È un verbo in uso un tempo ad Aielli-Aq, che però non ho avuto la
fortuna di incontrare, finora, in altri dialetti: il significato è un po’
particolare, indica l’inclinarsi, il mettersi in posizione obliqua del
carico di una bestia da soma e del suo basto, rispetto alla schiena
dell’animale. Ciò succedeva evidentemente quando il carico era stato mal legato
al basto, o il suo peso era abbastanza squilibrato nei due sacchi o nelle due
ceste di destra e di sinistra. Per dare
una spiegazione visiva, guardando l’animale di fronte si vedeva l’insieme formato
dai due sacchi e dal basto pendere appunto più da una parte che dall’altra,
prossimo magari a rovesciarsi.
Allora, chi conduceva l’animale tenendolo per la cavezza e ancora non si
era accorto della cosa, incontrando qualcuno per strada si sentiva dire:”sì
scaiàtë!”,
espressione che, adattata in italiano, significa ‘hai scaiato!’, come se lo scaiare
fosse stata un’azione compiuta dal conducente; e in effetti la colpa, se pure
involontaria, era sua perché aveva caricato male la bestia (ammesso che questo
lavoro l’avesse compiuto lui e non altri al momento del caricamento), anche se
la causa immediata era stata lo sballottamento continuo del carico dovuto
al camminare.
In altro articolo scritto anni addietro mi pare di ricordare di aver
collegato questo verbo alla voce dialettale aiellese-abruzzese la caia
‘cestone di vimini’ la quale, di forme diverse, era utile a trasportare i
covoni di grano nelle aie o lo sterco essiccato nei campi. La parola deve derivare dal lat. cave-a(m) > *ca(u)i-a ‘recinto, cavità, alveare, gabbia,
cavea (del teatro)’, attraverso la caduta della semivocale latina –v-.
Ma scaià non mi pare che possa intendersi come verbo denominale da
caia
‘cesta’ giacchè esso non ha il significato di ‘togliere la caia’ o di ‘rompere la caia’ o simili, bensì quello molto
diverso dello squilibrarsi dei pesi
del basto; questo squilibrio, inoltre, si può verificare non solo con le caie
‘ceste’ ma con qualsiasi altro tipo di carico.
Non ho quindi nessuna difficoltà, considerate anche le molte parole di
natura greca pervenuteci in epoca preistorica, di cui ho parlato in articoli
specifici, a collegare il nostro scaià al gr. skai-όs (lat. scaev-um ‘sinistro’) ‘sinistro, occidentale, infausto, stolto, inetto, rozzo,
obliquo, tortuoso’ e spiego perché.
Il significato di ‘obliquo, storto’ fa al nostro caso: abbiamo detto che
l’insieme del carico e del basto appare inclinato
rispetto alla schiena dell’animale, in posizione obliqua dunque. Non si
scappa: la visione dell’inclinazione è netta da parte di chi guarda da davanti
o da dietro. Il significato di ‘occidentale’ non è dovuto, a mio avviso, dal
fatto che l’augure in Grecia guardava verso nord ed aveva così a sinistra l’occidente,
ma dal fatto che molto probabilmente l’aggettivo aveva avuto in lingue o
dialetti precedenti al greco il significato di ‘declinante, inclinato,
pendente’ in riferimento al sole che volgeva al tramonto. Il significato di infausto si ritrova nelle lingue un po’
dappertutto collegato con gli uccelli provenienti dalla sinistra, quando
l’augure guarda a nord, ma se l’augure guarda a sud gli uccelli provenienti da
sinistra sono propizi, favorevoli, perché arrivano da oriente. Insomma l’oriente è propizio perché vi nasce il sole, simbolo di vita, l’occidente è sfavorevole perché indica la morte del
sole. I significati di ‘stolto, rozzo,
inetto, ecc.’ credo che si siano sviluppati da quello di ‘obliquo, storto’.
Nel
dialetto di Aielli esiste un altro verbo che apparentemente potrebbe dare
qualche fastidio alla spiegazione che ho dato sopra. Esso è il riflessivo ‘ngai-àsse (col partic. passato ‘ngai-atë) che indica la condizione di chi per
età o altro cammina a mala pena oppure si tiene in piedi a mala pena. Dopo averci riflettuto abbastanza ho
tratto la conclusione che esso è composto dalla prepos. in-, che qui ha un
valore intensivo, e dal verbo greco khalá-ein ‘allentare, abbassare, rendere floscio’ ma anche ‘diventare floscio,
perdere la propria tensione, cedere’. In
italiano il verbo greco ha dato calare:
si consideri l’espressione il vento è
calato , cioè ha perso la sua forza.
Sicchè uno che si è ‘n-gai-àtë è uno che ha perso il suo vigore. Ah! dimenticavo! La liquida –l-
di *‘n-gal-atë si è palatalizzata, come avviene in tantissimi casi nei
dialetti: ne cito solo uno, il luchese (Luco dei Marsi-Aq) cùjë per ‘culo’. Per capirci meglio, il
valore intensivo del prefisso in- di cui ho detto più sopra è quello di lat. in-can-esc-ĕre ‘incanutire, imbianchire’ rispetto al semplice can-esc-ĕre ‘imbianchire’ o quello di lat. im-minu-ĕre ‘diminuire’ rispetto a minu-ĕre ‘diminuire’, ecc.
Oh se, nella lontana adolescenza, quando nella
scuola media di Celano leggevo con passione e stupore le imprese di Achille,
Ettore ed altri eroi nell’iliade di Omero tradotta dal Monti, qualcuno mi
avesse detto che le famose porte Scèe (Skai-ái), cioè porte occidentali della città di Troia, condividevano
la radice con il verbo scaià del mio paese!
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