venerdì 24 maggio 2019

Viva la ruca-dorma-corna-luca-ciammarùca!





Ho scovato un sito internet che riporta centinaia di filastrocche sulla lumaca, prese non solo dai dialetti italiani ma  anche da quelli di altre lingue, tra le quali figura persino il cinese e il giapponese. In tutto saranno più di 900 filastrocche[1].  L’autore è il musicista milanese Giovanni Grosskopf.  Mamma mia, è proprio una manna per quelli come me, inseguitori delle parole!

    Come osservavo nell’articolo La ciammaruca di alcuni giorni fa l’aiellese ciamm-otta  doveva alludere ad una voce *ciamma ‘lumaca’: infatti nel dialetto di Fara San Martino-Ch., come ho potuto constatare in una di queste filastrocche (n.286), la lumaca viene chiamata ciamma-lӧechë e ciamma-cornëDella voce corno abbiamo assodato, nell’articolo precedente, anche il significato di ‘lumaca’.  Resta da chiarire la seconda componente di ciamma-lӧechë la cui liquida iniziale /l/ non è stata scambiata con la liquida /r/, come supponevo in quell’articolo, ma evidentemente era originaria se guardiamo il siciliano mamma-lucco ‘lumaca’ e la voce santa-locìa ‘coccinella’ di Luco dei Marsi-Aq[2].  La coccinella è un coleottero a forma di semisfera, di colore rosso, e quindi il suo nome deve indicare un’idea di cavità o convessità, fermo restando comunque che all’origine esso si riferiva al concetto di “animale”. Anche l’etimo del nome cocc-in-ella, che si fa derivare erroneamente dal lt. cocc-inu(m) ‘di color rosso’, va cercato nella direzione di cavità. La componente santa- abbiamo visto che valeva anch’essa cavità. La cosa più interessante, che conferma quanto stiamo dicendo, è che con  lo stesso termine santalucia si indica in diverse parti d’Italia  un mollusco con conchiglia e con un caratteristico opercolo ellittico, chiamato occhio di santa Lucia, che serve all’animaletto per chiudersi e tapparsi  dentro il guscio. Esso ha un disegno a spirale da un lato e viene usato come grazioso ciondolo.  La componente -luc-ia in questi casi rimanda a radice simile a quella di ted. Loch ‘buco’, come ho mostrato in un articolo scritto molti anni fa sulla dea Angizia, che aveva un luogo di culto importante proprio nei pressi di Luco dei Marsi-Aq. 

    Ha attratto la mia attenzione, tra molte altre, una filastrocca di area dialettale tedesca in cui compare anche la parola Turm ‘torre’, una torre sulla quale saranno  scaraventati il padre e la madre della lumaca se non caccerà le solite corna (n. 680).  Ora, questa torre che cosa c’entra (a parte la considerazione che magari sarebbe stato più naturale minacciare di scaranventarli giù dalla torre)?  Il fatto è, secondo me, che si tratta anche qui, originariamente, di termine legato alla chiocciola.  Non bisogna assolutamente credere, come fanno troppo spesso i linguisti, che siamo dinanzi a situazioni magiche in cui può succedere di tutto nella mente degli uomini primitivi. Io credo che questa loro tendenza esistesse davvero, ma alimentata proprio dagli incroci delle parole che ora spero ci siano diventati familiari. Un primitivo può pensare che una lumaca diventi, ad esempio, una lucciola ma solo perché ad un certo punto un termine con il significato di lucciola entra nel suo vocabolario sovrapponendosi ad un altro simile o uguale indicante la chiocciola, trasformando così, come d’incanto, una chiocciola in una lucciola

Ritornando al Turm ‘torre’ di cui sopra, faccio notare che nel dialetto di Cittanova di Reggio Calabria la voce durmi-turi dignifica ‘chiocciola, lumaca’[3].  Esatto! diranno i soliti studiosi di antropologia! La lumaca è usa cadere in letargo per molti mesi e anche quando si sveglia è molto guardinga, esce solo in occasione di piogge. Ma essi dovrebbero spiegare anche perché nella cantilena della chiocciola suddetta compare la voce Turm che, almeno, assomiglia molto alla prima componente di questo nome durmi-turi.  La seconda componente –turi riappare in altre voci calabresi per ‘chiocciola’, come verma-turu e anche papa-turnu.  Secondo me invece la radice ritorna anche nell’emiliano dormi-dòr ‘tempia’[4], ad indicare la leggera depressione, a volte ben accentuata, di quella zona del viso. I linguisti spiegano il termine con la credenza popolare della tempia come sede del sonno: così un opercolo come un macigno viene messo sopra la possibilità di trovare un’altra spiegazione. Esso presenta la stessa radice di gr. tόrm-os ‘bucco’.  Le famose Thermo-pýlai ‘Termopili’, stretto passo tra la Tessaglia e la Locride, reso celebre da Leonida e i suoi trecento eroi, che letteralmente vale ‘porte (-pýlai) calde’, non possono che essere un incrocio tra l’aggettivo gr. therm-όs ‘caldo’ e un termine per ‘passo buco’, anche se ci fossero state sorgenti termali in loco. Lo conferma il gr. thérm-os ‘lupino’ e il gr. thermo-kýamos ‘sorta di legume’: apparentemente quest’ultimo termine sembra una descrizione precisa di un legume a metà strada fra il lupino e la fava (ritorna la fava!), mentre in realtà è un composto tautologico in cui si ripete il concetto generico di ‘rigonfiamento, rotondità’. Anche l’ingl. drum ‘tamburo’ e il ted. Tromm-el ‘tamburo’ credo rimandino ad una idea di ‘cavità, rotondità’.  

     Aggiungo qui delle voci abruzzesi che sono vere e proprie chicche[5]. Esse sono: tarmë ‘ghiaccio’, tarma-tùrë ‘ghiaccio’ e trëm-όnë ‘bombola, vaso metallico con pancia rotonda per metterci acqua a ghiacciare’.  I primi due indicano appunto lo strato di ghiaccio, che magari si forma in un recipiente esposto ai rigori della notte. Il secondo prende due piccioni con una fava, aggiungendo il significato di cavità, recipiente, che d’altronde era già contemplato dalla radice, in quanto copertura.  Anche l’it. tar-tar-uga per la quale ci sono state tante osservazioni e soluzioni, mi pare che non possa sfuggire alla base della  radice darm-, dorm- di cui sopra che è presente anche nell’it. tar-taro. Sempre in conseguenza del concetto di “cavità” nel dialetto di Rocca di Botte-Aq. la voce tartaro[6] significa ‘burrone’. La forma tart-uca ‘tartaruga’ mi sembra un accorciativo influenzato dal lat. tort-u(m) ‘torto’. Si ritrova, credo, anche nell’ingl. turtle ‘tartaruga’ e nell’it. trott-ola <*tortola, incrociato col verbo trottare.  Un’altra chicca è costituita dall’abruzz. tar-tόrë [7] ‘pevera’ il quale mi dà la certezza che l’abruzz. tra-tùrë ‘tiretto’ non deriva dal verbo tirare. Il Tartaro, baratro infernale ritenuto addirittura al di sotto dell’Ade, significava appunto nient’altro che ‘baratro’.

   Ma la storia non finisce qui.  In sassarese si ha la voce drum-icci-όlu ‘crisalide della farfalla’ (un bozzolo!) fatta derivare dal verbo drumiccià ‘dormicchiare’. Le cose si complicano e sembrano dar ragione ai linguisti con il logudorese sόnn-iga[8] ‘crisalide’ che apparentemente richiama il sonno, termine quest’ultimo che, nelle varie inflessioni dialettali, indica anche la tempia come il dormi-dòr emiliano, sopra ricordato.  La radice suop-no di lat. somn-u(m) e lat. sop-or-e(m) ‘sonno, sopore, letargo’, ben attestata in area indoeuropea, a me pare collegata, ad esempio, col ted. ent-schweb-en ‘dileguarsi’ e col medio alto tedesco ent-schweb-en ‘addormentare’. L’ingl swoop ‘calare, picchiare (di uccelli rapaci) dovrebbe essere della partita.  A me pare che si possa notare in queste radici un’idea di “movimento, distacco, caduta, scivolamento’. In altri termini la nozione di sonno dovrebbe essere agganciata a quella di ‘andare, cadere, allontanarsi, svanire’.  Non per nulla nelle varie lingue esistono espressioni come cadere tra le braccia del sonno, di Morfeo, ecc.  Quindi anche la radice dorm- potrebbe almeno essersi incrociata con quella di gr. drόm-os ‘corsa, viale coperto, ecc.’ ed indicare, all’origine, il venir meno di chi si addormenta.

    Come mai nelle lingue si incontrano con una certa frequenza termini che indicano contemporaneamente il sonno  e la tempia?  Certamente non a causa della credenza della tempia come sede del sonno, ma a causa di incroci di termini simili che diedero origine a quella credenza, la quale  di rimando  fece sì che, quando in una parlata fosse arrivato un termine di tal fatta, esso avesse più possibilità di altri indicanti la tempia di continuare ad esistere e di sopravvivere.  

      Anche in altre filastrocche sulla lumaca, della raccolta citata, compare l’idea del dormire, come in quella campana (Acerno-Sa.) del n. 268, dove si chiede alla lumaca: màmmeta addove rormì? (tua madre  dove dormì?). Meno male che qui è la madre a dormire, altrimenti gli antropologi vi avrebbero trovato la conferma della tendenza delle chioccciole a starsene rintanate a dormire. La stessa domanda viene rivolta alla chiocciola, ma col tempo del verbo al presente indicativo, in una cantilena abruzzese (n. 284), proveniente da Crecchio-Ch. 

    Ce ne sono veramente delle sfiziose, spero di poterle commentare, ma sono troppe!






[2] Cfr. G.Proia, La parlata di Luco dei Marsi, Grafiche Cellini, Avezzano-Aq, 2006.

[4] Cfr. Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani,UTET, Torino, 1998.

[5] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq. 2004.

[6] Cfr. M. Marzolini, “ … me ‘ntènni?”, Arti grafiche Tofani, Alatri-Fr, 1995.

[7] Cfr. D. Bielli, Vocabolario abruzzese, A. Polla editore, Cerchio-Aq, 2004.

[8] Cfr. Cortelazzo- Marcato, I dialetti italiani, UTET Torino,1998. 



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