Il verbo è del dialetto di
Trasacco-Aq e significa ‘cimare, spuntare, togliere la cima di una pianta,
colpire qualcuno in testa’. Anche qui,
come nello scapë-cioccà di Luco dei Marsi-Aq, di cui nell’articolo precedente, si ha la conferma
che il significato di ‘colpire’ equivale a quello di ‘tagliare, cimare’;
e allora bisogna ricavarne il principio che le
due idee sostanzialmente sono le stesse, l’una derivata immediatamente
dall’altra, anche se noi oggi, vittime della precisazione a tutti i costi, a
cui ci ha abituati una Lingua che da millenni tende a specializzarsi, proprio
per essere più aderente e chiara, siamo spesso tentati a non condividere del
tutto il dato di fatto.
Ora, nel dialetto lucano di Gallicchio-Pz si incontra l’aggettivo e
sostantivo scapë-cërr-àtë ‘scapestrato, senza regole,
stravagante’. Che si tratti dello stesso
verbo non mi pare che si possa negare, ma il significato è piuttosto
diverso. Dinanzi a simili casi si rimane
un po’ sconcertati ma In verità la questione si può risolvere facilmente se si
parte dal concetto fondamentale di “forza, spinta” e lo si cucina in tutte le
forme possibili. Il ‘colpire’ e il
‘tagliare’ trovano unità nel concetto di “spinta”, concetto che a mio avviso
sta dietro anche a quello di “libero, fuggevole, staccato dalle regole”. Uno scapestrato
è libero di fare quello che vuole, rifuggendo da ogni norma, e pronto a correre
dietro i suoi capricci.
Negli articoli precedenti abbiamo sottolineato il valore di ‘forza
d’urto, spinta, fretta,ecc.’ della radice scap-, scaf- presente in questa componente scapë-, valore che deve ripetersi
tautologicamente nella componente cërr-, la quale in effetti potrebbe
avere la stessa radice kers del lat. curr-ĕre
‘correre’ e dare quindi al participio passato
scapë-cërr-àtë il significato di ‘corrivo, imprudente, sfrenato, scatenato’.
D’altronde anche per la prima componente scapë-
abbiamo citato, vedi caso, nell’articolo Scoppola di qualche giorno addietro, la voce abruzz. scap-ëlë che vale proprio ‘corsa’. E il
significato di ‘tagliare, cimare’ del trasaccano scapë-cërrà? La prima componente, carica della forza di cui parlavo prima, l’abbiamo
incontrata più volte nel gotico skab-an ‘tagliare, raschiare’, nell’ingl. shave ‘radere’: la seconda componente –cërrà è quella del gr. kéir-ein ‘tagliare, distruggere, rodere’, lat. cari-e(m) ‘carie’. Ora io
suppongo che questi vari significati che vanno dal correre al colpire al tagliare ecc. in realtà scaturiscano
tutti da quello originario di ‘spingere, far forza’ e così essi non ci
dovrebbero più ingannare con le loro diversità, talora apparentemente inconciliabili,
e con la loro presenza sparsa qua e là nelle varie aree indoeuropee.
Un’ultima interessantissima notazione circa l’origine di it. scap-estr-ato riportato da tutti al lat. capistr-u(m) ‘capestro’, sicchè lo scapestrato sarebbe chi si è liberato di
un capestro che lo teneva legato,
come un animale che spezza la cavezza
e fugge a scavezzacollo. Di questo
abbiamo già parlato a proposito di scavezza-collo
ed altre espressioni dell’articolo precedente, ed abbiamo visto che in realtà l’idea
che sta dietro queste espressioni non è quella di “liberarsi della cavezza, dal
cappio o dal capestro” ma quella di “liberarsi e basta”. Anche in questo caso lo scap-estr-ato non indica
chi si libera di un improbabile capestro
ma chi ha un furore interno che lo eccita e persino lo fa imbizzarrire perché spinto
inesorabilmente da un estro
irrefrenabile. Il lat. oestr-u(m) ‘tafano, assillo, ispirazione, foga’ è traslitterazione di
gr. oĩstr-os ‘tafano, passione violenta, furore’.
In greco c’era anche il verbo oistrá-ein ‘spronare, eccitare, rendere furioso’ che va a fagiolo per spiegare la seconda componente
di scap-estr-ato. La prima
componente è inutile che la spieghi, visto che
l’abbiamo incontrata e analizzata già diverse volte usque ad nauseam.
Il
termine estro può sembrare alquanto strano nei
nostri dialetti che usano in genere al suo posto l’espressione mosca cavallina. Ma esso doveva in
antico circolare abbondantemente se si usa, o si usava fino a poco tempo fa
(almeno ad Aielli, Cerchio, Celano), l’espressione cana gnèstra, cioè ‘cagna in calore’. La voce gnèstra deriva da ‘in estro’, con la
caduta della vocale –i-
e la palatalizzazione della –n-.
Secondo me è incerto, poi, se queste forme dialettali abbiano preso
dall’italiano o non piuttosto dal proprio antichissimo retroterra linguistico: scapë-cërrà non esiste
in italiano, come pure scapë-cioccà ‘tagliare,
colpire di netto la testa’ del dialetto di Luco dei Marsi-Aq, citato all’inizio.
La vita è fatta di compromessi, così una voce come scap-estr-arsi ha dovuto scendere a patti per sopravvivere,
cedendo il suo impagabile e sorgivo estro al lat. cap-istr-u(m)
‘capestro’, come se lo spirito furioso si potesse scatenare solo liberandosi da
una corda.
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