Seguendo la scia del mio articolo Nella Marsica, ma anche altrove […] sulla presenza dei Greci
nella nostra terra marsicana e altrove in tempi antichissimi (cfr. pietro
maccallini.blogspot.it, giugno 2014), mi sono messo a ricercare altri eventuali
termini che ne consolidassero la validità.
E così mi sono ricordato della espressione che mio padre usava
riferendosi a qualcuno che avesse un comportamento ambiguo, instabile, fasullo
e di cui, quindi, non ci si poteva fidare.
«E’ unë chë fa ddu’ i donna! (E’ uno che
fa due e donna!)» era solito sentenziare con una scrollatina di capo. Grande è stata la mia sorpresa quando
ho ritrovato l’espressione nel dialetto di Avezzano con l’identico valore e nella forma
univerbata dùeddònna ‘atteggiamento
ambiguo, tenere il piede in due staffe’[1]. A quanto sembra l’espressione ha valore di
sostantivo, probabilmente derivato dal neutro dell’aggettivo che subito
indicherò. Debbo dire che è stato il due-
iniziale a mettermi sulla strada giusta nella ricerca dell’etimo. Infatti il
suo significato è alla base di aggettivi come doppio, duplice i quali
assumono anche il valore di ‘falso, ambiguo’ come nel gr. doi-é ‘dubbio, incertezza’, da gr. doi-ós ‘doppio, duplice’. Il
problema a questo punto era quello di capire che cosa ci fosse sotto –donna, l’altra metà del termine, che non
poteva essere accettata nel suo squillante
significato di superficie, cioè ‘donna’, benchè il pregiudizio, in passato
imperante nei confronti del gentil sesso, avesse sviluppato, per questo
termine, anche il significato collaterale di ‘inaffidabile, mentitrice’. Ma il fiuto che ormai posseggo per queste
cose, dopo anni di ricerche, mi spingeva a supporre che dietro –donna si dovesse nascondere una radice
tautologica rispetto al due-
iniziale, radice che fin dalle origini doveva contenere questo valore, che non poteva
quindi essere, per così dire, di risulta, come quello derivante dal pregiudizio
nei confronti della donna.
In un primo
momento ho pensato al gr. dí-dym-os ‘gemello, doppio’, termine
costituito dal raddoppiamento della radice di gr. dý-o ‘due’, lat. du-o ’due’, ecc. col secondo membro –dym- ampliato in /m/. Ma questa soluzione, benchè perfetta relativamente
al significato di ‘doppio’, mi lasciava un po’ insoddisfatto perché mi sembrava
improbabile che la forma -dym- potesse equivalere al lat. domin-a(m) ‘signora’ da cui deriva l’it. donna, attraverso la sequenza domina(m)>domina> domna> donna.
E non tanto per il diverso vocalismo dei due termini latino e greco, quanto per
la difficoltà di una derivazione dell’it. donna
dalla radice con la sola /m/ di gr. -dym-,
senza il nesso /mn/ di lat. dom(i)na(m). Il mio
tentennamento, che aveva ben ragione di esistere, si è risolto felicemente quando
ho scoperto che in greco c’era, effettivamente, anche la variante dí-dymn-os[2]. Questo fatto è molto istruttivo: esso ci
ricorda anche, in verità, che moltissime saranno state, nel corso dei millenni,
le varianti andate perdute per sempre, come foglie invecchiate che si staccano
melanconicamente dagli alberi in autunno, ad ogni folata di vento, giacchè le
lingue storiche proprio per questo non possono registrarle tutte, soprattutto quelle
scomparse già in fase preistorica quando la scrittura era ancora di là da
venire. E ci conferma che le
supposizioni, se fatte con sagacia e dottrina, sono in genere discretamente
attendibili.
Vedremo
subito che il lat. domin-u(m)
‘signore, padrone’ è legato a filo doppio con questo secondo membro di gr. dí-dymn-os ‘doppio,
gemello’ il cui primo membro dí- deriva da una forma identica a quella del prefisso
inglese twi- ‘due, doppio’. In effetti il neutro dello stesso aggettivo,
cioè gr. dí-dym-on, significa anche ‘consorte, moglie’,
come risulta da iscrizione[3]. Di conseguenza la voce domennàcchie ‘coppia di
oggetti’ del dialetto pugliese di Minervino[4],
spiegata come derivante dall’espressione du
më n’acchjë ‘due me ne trovo’ e
riferita scherzosamente all’altra espressione du mennàcchjë ‘due mammelle’, a mio modo
di vedere non ha bisogno di queste giravolte per essere chiarita, potendo essa
derivare direttamente e semplicemente da vocabolo contenente la seconda parte
del suddetto gr. dí-dymn-os ‘gemello’
col l’aggiunta del diffuso suffisso –acchië (dumen-àcchië). Anche il nome del gioco detto domino
credo possa derivare realisticamente da questa nozione di doppio, dato che le 28 tessere
rettangolari di cui si fa uso, inizialmente di osso o d’avorio, hanno tutte la
facciata divisa in due quadratini da una linea nera, ciascuno con un certo
numero di puntini da zero fino a sei. I due quadratini possono anche essere ciascuno
di due colori, il bianco e il nero. L’etimologia solita chiama in ballo il
colore nero del rovescio delle tessere stesse coperte d’ebano o altro, colore
che sarebbe quello della cappa nota come domino,
in uso a carnevale in Francia ma anche in Italia. Anche qui mi pare che ci si arrampichi sugli
specchi, non avendo a disposizione una spiegazione più realistica. Inoltre, la
nozione di due, doppio a mio avviso è solo una specializzazione di una più generica
di connessione, unione, serie, concatenazione, legame, costruzione resa
evidente dal gioco stesso del domino,
giacché, man mano che esso procede, le tessere vengono messe l’una a fianco
all’altra sul tavolo, a formarne una successione
ininterrotta, una sorta di linea serpeggiante. Non è un caso che l’irl. dam
significhi ‘seguito, corteo, schiera’.
Anche l’espressione effetto domino non è dovuta al fatto che
esso possa verificarsi con le tessere del domino schierate l’una vicino
all’altra e poggiate su uno dei lati più piccoli: facendone cadere una, tutte
le altre, spinte dalla precedente, a catena ne seguono la stessa sorte;
l’espressione prende nome proprio dal suo essere un effetto di reazione a catena, una successione continua dello stesso evento,
e non genericamente riferita al gioco del domino.
Anche il
gioco della dama si può dire che sia un tripudio del concetto di “doppio, serie,
fila” proprio attraverso il disegno della scacchiera: una serie di file di caselle, alternativamente
bianche e scure; le pedine sono ugualmente di due colori, perché quelle di ciascuno dei due giocatori non si
confondano con quelle dell’avversario. La pedina che raggiunge una casella dell’ultima
fila diventa dama e deve essere contrassegnata dalla sovrapposizione
di due pedine. Mi sembra abbastanza inessenziale
l’etimo che rimanda al fr. dame (lat. domin-am ‘signora’) in riferimento al fatto che la pedina diventata dama sarebbe appunto la signora del gioco, ammessa (ma non concessa) l’origine
francese dello stesso. E
ugualmente marginale è l’etimo che propone l’antico fr. dame ‘pietra, pezzo’.
Come si può
vedere, gli etimi da me proposti vanno
direttamente al cuore del concetto da spiegare, mentre purtroppo i linguisti
sono solitamente distratti da altri termini o altri significati che hanno solo
una relazione esterna, marginale con la parola da spiegare.
Allora diventa
sostenibile che il lat. domin-u(m) potesse significare inizialmente solo ‘coniuge, consorte,
marito’ in quanto doppio, cioè uno dei
due della coppia coniugale, come nel citato gr. dí-dym-on. Siccome il significato di ‘doppio’, in quanto risultato di una compagine può sviluppare a mio avviso anche
il connesso significato di ‘forte, grosso, grande, potente, ricco, ecc.’, probabilmente
si è avuto poi il significato di ‘padrone, signore (della casa)’ con la
precisazione della casa per effetto dell’influsso di lat. dom-u(m)
‘casa’, presente anche nel gr. dóm-os ‘casa’. Ora, come abbiamo visto nei due articoli Il municipio […] e Il
termine “armento”[…] presenti nel mio blog (cfr. mesi marzo-aprile 2014), il concetto di “muro, casa”
generalmente rimanda a quello di “insieme di pietre[5]
o tavole, struttura, legame, ecc.” e quindi è lo stesso che dà vita a quello di
”coppia” che è sempre un insieme, anche se di soli due
elementi. Allora un termine come il gr. des-pót-es ‘padrone della casa, signore, ecc.’
fatto derivare da *dems-pot-es sarà
anch’esso partito col semplice significato di ‘coniuge, marito’ in ambo i
membri (cfr. gr. dám-ar ‘moglie’,lat. pot-is ‘potente, capace’, gr. pos-is ‘sposo, marito’).
[1] Cfr. U. Buzzelli - G.
Pitoni, Vocabolario del dialetto
avezzanese, Avezzano-Aq 2002. L’espressione dù e donna ‘doppio gioco’ compare anche nel dialetto di
Borgorose-Ri: cfr. sito web www.prolocoborgorose.it/Tutto
Paesi/Tutto Torano/home page torano.htm .
[2] Cfr. G. Gemoll, Vocabolario Greco-Italiano,
Ediz.Sandron, Firenze, 1951.
[3] Cfr. L. Rocci, Vocabolario Greco Italiano, Soc.Editr.
Dante Alighieri, 1990.
[4] Cfr. M. Cortelazzo C. Marcato
I dialetti italiani, UTET, Torino,
1998.
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