Ho scovato un sito internet che
riporta centinaia di filastrocche sulla lumaca, prese non solo dai dialetti
italiani ma anche da quelli di altre
lingue, tra le quali figura persino il cinese e il giapponese. In tutto saranno
più di 900 filastrocche[1]. L’autore è il musicista milanese Giovanni
Grosskopf. Mamma mia, è proprio una
manna per quelli come me, inseguitori delle parole!
Come osservavo nell’articolo La
ciammaruca di alcuni giorni fa l’aiellese ciamm-otta doveva alludere ad una
voce *ciamma ‘lumaca’: infatti nel
dialetto di Fara San Martino-Ch., come ho potuto constatare in una di queste
filastrocche (n.286), la lumaca viene chiamata ciamma-lӧechë e
ciamma-cornë. Della voce corno abbiamo assodato, nell’articolo precedente, anche il
significato di ‘lumaca’. Resta da
chiarire la seconda componente di ciamma-lӧechë la cui liquida iniziale /l/
non è stata scambiata con la liquida /r/, come supponevo in quell’articolo, ma
evidentemente era originaria se guardiamo il siciliano mamma-lucco ‘lumaca’ e
la voce santa-locìa ‘coccinella’ di Luco dei Marsi-Aq[2]. La coccinella è un coleottero a forma di
semisfera, di colore rosso, e quindi il suo nome deve indicare un’idea di cavità
o convessità, fermo restando comunque
che all’origine esso si riferiva al concetto di “animale”. Anche l’etimo del
nome cocc-in-ella, che si fa derivare
erroneamente dal lt. cocc-inu(m) ‘di color rosso’, va cercato nella direzione di cavità. La componente santa- abbiamo visto che valeva
anch’essa cavità. La cosa più
interessante, che conferma quanto stiamo dicendo, è che con lo stesso termine santalucia si indica in diverse parti d’Italia un mollusco con conchiglia e con un
caratteristico opercolo ellittico, chiamato occhio
di santa Lucia, che serve
all’animaletto per chiudersi e tapparsi dentro il guscio. Esso ha un disegno a spirale da un lato e viene usato come
grazioso ciondolo. La componente -luc-ia in questi casi rimanda a radice
simile a quella di ted. Loch ‘buco’, come ho mostrato in un
articolo scritto molti anni fa sulla dea Angizia, che aveva un luogo di culto
importante proprio nei pressi di Luco dei Marsi-Aq.
Ha
attratto la mia attenzione, tra molte altre, una filastrocca di area dialettale
tedesca in cui compare anche la parola Turm ‘torre’, una torre sulla quale
saranno scaraventati il padre e la madre
della lumaca se non caccerà le solite corna (n. 680). Ora, questa torre che cosa c’entra (a parte la
considerazione che magari sarebbe stato più naturale minacciare di scaranventarli
giù dalla torre)? Il fatto è, secondo
me, che si tratta anche qui, originariamente, di termine legato alla chiocciola.
Non bisogna assolutamente credere, come fanno troppo spesso i
linguisti, che siamo dinanzi a situazioni magiche in cui può succedere di tutto
nella mente degli uomini primitivi. Io credo che questa loro tendenza esistesse
davvero, ma alimentata proprio dagli incroci delle parole che ora spero ci siano
diventati familiari. Un primitivo può pensare che una lumaca diventi, ad esempio, una lucciola
ma solo perché ad un certo punto un termine con il significato di lucciola entra nel suo vocabolario
sovrapponendosi ad un altro simile o uguale indicante la chiocciola, trasformando così, come d’incanto, una chiocciola in una lucciola.
Ritornando al Turm ‘torre’ di cui sopra, faccio notare che nel dialetto di Cittanova
di Reggio Calabria la voce durmi-turi dignifica ‘chiocciola, lumaca’[3]. Esatto! diranno i soliti studiosi di
antropologia! La lumaca è usa cadere in letargo per molti mesi e anche quando
si sveglia è molto guardinga, esce solo in occasione di piogge. Ma essi dovrebbero
spiegare anche perché nella cantilena della chiocciola suddetta compare la voce
Turm che, almeno, assomiglia molto
alla prima componente di questo nome durmi-turi. La seconda componente –turi riappare in altre voci calabresi
per ‘chiocciola’, come verma-turu e anche papa-turnu. Secondo me
invece la radice ritorna anche nell’emiliano dormi-dòr ‘tempia’[4],
ad indicare la leggera depressione, a
volte ben accentuata, di quella zona del viso. I linguisti spiegano il termine
con la credenza popolare della tempia come sede del sonno: così un opercolo
come un macigno viene messo sopra la possibilità di trovare un’altra
spiegazione. Esso presenta la stessa radice di gr. tόrm-os ‘bucco’. Le famose Thermo-pýlai ‘Termopili’, stretto passo tra la
Tessaglia e la Locride, reso celebre da Leonida e i suoi trecento eroi, che
letteralmente vale ‘porte (-pýlai)
calde’, non possono che essere un incrocio tra l’aggettivo gr. therm-όs ‘caldo’ e un termine per ‘passo
buco’, anche se ci fossero state sorgenti termali in loco. Lo conferma il gr. thérm-os ‘lupino’ e il gr. thermo-kýamos ‘sorta di legume’:
apparentemente quest’ultimo termine sembra una descrizione precisa di un legume
a metà strada fra il lupino e la fava (ritorna la fava!), mentre in realtà è un
composto tautologico in cui si ripete il concetto generico di ‘rigonfiamento,
rotondità’. Anche l’ingl. drum ‘tamburo’ e il ted.
Tromm-el
‘tamburo’ credo rimandino ad una idea di ‘cavità, rotondità’.
Aggiungo qui delle voci abruzzesi che sono vere e proprie chicche[5].
Esse sono: tarmë ‘ghiaccio’, tarma-tùrë ‘ghiaccio’ e trëm-όnë ‘bombola, vaso metallico con pancia rotonda per metterci acqua
a ghiacciare’. I primi due indicano
appunto lo strato di ghiaccio, che magari si forma in un recipiente esposto ai
rigori della notte. Il secondo prende due piccioni con una fava, aggiungendo il
significato di cavità, recipiente, che d’altronde era già
contemplato dalla radice, in quanto copertura. Anche l’it. tar-tar-uga per la quale ci sono state tante
osservazioni e soluzioni, mi pare che non possa sfuggire alla base della radice darm-, dorm- di cui sopra che è presente anche
nell’it. tar-taro. Sempre in conseguenza del concetto di “cavità” nel
dialetto di Rocca di Botte-Aq. la voce tartaro[6] significa
‘burrone’. La forma tart-uca ‘tartaruga’
mi sembra un accorciativo influenzato dal lat. tort-u(m) ‘torto’. Si ritrova, credo, anche nell’ingl. turtle
‘tartaruga’ e nell’it. trott-ola <*tortola,
incrociato col verbo trottare. Un’altra chicca è costituita dall’abruzz. tar-tόrë
[7] ‘pevera’
il quale mi dà la certezza che l’abruzz. tra-tùrë ‘tiretto’ non deriva dal
verbo tirare. Il Tartaro, baratro infernale ritenuto addirittura al di sotto
dell’Ade, significava appunto nient’altro che ‘baratro’.
Ma la
storia non finisce qui. In sassarese si
ha la voce drum-icci-όlu
‘crisalide della farfalla’ (un bozzolo!) fatta derivare dal verbo drumiccià ‘dormicchiare’. Le cose si
complicano e sembrano dar ragione ai linguisti con il logudorese sόnn-iga[8] ‘crisalide’
che apparentemente richiama il sonno, termine
quest’ultimo che, nelle varie inflessioni dialettali, indica anche la tempia come il dormi-dòr emiliano, sopra ricordato.
La radice suop-no di lat.
somn-u(m) e lat. sop-or-e(m) ‘sonno, sopore, letargo’, ben attestata in area
indoeuropea, a me pare collegata, ad esempio, col ted. ent-schweb-en
‘dileguarsi’ e col medio alto tedesco ent-schweb-en ‘addormentare’. L’ingl swoop
‘calare, picchiare (di uccelli rapaci) dovrebbe essere della partita. A me pare che si possa notare in queste radici
un’idea di “movimento, distacco, caduta, scivolamento’. In altri termini la
nozione di sonno dovrebbe essere
agganciata a quella di ‘andare, cadere, allontanarsi, svanire’. Non per nulla nelle varie lingue esistono
espressioni come cadere tra le braccia
del sonno, di Morfeo, ecc. Quindi
anche la radice dorm- potrebbe almeno essersi incrociata con quella di gr. drόm-os ‘corsa, viale coperto, ecc.’ ed
indicare, all’origine, il venir meno
di chi si addormenta.
Come
mai nelle lingue si incontrano con una certa frequenza termini che indicano
contemporaneamente il sonno e la tempia? Certamente non a causa della credenza della
tempia come sede del sonno, ma a causa di incroci di termini simili che diedero
origine a quella credenza, la quale di
rimando fece sì che, quando in una
parlata fosse arrivato un termine di tal fatta, esso avesse più possibilità di
altri indicanti la tempia di continuare ad esistere e di sopravvivere.
Anche in altre filastrocche sulla lumaca, della raccolta citata, compare l’idea del dormire, come in quella campana (Acerno-Sa.) del n. 268, dove si chiede alla lumaca: màmmeta addove rormì? (tua madre dove dormì?). Meno male che qui è la madre a dormire, altrimenti gli antropologi vi avrebbero trovato la conferma della tendenza delle chioccciole a starsene rintanate a dormire. La stessa domanda viene rivolta alla chiocciola, ma col tempo del verbo al presente indicativo, in una cantilena abruzzese (n. 284), proveniente da Crecchio-Ch.
Anche in altre filastrocche sulla lumaca, della raccolta citata, compare l’idea del dormire, come in quella campana (Acerno-Sa.) del n. 268, dove si chiede alla lumaca: màmmeta addove rormì? (tua madre dove dormì?). Meno male che qui è la madre a dormire, altrimenti gli antropologi vi avrebbero trovato la conferma della tendenza delle chioccciole a starsene rintanate a dormire. La stessa domanda viene rivolta alla chiocciola, ma col tempo del verbo al presente indicativo, in una cantilena abruzzese (n. 284), proveniente da Crecchio-Ch.
Ce
ne sono veramente delle sfiziose, spero di poterle commentare, ma sono troppe!
[2] Cfr.
G.Proia, La parlata di Luco dei Marsi,
Grafiche Cellini, Avezzano-Aq, 2006.
[4] Cfr.
Cortelazzo-Marcato, I dialetti italiani,UTET,
Torino, 1998.
[5] Cfr. D.
Bielli, Vocabolario abruzzese, A.
Polla editore, Cerchio-Aq. 2004.
[6] Cfr. M. Marzolini,
“ … me ‘ntènni?”, Arti grafiche
Tofani, Alatri-Fr, 1995.
[7] Cfr. D.
Bielli, Vocabolario abruzzese, A.
Polla editore, Cerchio-Aq, 2004.
[8] Cfr.
Cortelazzo- Marcato, I dialetti italiani,
UTET Torino,1998.
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