che accompagnava le varie fasi della caccia. Lo ripeto, io non ammetto le onomatopee: la lingua non è nata affatto con la funzione di imitare la natura ma, semmai, con l’ambizione di conoscere la realtà.

   L’insegnamento che si può trarre da questi e altri casi è che, in una data lingua, il significato più  diffuso di un termine ingenera il convincimento da parte degli studiosi che quel significato sia quello originario della radice, mentre a me pare che esso  non sia altro che uno dei significati che in altri contesti, soprattutto in quelli più antichi, e direi preistorici, il termine (o la sua radice) poteva avere, dato che esso era nato senza un significato preciso e limitato. Nei casi sopra elencati il significato generico iniziale doveva essere proprio quello di forza, spinta e simili: è la forza che è necessaria a portare o spingere qualcosa, e anche il concetto di parola, con qualsiasi radice esso venga indicato, deve essere generalmente, a mio avviso, un’espressione, proprio nel significato etimologico di pressione esercitata nell’esprimersi, che è un premere fuori (spingere) le parole.

     In Omero si ha una certa frequenza di termini e verbi usati all’apparenza impropriamente ad indicare fenomeni luminosi o sonori; una volta, ad esempio, si dice:« vedo (leusso) la voce (ioen) del fuoco funesto» (Iliade, 16, 127). A mio parere questo succedeva perché i poemi omerici provenivano per tradizione orale  da epoche lontane da quella di Omero, forse anche dalla remota preistoria antecedente persino alla guerra di Troia, e perciò essi rispecchiavano talora caratteristiche linguistiche molto diverse da quelle del greco storico come lo conosciamo.  I verbi designanti le sensazioni della vista e dell’udito o di altra natura, all’inizio esprimevano a mio avviso la stessa tensione necessaria all’uomo per provarle. L’esempio sopra accennato del verbo gr. phaín-ein  lo conferma.  Sembrano cose strane ma non lo sono affatto. Se uso ad esempio il verbo avvertire un po’ al di fuori della sua normale sfera semantica, che riguarda solitamente sensazioni fisiche (ma non quelle luminose), acustiche o psichiche (ad es. avvertire un dolore, un rumore), e formulo una frase come questa:“mi svegliai presto nella mia casa di campagna e, dall’interno della mia camera al buio, avvertii  il fievole chiarore dell’alba attraverso  i vetri della finestra”, estendo l’uso del verbo, senza provocare eccessivi terremoti semantici, ad una sensazione visiva normalmente non contemplata (non posso dire, ad esempio, “avverto  la luce del giorno per ‘scorgo la luce del giorno’,). Naturalmente man mano che il tempo passava i termini si specializzavano ad indicare l’una o l’altra delle sensazioni, e non tutte insieme.



[1] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq, 2004.

[2] Cfr.Q. Lucarelli, Biabbà F-P, Grafiche Di Censo, Avezzano-Aq, 2003.

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