domenica 11 aprile 2021

Scapë-cioccà.

 


 

    Il verbo in epigrafe ci viene dal dialetto di Luco dei Marsi-Aq, e significa ‘tagliare di netto la testa’ o ‘colpire nettamente la testa’[1].  Il primo membro scapë- ormai suppongo che lo conosciamo a fondo avendolo incontrato diverse volte nei precedenti articoli, con vari significati tra cui spiccano quelli di ‘urtare’ e ‘tagliare, rompere’ connessi col got. skab-an ‘radere, tagliare’ e ingl. shave ‘radere’. 

    Il secondo membro –cioccà all’inizio ripeteva tautologicamente il significato del primo: in effetti esiste nei dialetti il verbo cioccà ‘tagliare integralmente una vite’, da cui credo si sia originato (attraverso l’inserimento di una –n- per incrocio con it. troncare) anche il centro-meridionale cionc-are ‘tagliare, segare, rompere’.  Ora l’etimo di cioccà ‘tagliare (la vigna)’ lo trascuro perché mi sembra, a lume di naso, abbastanza complesso.   Ma è fuor di dubbio che il verbo si sia incrociato con la voce dialettale (presente anche a Luco dei Marsi) ciòcca ‘testa’, apparentemente metatesi dell’altro dialettale  coccia ‘testa’. Ho detto apparentemente perché comincio a dubitare che spesso dietro queste metatesi possa starsene a dormire una radice autonoma, bella e buona, come spesso abbiamo visto succedere, negli articoli precedenti, a proposito delle false –s- sottrattive o estrattive o privative all’inizio di parola.

   Il verbo scapë-cioccà  è così molto istruttivo perché, se letto in filigrana, ci dà varie informazioni sulla sua storia, compresa quella dell’equivalenza tra tagliare e colpire: per tagliare, in effetti, bisogna premere con una certa forza e cioè colpire, soprattutto quando, nella preistoria, l’uomo ancora non possedeva strumenti affilati come i coltelli, ma solo pietre anche se levigate.

    La prima componente del verbo si ripresenta nell’aiellese-abruzzese-meridionale scapë-cull-àssë ‘scapicollarsi’, cioè ‘scendere di corsa per luoghi scoscesi, precipitarsi’ e simili.  Ora, a mio parere, dopo tutto quello che abbiamo capito, non mi pare affatto che il verbo possa derivare da capo e collo, come sentenziano i più.  Qui è presente non il capo ma la radice di scapë-  con tutta la  sua forza o spinta d’urto verso qualcosa; il collo, come tale, non c’entra per niente perché presumo che si tratti della radice di un verbo come lat. per-cell-ĕre ‘atterrare, abbattere, colpire, percuotere, ferire’, composto dalla prepos. per ‘per, attraverso’ e da un verbo non attestato nella forma semplice *cell-ĕre che pure doveva esistere.  Al perfetto la radice muta in per-cul-i ‘abbattei’, mutazione che va a fagiolo per il dialettale scapë-cull-àssë ‘scapicollarsi’, il cui secondo membro, quindi, non combacia con quello di lat. coll-u(m) ’collo’, a meno che anche la sua radice indicasse uno spingere specializzatosi  nella direzione ‘verso l’alto’ come in varie altre parole latine quali lat. coll-e(m) ‘colle’ (cfr.ingl. hill ‘colle’) e lat. colu-mn-a(m) ‘colonna’.  La spinta all’inizio poteva esercitarsi in diverse direzioni come nel lat. per-cell-ĕre ‘abbattere, atterrare’ di cui sopra.

    Naturalmente bisogna analizzare allo stesso modo l’it. scavezza–collo ‘discesa precipitosa, caduta rovinosa’ nelle cui due radici c’è, di nuovo, tutta l’irruenza possibile di un procedere furioso, e niente affatto il presunto valore specializzato di ‘romper(si) il collo’.  Attenzione! Scav-ezz-are (o scap-ezz-are) in italiano significa anche ‘potare la cima di un albero, abbattere la cima di un edificio, decapitare’, ed è fatto derivare erroneamente da it. cavezzo < lat, capiti-u(m) ‘apertura della tunica per infilarvi il capo <lat. caput’ oppure semplicemente ‘cappuccio’: insomma in questo scav-ezz-are sarebbe da vedere, secondo i linguisti, il ‘capo che viene tagliato  o rotto’  in virtù della –s- privativa e non, invece, la irruenza della solita radice scap- . Il dialettale scap-ëzz-όnë, però, significa solo ‘sberla, scappellotto violento’ nel dialetto di Luco dei Marsi-Aq [2].

    Bisogna fare molta attenzione, perché le espressioni italiane come scavezzarsi il collo o rompersi il collo, sono a mio avviso da considerare autonome rispetto a scavezza-collo ‘discesa precipitosa, persona spericolata, ecc.’ e rispetto a rompi-collo ‘ luogo scosceso, persona spericolata’.   Quest’ultimo è da intendere sempre come spinta precipitosa, perché il primo membro rompi- non ha il valore preciso di rompere, spezzare ma quello di prorompere, scagliarsi, lanciarsi  presente nel lat. rump-ĕre,lat. e-rump-ĕre, lat. pro-rump-ĕre.  Anche se sono molte le espressioni come rompi-scatole, rompi-ghiaccio, rompi-fiamma che potrebbero farci pensare il contrario; ma c’è a mio avviso una particolarità importante  che le contraddistingue: esse sono tutte inchiodate ad un significato preciso che non ci fa intravedere alcuna possibilità di considerarle come specializzazione di forme più antiche, cariche di storia, con significati generici. Esse sono, in effetti, creature in genere recenti o recentissime.



[1] Cfr. G.Proia, La parlata di Luco dei Marsi ,Grafiche Cellini Avezzano-Aq, 2006.

[2] Cfr. G. Proia, cit.

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