Lavandare
«Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi, che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.
E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene:
Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
quando partisti, come son rimasta!
come l'aratro in mezzo alla maggese.»
Il Pascoli evoca alla perfezione, in questo madrigale, il senso di
solitudine di una lavandaia abbandonata in paese dal suo uomo andato via. Il
verso finale "come l'aratro in mezzo alla maggese", cioè come
l'aratro abbandonato nel campo mezzo arato e mezzo sodo è un simbolo carico di
significati. Il maggese in italiano è 'il campo arato, dopo essere stato
lasciato incolto a riposare'. Nei dialetti suona "maésa" (Aielli) o
altrove, più spesso, "majésa". La voce è fatta derivare dal lat. Maius
'maggio', perchè solitamente (così si dice) il campo veniva arato di maggio. Ma
questo è un fatto secondario. Nella poesia siamo addirittura in autunno
(l'aratro è dimenticato nel campo tra il
vapor leggero della nebbia). Ora, la pronuncia aiellese di
"maesa" mi fa pensare che in origine tra le due vocali doveva esserci
la velare sonora -g-, come nello stesso
nome dialettale di Aéjje < Ag-ell-u(m) con pronuncia gutturale della –g-,
come del resto nell’it. maestro <
lat. magis-tru-(m).La radice quindi doveva essere *mag-, quella del gr. mass-ein 'impastare, preparare'. La maésa era quindi un terreno lavorato, preparato per
una nuova coltivazione.
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