Tutti i linguisti sostengono che
l’it. parola deriva dal lat. parabol-a(m) ‘similitudine, paragone, parabola,
proverbio, parola’(c’è anche la forma lat. parabolē ) a sua
volta presa dal greco parabolḗ ‘paragone, comparazione,
giustapposizione, parabola’ ma talora anche ‘detto, proverbio, favola, apologo’,
significati, questi ultimi, che si avvicinano al valore più generico di it. parola, assunto però, così dicono i linguisti,
a partire dal latino, successivamente alla predicazione dei primi Cristiani che
erano soliti riferirsi alle parabole
di Cristo, le quali, come intendiamo anche oggi, sono racconti di fatti verosimili tratti dalla vita comune, da
servire come ‘esempi’ per i fedeli.
Dalla forma parabol-a(m), che
molto per tempo (già nella Vulgata
—fine del IV sec. d. C.) aveva assunto il significato di ‘parola’, si passò in
italiano a paravola>paraola> parola.
Contemporaneamente a parola
si sviluppò anche il verbo parl-are. Non è quindi campata in aria la supposizione che questo
valore di ‘parola, parlare’ fosse presente anche nel periodo classico del latino,
sebbene nascosto all’ombra di qualche dialetto e rispuntato improvvisamente (?)
nella Vulgata.
Ora,
nel vocabolario abruzzese del Bielli[1],
si incontrano la voce parlécchiē ‘fandonia, panzana’ e la
voce parlecchi-are ‘frottolone, bugiardo’ le quali
dovrebbero risalire all’originaria parabola
(parle-cchie presuppone un lat. *parabole-cula, diminutivo di parabola), data anche la circostanza che
in italiano si hanno termini con significati simili come para-bol-ano
‘chiacchierone, fanfarone’, para-bol-one ‘chiacchierone’, fara-bol-one (toscano) chiacchierone, imbroglione’,
farabol-ano ’chiacchierone,
imbroglione’. In abruzzese si ha farambul-onë dallo stesso significato. Mi domando come sia possibile che queste
parole che mostrano un significato fortemente peggiorativo di lat. parabol-a(m) possano essere derivate da esso. I
significati noti erano quelli di ‘similitudine, parabola (evangelica),
proverbio’. Allora diventa sempre più
accettabile la supposizione che facevo sopra circa la possibilità che vi fosse
una vita nascosta della parola parabol-a(m), con i suddetti significati,
all’ombra di qualche dialetto o strato sociale diverso da quello egemone. La
nozione di ‘imbroglio, inganno’ si ritrova, vedi caso, già nel verbo gr. para-báll-ein Comunque a me non pare che
le ultime voci citate con la /f/ iniziale attestino un’alterazione casuale
della consonante /p/ (presente nelle altre voci) mutatasi in fricativa /f/ ma che esse siano dovute all’alternarsi di due radici diverse,
dall’identico significato: una dovrebbe essere quella confusasi col prefisso greco para- di para-bolḗ ‘comparazione, ecc.’(da gr. para-báll-ein ‘gettare presso’) e presente, a mio parere, anche nel gr.
pe-par-eῖn
‘mostrare, indicare’, infinito aoristo raddoppiato. Il significato è prossimo a
quello di ‘dire, dichiarare, ecc.’. Inoltre la
nozione di ‘imbroglio, inganno’, che spunta talora nei termini sopra
citati simili a para-bol-one
‘chiacchierone’, si ritrova, vedi caso,
già nel verbo gr. para-báll-ein che vale anche ‘ingannare’
e in gr. pará-bόl-os ‘
ingannevole’.
L’altra
radice fara- dovrebbe essere
quella di lat. fari-ari ‘dire’ presente nelle XII Tavole secondo lo scrittore
latino Gellio. Questa sarà da intendere come ampliamento della radice di lat. f-ari ‘parlare, dire’ fatta risalire alla
radice indoeuropea bhā ‘parlare’, presente anche in lat. fa-cund-u(m) ‘facondo, eloquente’, in lat. fa-bul-a(m) ‘conversazione, diceria, apologo, favola, mito’, in lat. fam-a(m) ‘fama’, identica al gr. dorico phámā
’fama’. Il lat. fa-bell-a(m)
‘piccola favola, piccolo aneddoto’ che nel sistema grammaticale latino svolge
la funzione di diminutivo, doveva essere all’origine in realtà una semplice
variante di fa-bul-a(m), il cui secondo elemento –bul- non era un non meglio identificato suffisso, ma doveva essere
variante di -bell- e doveva avere un
significato tautologicamente identico a
quello del primo elemento fa- di cui si è parlato. Esso a mio
avviso si ritrova nel lat. bal-are o bel-are ‘belare’ e
anche nel gr. para-bolḗ nel significato di ‘detto, proverbio, favola,
apologo’. En passant faccio notare che
tutti questi significati rimandano all’idea di dire, parlare e credo che
non sia un caso. Anche il gr. log-os ’parola, racconto,
ecc.’ può indicare un fatto favoloso e irreale, come d’altronde anche il gr. mỹth-os ‘parola, discorso, favola, mito’. E’
vano poi pensare che la radice di lat. bal-are ‘belare’ sia onomatopeica, presunto ampliamento delle voci bee
o baa usate nelle lingue ad indicare imitativamente il belato
di pecore e capre. Queste non sono altro,
invece, che forme della radice bha di
cui si è parlato, col significato fondamentale di ‘suono’ di qualsiasi tipo,
anche quello causato dalle parole quando
vengono pronunciate. Come ho mostrato in
altro articolo, non credo affatto nelle onomatopee. Credo sia superfluo
elencare altri termini simili come, ad esempio, il ted. bell-en ‘abbaiare’, medio tedesco bol-en ‘risonare’, ingl. bell-ow ‘muggito, urlo’, ingl. bawl ’grido, pianto’. Anche il
lat. iu-bil-u(m) ‘grido, acclamazione’ presenta la variante bil- che ripete tautologicamente il valore
di iu- da appaiare al gr. iō-ḗ ‘suono, grido’, gr. iá ‘suono, grido’, ecc. Il significato di ‘grido di gioia’ si sviluppò
quando la parola si incrociò con Giubileo,
la festa religiosa ebraico-cristiana.
Ci
sarebbero diverse altre osservazioni da fare in proposito ma mi limito solo alla
seguente: quasi tutti i verbi greci simili a para-báll-ein composti con altri prefissi, presentano, tra
gli altri, significati come mettere
innanzi, presentare, offrire, proporre, esporre, i quali sembrano ad un
passo dal generare il significato di ‘esprimere, annunciare, dire’ come il
verbo sym-báll-ein ’mettere insieme, paragonare, incontrare, ecc.’ ma anche ‘esporre, esprimere,
dichiarare’. Col verbo gr. phér-ein ‘portare, riferire, dire’ succede
la stessa cosa che col verbo lat. ferre ‘portare’ e ‘riferire,dire’.
Il gr. pro-phér-ein ‘portare avanti,ecc. ma anche ‘enunciare, dire,
proferire’ come l’it. proferire dal lat. pro-ferre ‘portare avanti’ ma anche ‘
presentare, esporre’. Anche gr. para-phér-ein
‘portare presso, avanti, ecc.’ significa altresì ‘ pronunciare, narrare,
riferire’. Il lat. voci-fer-ari significava ‘schiamazzare,
risonare’ e non ‘diffondere una notiza o un pettegolezzo (voci-)’ come in italiano per influsso, credo, del lat. ferre ‘portare’: insomma non si tratta
di diffusione di voci , ma solo di
voce, grida, rimbombo schiamazzo, concetto ripetuto tautologicamente anche
nella componente fer-.
Per la variante far- ‘parlare, dire’ si
potrebbe citare anche l’it. fan-far-one , dallo sp. fan-farr-on
‘sbruffone, spaccone’ che si crede derivato dall’arabo far-far ‘loquace’ il
quale presenta la radice raddoppiata, che, guarda caso, è proprio quella di cui
parliamo. Ma il membro iniziale fan- potrebbe essere autonomo se si riflette sul toscano fan-fano
‘fanfarone, chiacchierone, imbroglione’, la cui origine potrebbe essere molto
antica e coincidere con quella di gr. phaín-ein (cioè phan-) ‘illuminare, mostrare,
indicare’ ma talora anche ‘far risonare,
dire’. Da non dimenticare lo sp. far-ol
‘smargiassata, sparata’ e anche ‘bluff’ nel gioco delle carte, avvicinandosi al
significato di ‘imbroglio’.
Caratteristica è la voce del dialetto di Trasacco-Aq pam-parr-ònë [2]
variante di fan-farr-ònë e, a mio parere, derivante da questo. Infatti dalle
nostre parti l’incontro di una nasale con la fricativa /f/ generava in
antico il nesso (-mb-): l’espressione in
fumo diventava, ad esempio, m-bumë; tuttora la voce m-bùssë
(femm. m-bόssa, per metafonesi) da noi vale ‘bagnato’ dal lat. in-fus-u(m) ‘versato, bagnato’. Quindi
per la parola in questione si avrà avuta dapprima una forma fam-parr-ònë o fam-barr-ònë e successivamente, per assimilazione della /f/ iniziale
alla /p/ della sillaba successiva, la forma pam-parr-ònë . La fan-fara
in origine doveva essere un suono
squillante, come quello del corno che accompagnava le varie fasi della
caccia. Lo ripeto, io non ammetto le onomatopee: la lingua non è nata affatto
con la funzione di imitare la natura
ma, semmai, con l’ambizione di conoscere
la realtà.
L’insegnamento che si può trarre da questi e altri casi è che, in una data
lingua, il significato più diffuso di un
termine ingenera il convincimento da parte degli studiosi che quel significato
sia quello originario della radice, mentre a me pare che esso non sia altro che uno dei significati che in
altri contesti, soprattutto in quelli più antichi, e direi preistorici, il
termine (o la sua radice) poteva avere, dato che esso era nato senza un
significato preciso e limitato. Nei casi sopra elencati il significato generico
iniziale doveva essere proprio quello di forza, spinta e simili: è la
forza che è necessaria a portare o spingere qualcosa, e anche il concetto
di parola, con qualsiasi radice esso
venga indicato, deve essere generalmente, a mio avviso, un’espressione, proprio nel
significato etimologico di pressione
esercitata nell’esprimersi, che è un premere fuori (spingere) le
parole.
In Omero si ha una certa frequenza di termini
e verbi usati all’apparenza impropriamente ad indicare fenomeni luminosi o
sonori; una volta, ad esempio, si dice:« vedo (leusso) la voce (ioen)
del fuoco funesto» (Iliade, 16, 127). A mio parere questo succedeva perché i
poemi omerici provenivano per tradizione orale
da epoche lontane da quella di Omero, forse anche dalla remota
preistoria antecedente persino alla guerra di Troia, e perciò essi
rispecchiavano talora caratteristiche linguistiche molto diverse da quelle del
greco storico come lo conosciamo. I
verbi designanti le sensazioni della vista
e dell’udito o di altra natura,
all’inizio esprimevano a mio avviso la stessa tensione necessaria all’uomo per provarle. L’esempio sopra
accennato del verbo gr. phaín-ein lo conferma. Sembrano cose strane ma non lo sono affatto.
Se uso ad esempio il verbo avvertire
un po’ al di fuori della sua normale sfera semantica, che riguarda solitamente sensazioni fisiche (ma non quelle luminose), acustiche o psichiche (ad es. avvertire un dolore, un rumore), e formulo una frase
come questa:“mi svegliai presto nella mia casa di campagna e, dall’interno della mia camera al buio, avvertii
il fievole chiarore dell’alba attraverso i vetri della finestra”, estendo l’uso del
verbo, senza provocare eccessivi terremoti semantici, ad una sensazione visiva
normalmente non contemplata (non posso dire, ad esempio, “avverto la luce del giorno per ‘scorgo la luce del
giorno’,). Naturalmente
man mano che il tempo passava i termini si specializzavano ad indicare l’una o
l’altra delle sensazioni, e non tutte insieme.
[1] Cfr. D.
Bielli, Vocabolario abruzzese, A.
Polla editore, Cerchio-Aq, 2004.
[2] Cfr.Q.
Lucarelli, Biabbà F-P, Grafiche Di
Censo, Avezzano-Aq, 2003.
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