Nell’ultimo articolo, commentando
la voce pera del dialetto di Trasacco-Aq, la quale ha due significati e
cioè ‘scoreggia del bambino’ e ‘ piccola pernacchia’, avevo osservato en
passant che i due significati, già
simili per il fatto che sia la scoreggia
sia la pernacchia fanno capo ad un
medesimo significato di ‘rumore (prodotto da fiato)’, presentano anche un’altra
indicativa similitudine: sottolineano, per così dire, la nozione di piccolezza delle due entità. In questi casi è moltissimo probabile che ci
sia stato un incrocio della voce pera con un omofono dal significato
di ‘piccolo, bambino’.
Ho capito in effetti da molti anni che
quando il significato di un termine è doppio o anche triplo, ma uno connesso
con l’altro per qualche tratto comune, oppure quando il significato è unico ma
bisognoso di due concetti per essere espresso come, non so, animale selvatico o baccello di fava, allora è sicuro che quel termine si è incrociato con un altro, nel lontano o recente passato. Se non riusciamo ad individuarlo, ciò dipende
dalla nostra ignoranza o dall’effettiva scomparsa in diverse lingue di quella
radice, cosa piuttosto rara. La
Lingua svolge spesso, in questi casi,
una formidabile funzione di memoria
storica.
Tornando al nostro pera credo si possa individuare il termine con cui
si è incrociato nel secondo membro di lat. pau-per-e(m) ‘povero’, di cui ho
parlato in un articolo di diversi mesi fa.
Solitamente i linguisti affermano che questo termine è composto dalla
radice pau- che forma diverse parole latine, greche e germaniche e che
indica il ‘venir meno, cessare, mancare, diminuire, diventare poco’. E su
questo non ci piove. Il secondo membro –per sarebbe però, secondo loro, la stessa
radice di lat. par-ĕre ‘partorire, produrre’ e l’intera parola
significherebbe ‘che produce poco’. e qui non ci siamo: “che produce”
richiederebbe a mio avviso una forma participiale presente simile a lat. par-ent-em ‘genitore, cioè quello che fa nascere, produce’,
e poi è errato pensare che l’uomo parlante, all’origine, non avesse parole più
usuali e semplici per esprimere il concetto di “poco, piccolo, povero, ecc.” e
che di conseguenza fosse in un certo senso obbligato a ricorrere ad un’espressione complessa, come
quella di “che produce poco” saltando
a piè pari, oltretutto, espressioni più congrue come “che ha poco”: un povero può essere tale, ad esempio,
perché nasce già senza beni da una famiglia disastrata o perché i fratelli lo
hanno surrettiziamente messo da parte, o perché, pur producendo molto, ha una
moglie scialacquatrice, o per altri motivi.
Non è un’osservazione di poco conto notare che tutti i sinonimi latini
di ‘povero’ sono semplici aggettivi o participi presenti, come in-op-e(m)
‘privo di mezzi’; eg-ent-e(m)
bisognoso’; ind-ig-ent-e(m) ‘bisognoso’; mendīc-u(m) ‘mendicante, manchevole’; tenu-e(m) ‘scarso, piccolo, poco’.
Purtroppo la formazione tautologica delle parole è quasi completamente ignorata
dai linguisti che, pertanto, non possono collegare il –per di lat. pau-per-em ‘povero’ con
l’antico norreno fār ‘poco, piccolo, taciturno’ <*pār, il quale ci assicura, tra l’altro, che un termine *pera ‘piccolo, poco’ (incrociatosi
con il pera del dialetto di Trasacco-Aq specializzandone il
significato in senso diminutivo) esisteva davvero: la Lingua non scherza, è
tremendamente seria nelle sue manifestazioni.
Per quanto riguarda il significato del lat. ves-per-tillo ‘pipistrello’ tutti i linguisti
si precipitano ad accostarlo al
significato di lat. ves-per-e(m) ‘sera’,
dato che il chirottero vola di sera e di
notte, e questa loro convinzione è rafforzata dal fatto che in latino e in
greco si incontrano termini come lat. noctu-a (m) ’nottola, civetta’ evidentemente
(per loro!) da lat. noct-e(m), e come gr.
nykt-erís ‘nottola’. In
articoli precedenti abbiamo visto quanti significati possono assumere le due
radici di lat. ves-per, compreso
quello di soffiare, spirare: ebbene l’animale ves-per-tillo
è probabilissimo che sia appunto un essere che respira, un anim-ale appunto. Il lat. noctu-a(m) ’nottola’ e il gr. nykt-erís ‘nottola’ hanno qualcosa in comune con la radice di lat. nict-are ‘battere le palpebre, ammiccare’
che in Ennio presenta, nella forma del verbo
nict-ire, il
significato di ‘mugolare’: la forza
che produce il movimento delle
palpebre, si è trasformata, a mio parere, in quella che produce il mugolio. Siccome gli etimi sono spesso
complicati perchè solitamente attingono a strati linguistici molto
lontani nel tempo, allora succede che l’uomo, che per natura cerca la
spiegazione delle parole che pronuncia, facilmente cade vittima di degli
incroci, soprattutto quando essi sembrano offrire una spiegazione
plausibile. Il problema è che anche i
linguisti, che purtroppo non hanno ancora scoperto fenomeni fondamentali della
Lingua, prendono talora per veri simili abbagli.
C’è ancora un’altra osservazione intelligente? da fare: come mai il movimento di lat. nict-are è riferito solo a quello delle palpebre? C’è una sola spiegazione accettabile a quanto mi sembra:
le parole hanno una memoria storica a volte molto profonda, come abbiamo visto,
e nel passato del latino o altre lingue dovette pur esistere un temine simile,
ad esempio, a *nicta col significato di ‘copertura, palpebra’, concetti legati
a quello di oscurità, notte, la quale ultima è ricondotta dai
linguisti ad una supposta radice indoeuropea *neg per ‘oscurità, notte’. In tedesco la palpebra è chiamata Augen-lid
letteral. ‘coperchio (-lid) dell’occhio’ come nell’ingl. eye-lid
‘palpebra’. In greco si ha bléphar-os ‘palpebra’, in dorico gléphar-os, simile a gr. gláph-yr-os ‘cavo, concavo’, gr. gláphy ‘caverna’: la palpebra è appunto un coperchio
avvolgente dell’occhio, come volevasi
dimostrare.
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