mercoledì 10 giugno 2009

Toponimo Roma

Commento dell’articolo di Massimo Pittau Etimologia del toponimo "Roma"
apparso nel sito internet:
http://www.pittau.it/comune/roma.html .


Indipendentemente dalla verità o meno della proposta etimologica del Pittau, trovo che il grosso delle sue obiezioni alla posizione espressa dal Migliorini, il quale suppone l’eguaglianza Roma=ruma ‘mammella’, non è così solido come effettivamente potrebbe sembrare. Nella sua 1° obiezione il Pittau sostiene che nella zona dove sorse Roma esistevano almeno altri sei colli, di forma più o meno simile a quella del Palatino, che avrebbero, quindi, dovuto ricevere lo stesso appellativo . Questa affermazione secondo me sarebbe valida solo nel caso in cui si supponesse un piano temporale sincronico su cui andassero a depositarsi, nello stesso torno di tempo, i toponimi relativi ai colli in questione. Bisogna però tener conto anche dello smisurato lasso di tempo, intercorso dal Paleolitico in poi, il quale per forza di cose avrebbe corroso e dilavato gran parte di quei nomi, sostituendoli con altri, secondo i capricci degli avvicendamenti di popoli e lingue e dialetti nella zona interessata . La sua affermazione, d’altronde, ha anche una parte di verità convalidata dal toponimo Rem-uria, vetta dell’Aventino da dove Remo avrebbe tratto gli auspici: io infatti sostengo che le radici dei nomi di Rom-olo e Remo siano due varianti, sopravvissute nei nomi del mito, indicanti lo stesso referente, e cioè il concetto di ‘colle, cima’ indipendentemente dalla forma a mammella o meno, cosa, quest’ultima, estremamente importante che cercherò di focalizzare successivamente. Ecco, dal ‘dilavamento’ attraverso i millenni di cui parlavo prima, sono sopravvisuti solo questi due allotropi di ruma , fatto che però confermerebbe l’ipotesi del Migliorini che riferisce il termine all’altura del Palatino e non alle anse del Tevere nei pressi di Roma come il Pittau sostiene nel suo articolo. Altrove si incontrano ‘sporgenze’ come Monte Rama (prov. di Genova), Capo Rama (prov. di Palermo), Monti Rem-ule (prov.di Nuoro), Monte Rom-anella ( Luco dei Marsi-Aq.), che tra l'altro mi fanno pensare che il lat. ramus ‘ramo’( si ricordino i ‘rami’ del ficus ruminalis tra cui si sarebbe impigliata la cesta dei gemelli) sia semplice variante delle radici precedenti, contrariamente a quanto i linguisti suppongono per l’etimo di ramo: in effetti un "ramo" è qualcosa che si protende lateralmente o verso l’alto come un "monte", parola che in lat. offriva tra l’altro anche le varianti mentum 'mento' e ment-ula 'organo sessuale maschile'. In greco e in tedesco si incontrano vocaboli che significano contemporaneamente ‘sporgenza' e ‘ramo, pollone’.
Quanto mi accingo a dire sul nome latino Val-entia, che secondo vari autori latini avrebbe designato la Roma preetrusca, cancella il problema costituito dalla forma a ‘mammella’ messo in evidenza dalla 2° obiezione di Pittau al Migliorini. A mio parere Val-entia non poteva essere, come egli sostiene, la traduzione latina della pseudoetimologia di Roma che vuole che essa derivi dal greco rhόmee ’forza’ , anche perchè questa ha tutta l’aria di una voce dotta che apre uno scenario del tutto diverso da quello della Roma primitiva e pastorale. Il termine ruma inteso come ‘colle’ e il termine rhόmee potrebbero reclamare un’origine comune solo nel senso che un ‘colle’ è l’espressione di una ‘forza’ che si protende verso l’alto, ma questa è un’altra storia. La possibilità, dunque, che il nome Val-entia sia la traduzione del suddetto nome greco è in primo luogo negata, in qualche modo, dall’esistenza, nell’antichità, di numerose altre città di tal nome, il quale mi pare, poi, una semplice variante di Pal-atium oppure di Pall-ante (quante forme simili!), leggendario abitatore del Palatino di origine greca, nome dell’avo e del figlio di Evandro, secondo il mito. Questa mia ipotesi viene ulteriormente confermata dal nome della collina della Vel-ia, contigua al Palatino e fatta spianare da Mussolini per dar luogo alla via dei Fori Imperiali. Anche nella mia Marsica, si ha un Monte Vel-ino con il paese di San Pel-ino (il nucleo vecchio del paese è su un’altura), come anche, ad Aielli, dove vivo, un Monte Costa Pel-ara e una contrada in forte pendio chiamata Pel-ara, oltre ad altra contrada, che costituisce il fianco di una collina, chiamata Vella. Si incontrano, sempre nella Marsica, anche varianti con la /a/ radicale come Colle delle Pagli-ara (da una precedente forma *Pale-ara oppure *Pal-ara, oppure *Pall-ara), a Tagliacozzo. E non c’è possibilità di sostenere che le ‘alture’ cui fanno riferimento queste radici debbano essere per forza ‘rotondeggianti’. Alcuni le vorrebbero ridurre addirittura a delle ‘pale’ (cfr. le Pale di San Martino, nelle Dolomiti), ma l’oronimo è diffuso in tutta Italia a designare monti di diversa forma e trova conferma nel sardo logudorese pala ‘collina, declivio’. Mi sembra evidente che si tratta della stessa nota radice bal/bel, pal/pel oppure val/vel diffusa in tutta Europa ed oltre. La mia idea è la seguente: ogni appellativo per ‘monte’ contiene nel suo seno il concetto di ‘protuberanza (anche la più aguzza), mammella, globo, rotondità’ e, specularmente, quello di ‘cavità’; così anche un termine per ‘mammella’ contiene dentro di sé tutti gli altri, e non per via metaforica soltanto. Pittau ha ben visto, nella nota n. 25 del suo articolo, il rapporto tra ruma ‘mammella’ e rumen ’gola, esofago, ventre’, quando osserva che quest’ultimo non è altro che un ‘seno cavo, sacca’, ma questo metodo interpretativo andrebbe allargato, a mio avviso, alla radice di Pal-atium (cfr. lat. pale-ar ‘rumine’) e a tutte le altre. Il trapassare, all’interno di una stessa radice, dal significato di ‘punta, testa, altura, corno’ a quello di qualcosa di ‘rotondeggiante’ è meravigliosamente attestato, a mio avviso, da oronimi come quelli numerosi delle Alpi nell’area germanofona elvetico-austriaca seguiti dall’appellativo Horn ‘corno’, se solo li si mette a confronto con quelli della limitrofa area italofona come Monte Corona di Redorta (Val Verzasca, Svizzera), Monte Corona di Groppo (Val d’Ossola), Monte Plan de Corones (prov. di Bolzano), Monte Corna Blacca (prov. di Brescia), Monte Corna di San Fermo (Val Camonica), ecc., oltre a quelli preceduti dall’appellativo Corno. In effetti il greco korόone, oltre ad indicare qualsiasi oggetto curvo, significa anche ‘sporgenza, apofisi’ mostrandosi così pronto ad essere usato anche nel significato di ‘corno’ o di ‘monte’, come nei casi precedenti e nel sardo corona ‘acrocoro,roccia, balza’
Nella obiezione 3° Pittau afferma che “ è molto difficile supporre che al Palatino sia stato attribuito il nome di ruma ’mammella’, dato che il colle aveva già, da epoca molto antica, il suo nome, quello di Palatium oppure mons o collis Palatinus appunto”. Ma in questo caso egli non tiene conto del fatto che il nome più antico poteva essere proprio quello di ruma che, una volta passato ad indicare l’insediamento umano, apriva le porte ad altri appellativi che indicassero il ‘colle’ rimastone così sguarnito. Inoltre la casistica toponomastica ci fa supporre che molti dovettero essere i nomi relativi ad un medesimo referente geografico, come accennavo più sopra: il fiume Liri, tanto per fare un esempio, in passato aveva un nome diverso in ogni paese che attraversava. Anch’egli accenna ai nomi Rum-on e Alb-ula del Tevere, ma ne esistevano almeno altri tre, e cioè Serra, Tarentum, Volturnus, il che dovrebbe indurre a pensare che molti altri ne siano risuonati nel lontano passato nella stessa area di Roma e lungo tutto il suo corso.
A proposito del nome Rum-on, da Pittau inteso come ‘mammellone’ e riferito ad un ansa del Tevere, egli sostiene che il termine presenta il suffisso –on- di matrice tirrenica ed etrusca di “prevalente valore accrescitivo” ma forse gli è sfuggito l’idronimo Tever-one, riferito al corso inferiore dell’ Ani-ene (ma anche nome di un affluente del Topino in Umbria), fiume molto più piccolo del Tevere, e così non ha potuto fare l’utile raffronto con Tiber-inus, altro nome del Tevere e del suo dio: il suffisso –inus , di prevalente valore diminutivo, in questo caso sembrerebbe male usato non appena lo si metta a fianco di quello di Tever-one . Senonchè la realtà linguistica dei tempi lontani doveva essere molto più varia e complessa di quanto si pensi. Ad Arsoli, infatti, paese lungo il corso dell’ Ani-ene, si incontra una Fonte Un-ica, la quale, oltre a rimandare all’umbro une ‘acqua’ delle Tavole Iguvine, ci offre a mio avviso un’altra variante di -on-, e di –in- varianti a loro volta di accadico enu ‘fonte’, semitico ain ’fonte’, a non voler prendere in considerazione quelle presenti nello stesso nome Ani-ene, nel torrente An-ia (Garfagnana) e nel torrente Agna (fra Pistoia e Prato). La voce Rum-on, pertanto, mi pare che si possa intendere pacificamente come nome del Tevere perché essa si inserisce a pennello in questo quadro che presenta una pletora di pseudosuffissi ricorrenti in molti altri idronimi dell’area toscana e di altre, come nei nomi dei due fiumi Om-br-one in Toscana e in quello del torrente Form-one, affluente dell’Orcia: il fiume Br-una (Grosseto) si inserisce alla perfezione in questo gioco ad incastro dei vari nomi, presentando nel primo membro del nome una variante Br- di una nota radice mediterranea per ‘acqua, corso d’acqua’ , e cioè ver-, var-. Così la radice di Rum-on, che poteva servire ad indicare il ‘protendersi’ di un colle, trapassa con grande naturalezza ad indicare il ‘protendersi’ e scorrere delle acque di un fiume o di una fonte: ricorre anche qualche Fonte Rom-ana in toponomastica.
L’osservazione, nell’obiezione 4°, che il nome di Roma avrebbe dovuto assumere la forma plurale Romae, data la presenza di due ‘mammelle’ nel Palatino, e cioè il Germalo e il Palatium, credo che debba cadere insieme al significato ‘specializzato’ del presunto ‘colle a forma di mammella’.
La questione dell’antica Porta Romana, situata nell’’angolo nord-ovest del Palatino, costringe ad una riflessione più attenta. Se nelle mura di Roma quadrata esisteva una Porta Romana, conseguentemente doveva esistere anche una via Romana che usciva dalla città, ma, forse, continuava anche all’interno di essa mantenendo lo stesso nome. In un mio opuscolo di molti anni fa io già avevo inteso il ficus ruminalis o rumina del mito ( dove si sarebbe impigliata la cesta dei due gemelli Romolo e Remo) come vicus Rumina, cioè vicus Romanus in riferimento all’antico insediamento sul Palatino. Ma ora la spiegazione non può fermarsi qui. E bisogna sempre tener conto della dimensione diacronica dei significati. In effetti il lat. vicus è messo dai linguisti in relazione col greco (w)oĩk-os ‘casa’. Il termine avrebbe indicato prima l’insediamento ai lati di una strada, un rione, e poi la strada stessa, cioè il ‘vicolo’, a parte la coincidenza di questa radice con quella di lat. via, la stessa di ted. Weg 'strada'. Di conseguenza un appellativo vicus/ficus poteva effettivamente riferirsi, in questo caso, all’antico insediamento sul colle, costituito di non molte capanne o casupole disposte lungo l’unica via principale, la quale si trovava ad avere lo stesso nome del villaggio, non essendoci naturalmente le necessità odonomastiche odierne, anche in un paese più o meno grande. Siccome, poi, lungo la riva sinistra del Tevere, a partire almeno dai guadi dell’isola tiberina e fino alla foce, doveva correre una strada più o meno importante, sarebbe logico immaginare un diverticolo che conducesse al vicus Romanus sul colle e che probabilmente avesse anch’esso quel nome, perché in fondo, come abbiamo detto, poteva considerarsi il prolungamento della strada dell’insediamento stesso. Se fossimo ai nostri giorni, al bivio vedremmo un cartello con la scritta vicus Romanus, riferita in blocco all’insediamento e alla strada, anche per la coincidenza e sovrapposizione, come dicevo più sopra, della radice di lat. via su quella di lat. vicus.
Un’ultima notazione la riserverei alla valletta dell’ Inter-montium tra le due vette del Palatino. L’atteggiamento comune dei linguisti, dinanzi a questo genere di toponimi, è di non vedere alcuna difficoltà nella loro interpretazione, perché essi sarebbero ‘trasparenti’, senonchè ai miei occhi una simile spiegazione appare in prima istanza un po’ ridicola perché essi indicherebbero una valle ricorrendo all’ausilio del concetto opposto, quello di monte, come se chi mise per primo quei nomi non possedesse ancora una parola per indicare direttamente la valle, cosa assurda ; in seconda istanza ricorderei che proprio sul Palatino, e anche nel foro vicino al Lapis niger, esisteva un locale sotterraneo, il mundus, una sorta di ‘conca’ riproducente alla rovescia la ‘conca’ celeste, presso la quale si svolgevano riti antichissimi e un po’ misteriosi. Quel termine doveva aver avutto il significato di ‘fossa, cavità, valle, ecc.’. Nelle Alpi svizzere, infatti, si trova una Vallée d’Entre-mont: quale nome potrebbe essere più ridicolo se dovessimo interpretarlo come comunemente si fa? Ma come mai non si riflette sul fatto che lì tutte le valli si trovano fra alti monti e che, quindi, quel nome sarebbe a dir poco superfluo o inutile? E come mai non si riflette sul fatto che, secondo questo modo di nominazione, qualsiasi valle, anche quelle che si trovano in pianura, dovrebbe essere denominata ‘tra-monti’, visto che i bordi di ogni valle sono paragonabili ad alture, simili alle due del Palatino? Esistono toponimi simili riferiti a ‘gole, valichi’, concetti vicini a quello di ‘cavità’, come la Gola dei Tre Monti a Popoli (Pescara) e il paesino di Tre-monti, frazione di Tagliacozzo(L’Aquila), il cui nucleo antico è nei pressi di un valico. Credo che siano utili alla bisogna, per spiegare il secondo membro di Inter-montium, anche il ted. Mund ‘bocca’, in quanto ‘cavità’, il lombardo munt ‘baita’(cfr. AA. VV. Popoli e civiltà dell’Italia antica, VI, p. 184, 1978) e l’espresione gallurese fundu di monti ‘fondovalle, vallata’. Il primo membro di Inter-montium dovrebbe in questo caso essere stato sostantivo, in qualche parlata precedente al latino storico, ad indicare ‘l’interno’ e cioè una ‘cavità, valle’. La componente In-ter è variante, a mio parere, di greco án-tron, lat. an-trum ‘antro’ in cui opera il concetto più generico di ‘cavità’, riscontrabile in quello di ‘valle’.

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