Lettera a Riccardo Bertani , linguista contadino Aielli 31/03/08
Caro Bertani, Le sto scrivendo questa lettera per proporLe la mia interpretazione del termine campeginese sizora ’forfecchia, forficula’< lat. cisoria. Sono indotto a questo non certamente per fare sfoggio della mia bravura o per accanirmi contro il suo punto di vista anche relativamente a questo termine come per quelli da me già analizzati nella lettera precedente, ma con l’unico scopo di fare emergere quella che a me pare la ‘‘verità’’ senza aggettivi. Le sarei pertanto molto grato se mi facesse sapere ugualmente il suo punto di vista, anche se dovesse essere ancora diverso dal mio. Dalle nostre parti l’insetto in questione è noto come an-gìsëla, termine che, sin da quando lo appresi da bambino, ha sempre richiamato alla mia mente l’altro termine angìnë ‘uncino’ per la somiglianza ‘metaforica’ di questo oggetto ai due cerci dell’animaletto. Ora, è successo che il suono originario del vostro nome dell’insetto, simile a quello della seconda costituente (-gisëla) del nostro nome, mi ha fatto capire che tra i due deve esserci stato in passato più che un incontro casuale. La costituente –gisëla in realtà dovette all’inizio partire proprio da una forma cis-òra (lat. cis-oria ’cesoie’) da cui deriva anche il vostro nome. E questo perché il termine, diventato evidentemente opaco (cioè ‘oscuro’ quanto all’etimo) per il comune parlante, come è attestato dal fatto che da noi attualmente l’unico termine dialettale corrispondente a 'cesoie' è forbëcë ‘forbice/i’, era in cerca di un’altra motivazione che ne giustificasse il nome (eh! il desiderio tutto umano di conoscere i propri natali si ritrova tal quale nel comportamento delle parole!). Inizialmente deve esserci stato un incrocio con le forme latine *an-cidere 'uccidere', in-cile ' canale di scarico' che avrà prodotto una forma an-cisòra e successivamente si è avuto l'incrocio col suddetto angìne 'uncino' con la ritrazione dell'accento tonico dalla sede di cisòra a quella di angìne. La sonorizzazione della -c- preceduta da -n- è normale nell’abruzzese e si ritrova in tanti altri termini; la parte finale -ëla è dovuta all’allineamento del termine con quelli che finiscono in quel modo come rénn-ëla ‘rondine’, cràst-ëla ‘tipo di uccello’, sétëla ‘setola’, ecc. Le sillabe finali non accentate, inoltre, sono spesso soggette a deformazioni come nella serie quatrà-ne, quatrà-le, quatrà-re ‘ragazzo’. . La parola abruzzese ánghë ‘ganascia’, inoltre, era lì pronta a rafforzare il senso di angìsëla, nella direzione di qualcosa che stringe come gli elementi di una tenaglia. Quindi si deve constatare questo fatto importantissimo: quel nome (cisòra) che sembrava trovare la motivazione unica, nel suo dialetto emiliano, nelle ‘forbici’ o ‘cesoie’, poi sembra trovarne un’altra, sempre unica, nel mio dialetto abruzzese, nell' ‘uncino’ o nella ‘ganascia’. Allora si deve con rigore dedurre che questi significati di superficie sono solo specchietti per le allodole che ci ingannano e ci precludono la retta strada per l’interpretazione finale e vera. Va da sè che questi stessi significati hanno dato il via alla credenza così diffusa in Europa della tendenza dell'insetto a penetrare all'interno dell'orecchio per arrivare addirittura a deporre le uova nel cervello. Tanto che in Germania uno dei nomi dell'insetto è Ohr-zwicker 'punzecchiatore dell'orecchio', voce che si è formata, a mio parere, su una precedente simile a quella dell' ingl. ear-wig' forfecchia', letteralmente ’insetto (wig< a.ingl. wicga ’insetto’ ) dell’orecchio’, favorita da una possibile forma dialettale * Ohrs-wig intesa quindi come Ohr-zwick-er; altro nome tedesco è Ohr-wurm, letter. ‘verme dell’orecchio’, significato che punta ugualmente su un “orecchio” che però non c’entra nulla con l’insetto e le sue abitudini e quindi io sono certo che deve trattarsi di rietimologizzazioni di materiale linguistico precedente . Ora, ponendo questa prima componente Ohr- al posto di quella della prima sede di ear-wick, si ottiene il termine *Ohr-wick, il quale assuona meravigliosamente con il lat. (f)or-fic-em ‘forbice’, termine che nella sua forma diminutiva indica in italiano l’insetto in questione. Ma allora anche qui i significati che appaiono in superficie, siccome non combaciano in nulla, non ce la raccontano giusta sull’etimo! che meravigliosa e strana avventura è mai questa!? Io penso di conseguenza che il lat. (f)or-fic-ulam sia stato anch’esso una reinterpretazione di una forma precedente *or-fic-ulam, senza la spirante iniziale, magari aggiunta successivamente per etimologia popolare, la quale veniva per altro ad essere giustificata sia dalla perfetta corrispondenza tra il concetto di ‘forbice’ e la forma dei cerci dell’insetto, sia dalla presenza in latino di termini che mantengono lo stesso significato pur alternando, all’inizio, la spirante f- con l’aspirata h-, la quale ultima poteva anche cadere completamente nella pronuncia popolare (cfr. fariolus/hariolus ‘indovino’; folus/holus ‘legume’; forda/horda ‘gravida’; edus, haedus/fedus ‘capretto’; ecc.). D’altronde i nomi inglese e tedesco insistono, nella prima componente, su una forma priva di spirante rispondente ai rispettivi termini per ‘orecchio’, come similmente avviene per la seconda componente del francese perce-oreille ‘forfecchia, letter. buca-orecchio’, nonché per il nome scientifico forficula auri-cularia. Di conseguenza è molto probabile che anche –ora, seconda componente di cis-ora, non debba essere considerato semplice suffisso della radice cis- (tagliare), ma perfetto sosia proprio delle rispettive componenti inglese, francese e tedesca, le quali però non dovevano inizialmente indicare l’ ‘orecchio’ ma, semmai, l’ ’insetto, l’animaletto’, come del resto tutte le altre componenti. L’anglosassone wicg significa ‘cavallo’: esso, affiancato all’ant. ingl. wicga ‘insetto’, sopra citato, fa capire che il suo significato originario doveva essere quello generico di ‘animale’. Anche la componente cis-, pertanto, doveva avere a che fare inizialmente non col significato di ‘tagliare’ ma con termini dialettali come ces-essa, ces-ena, ces-eno, cis-ato, designanti vari tipi di uccelli. La componente –ora può trovare rispondenze, ad esempio, nel greco or-nis ‘uccello’, ted. Aar ‘aquila’, ecc. Ma forse la seconda componente di sardo cug-urra, cuc-urra 'forfecchia, bruco' è più direttamente coinvolta, se si pensa allo spagnolo cuca 'bruco'. Il francese perce-oreille ha tutta l’aria di una “spiegazione” di un originario cis-ora inteso come ‘taglia-, buca-orecchio’, la cui prima componente tendeva a diventare opaca per il comune parlante francese. Ma potrei sbagliarmi di grosso perchè questi nomi composti sono sempre tautologici. L'altro nome tedesco per 'forfecchia', e cioè Ohr-kneifer 'punzecchiatore dell'orecchio' tenderei a considerarlo, contrariamente alle apparenze, non un doppione dell'altro e ottenuto con l'introduzione del verbo kneifen 'pizzicare', ma un composto tautologico di due costituenti di cui la seconda è in diretto rapporto con il greco knip-s 'sorta di formica, insetto, bruco (della scorza degli alberi)', il quale non è detto che abbia lo stesso etimo del verbo tedesco citato, ma piuttosto quello di 'animale'. E uno dei luoghi preferiti dalla nostra forfecchia è proprio l'interno della corteccia.
Caro Bertani, io debbo ringraziarLa perché , facendomi conoscere il termine sizora del suo dialetto, ha provocato tutto il precedente ragionamento che mi ha portato a capire quello che, secondo me, è il vero etimo del nostrano angìsëla 'forfecchia' e delle altre parole di cui sopra. L’etimo di ogni termine è tanto più certo e sicuro quanto più numerose sono le parole coinvolte nella interpretazione, tratte magari da lingue e da culture diverse, cosa che garantisce che la soluzione trovata non è monocolore e monoculturale, ristretta cioè ad un punto di vista che, per quanto ragionevole, è pur sempre limitato e manchevole perché fortemente condizionato dagli incroci a cui facilmente il significato di quel termine va incontro nella lingua in cui esso è approdato, dopo un cammino più o meno lungo e vario nella preistoria. Pertanto ogni interpretazione che prescinda da questa concezione della lingua come ricettacolo di vocaboli provenienti dalle più disparate direzioni, portando significati diversi da quelli che possono surrettiziamente assumere nella lingua d’arrivo, è inadeguata, secondo me, a comprendere la natura profonda e cosmopolita delle parole stesse che certissimamente vengono, come Lei sa, da molto molto lontano sia nel tempo che nello spazio, anche se sembrano “nostrane” in superficie. Come si può capire da questo stupendo esempio, l'etimo di ogni parola, non può avere pace fino a quando non va a posarsi in tutta naturalezza sul significato di fondo che indicava direttamente la cosa designata, non lasciandosi ingannare dalle mille trappole metaforiche fatte scattare abbondantemente dagli incroci inevitabili tra le parole lungo la strada che esse percorrono per arrivare fino a noi dalla notte della remota preistoria. La saluto cordialmente in attesa di una gentile risposta
Pietro Maccallini
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