Mi sembra che la mia concezione della genericità dei significati di fondo delle parole sia in qualche modo sostenibile anche attraverso quello che pare rivelarsi come un errore di ragionamento fatto dalla filosofia a partire dai Greci, circa la natura del concetto o idea , la quale, secondo l’empirista Locke, sarebbe il derivato dell’esperienza che offrirebbe all’intelletto, inizialmente una tabula rasa, i dati sensoriali provenienti dalle cose, molteplici e diverse. Si sostiene, insomma, seguendo la stessa linea logica di Socrate, che vedendo molti cavalli particolari la mente astrae dai dati prodotti dalla sensazione quello che di comune essi hanno e forma l' idea o il concetto di cavallo, la "cavallinità", la quale però, secondo Locke, è semplicemente un’astrazione della nostra mente, non ha consistenza di verità metafisica e non spicca il volo verso nessun iperuranio. Ma a me pare che non si potrebbero conoscere i cavalli singoli e particolari senza avere già bella e pronta nella mente proprio l’idea di cavallo in generale. Come si può stabilire che questo è un albero di noce, diverso dal ciliegio, pioppo, ecc. se prima non si ha nella mente l’idea generale di albero? Mi pare che, senza di essa, non si potrebbe nemmeno riconoscere alcunchè come albero. Si potrebbe obbiettare che quello che l’uomo onomaturgo vide, in prima istanza, non erano degli alberi bensì delle cose o cosi: ma si tratterebbe sempre di un’idea, anzi di un’idea rivelatrice, per la sua estrema genericità, della effettiva situazione in cui l’uomo si trovò all’inizio dello sviluppo del linguaggio, situazione simile a quella in cui ci ritroviamo quando, dimenticando i termini delle cose e delle azioni, adoperiamo il sostantivo coso e il verbo cosare.
Quindi questa idea di albero non possiamo averla derivata dalla molteplicità delle specie arboree, come anche l’idea di noce non possiamo averla derivata dalla molteplicità dei noci singoli, individuali, perché nel preciso istante in cui affermo che questo noce è simile ma non uguale, nelle foglie, nel tronco, ecc. all’altro, io faccio un uso preventivo e abusivo della parola noce, generica rispetto ai vari rappresentanti della nocità ma, quello che più conta, anche antecedente, appunto, ai vari noci particolari dai quali invece avrei dovuto estrarla. Sarebbe cosa più logica e vera se dicessi che, nel momento in cui colgo la somiglianza dei vari individui di una stessa specie ancora da nominare, io non posso non usare il vocabolo generico albero, immediatamente sovraordinato a quello della specie ancora senza nome, o magari anche il termine genericissimo coso il cui significato è molto probabile che stia anche sotto a quello che a noi ora sembra appositamente creato per quella specie e non altra, aiutati in questo dalla intervenuta opacità etimologica dei termini usati.
Non si può, d’altronde, assolutamente supporre che l’uomo preistorico abbia effettivamente passato un bel giorno in rassegna le varie specie arboree e animali e abbia coniato seduta stante per ciascuna, basandosi sui suoi tratti caratteristici (ma potrebbero sorgere delle incresciose disparità di vedute tra gli uomini nell’individuare questi tratti) , il suo bel nome nuovo di zecca! E’ molto più naturale supporre, come molti casi nelle varie lingue ci aiutano a sostenere, che vi sia stata una specializzazione di significato, nelle parole coinvolte, dal generale al particolare nel corso del tempo. Questo, oltretutto, sarebbe l’unico modo per sottrarsi all’ingrato compito di scegliere, per ogni cosa o idea da nominare, il corrispettivo termine specifico, e risolverebbe quel senso di sconcerto o mistero che promana a mio parere dalla cosiddetta arbitrarietà del segno linguistico, la quale per definizione, appunto, non ci dà nessuna indicazione sul perché un significante si ritrovi legato insieme ad un significato particolare nell’unità della parola. Il problema, che sembrerebbe irrisolvibile, trova invece in questo modo una soluzione, venendo ogni segno ad essere motivato da quell’unico significato generico di fondo, uguale per tutti. D’accordo, ciò in pratica equivale quasi a dire che ogni segno è arbitrario, potendosi scegliere allo stesso modo per ogni concetto da esprimere qualsiasi significante, ma la motivazione connessa dà all’uomo onomaturgo il grosso vantaggio di poter colmare agevolmente quello che altrimenti sarebbe un gap imbarazzante e quasi insormontabile tra un significante e un significato tra sé perfettamente estranei e completamente scollegati , in ogni atto di nominazione. Ciò costituirebbe, oltretutto, una netta violazione del principio del naturalista Linneo secondo cui Natura non facit saltus. Allora donde potrebbero scaturire questi concetti generali se è vero che essi sono antecedenti ai singoli e innumerevoli individui? Io debbo, alla luce di queste considerazioni e di un sano realismo, dedurre che le idee generiche di cavallo, cane, gatto, ecc., non potendo derivare dalle idee dei singoli cavalli, cani e gatti, i quali, prima che venissero in qualche modo distinti dagli altri innumeri appartenenti al regno animale dovevano perlomeno rientrare nella categoria generica di ‘animale’, scaturiscono proprio da quella più generica ed antecedente di animale, e che le idee di pioppo, ciliegio, noce, ecc. discendono da quella più generica ed antecedente di albero, vegetale e così via per tutte le altre classificazioni anche del regno minerale.
E questo è stato possibile perché probabilmente, nelle fasi iniziali dell’attività linguistica, le comunità di parlanti, anche le più piccole, hanno creato e diffuso un numero alto di nomi di ‘esseri viventi’ i quali sono poi stati usati via via , in un processo di scambi reciproci e di incroci vari, ad indicare spessissimo solo delle classi specifiche di piante e di animali, caricandosi di significati più particolari. Del resto esistono diversi casi, come più su accennavo, in cui la parola per ‘animale’ è passata ad indicare un ‘animale particolare’ , come il deer ‘cervo’ inglese che in altre lingue germaniche significa ‘animale’. Il greco drys significa sia ‘albero’ che ‘quercia’, cogliendo il processo, per così dire, in fieri. Un amico mi diceva che a Pero dei Santi-Aq, un paesino della Valle Roveto, la parola albero indica l’ 'olmo'. Se si invertissero le parti e la lingua di questo paesino appartenesse ad una comunità vasta ed importante come quella latina e quest’ultima appartenesse ad una minuscola comunità , saremmo di conseguenza portati a dire che il termine latino arbor, col suo significato generico, è un tipico esempio del fenomeno di ampliamento del significato rispetto allo stesso nome usato a Pero dei Santi col significato specifico di 'olmo', trascinati dalla subdola convinzione che la lingua latina, nel caso supposto, appartenendo ad una minuscola comunità, dovesse essere per forza in una condizione di subalternità e posteriorità rispetto all’altra, molto più ampia ed importante: il che sarebbe una palese falsità, perché il ragionamento non tiene conto del fatto che nei tempi più remoti della preistoria i rapporti di forza tra il latino e la lingua di Pero dei Santi potevano essere completamente diversi da quelli supposti nell’esempio. Non è certo che la parola arbor sia passata dall’una all’altra lingua: potrebbero ambedue le lingue averla ereditata da una lingua precedente in cui essa probabilmente aveva il significato generico di albero come in latino. Resterebbero così in fondo a tutte le parole le poche idee generiche di 'animale, vegetale, cosa' che trovano, nonostante l’inerzia della parola ‘cosa’, un comune denominatore nel concetto di anima, concetto conforme alla mentalità primitiva. Ancora Seneca afferma che arbusta animam habent, nec sunt animalia : la correzione è dovuta solo al fatto che ai tempi di Seneca l’uomo aveva già operato la distinzione , nel linguaggio, tra piante e esseri animati, senza comunque aver attuato completamente quella tra uomo e animale. L’idea di anima coincide con quella di essere vivente, vita, e essere tout court, la quale ultima è un’idea indefinibile, a detta dei filosofi, in quanto ha la massima estensione e la minima intensione, cioè appartiene a tutti gli enti senza indicare le connotazioni di nessuno. Ed è la prima, naturale, inevitabile idea che la coscienza dell’uomo si trova davanti, quando riconosce l’esistenza delle cose (animali, piante e altro), nel momento in cui essa, uscendo dalla condizione animale, si illumina e riflette sulla realtà circostante. Io poi non credo, come d’altronde fortemente ci indica la stessa universalità dei concetti che si applicano non ad individui particolari ma a tutti gli individui, l’uno diverso dall’altro, d’una stessa classe, che le etimologie dei nomi debbano condurre ad aspetti secondari delle cose nominate, come sarebbero le corna rispetto ai cervi (il lat. cervus viene ricondotto all’idea di ‘corno’, ma così facendo, oltretutto, si decide arbitrariamente di non considerare la metà femminile della specie che non possiede corna), o la caratteristica di una coda mobile per l’uccello chiamato in dialetto cuterenzìnzela (cfr. l’articolo La ‘cotanzìnzera’ di Castellafiume e la ‘cuterenzìnzela’ di Aielli ) oppure, nello stesso articolo, il presunto luogo frequentato dal pipistrello, animale chiamato in alcuni dialetti sopre-ppinghe ‘sopra-tegole’ e in altri spara-pingule, come se esso si divertisse addirittura a lanciare (spara-) cocci (-pingule), ma credo che esse si riferiscano proprio alla qualità basilare e generica degli enti indicati, che nel caso degli animali è la loro animalità. Infatti lo spara-pìngule nel dialetto di Cerchio-Aq diventa sparv-ìngule e fa intravedere una sua possibile somiglianza con sparviere. Kant introduce i principi a priori i quali organizzerebbero i dati più o meno ciechi provenienti dall’esperienza sensibile. Ma oggi è chiaro che questo a priori, se è tale per il singolo individuo, non può esserlo più dal punto di vista filogenetico, se si tiene presente cioè tutto il percorso che la nostra mente ha compiuto nel corso dell’evoluzione, elaborando man mano dall’esperienza quei meccanismi che presiedono alle funzioni vegetative e a quelle razionali riguardanti il suo modo di guardare e nominare le cose del mondo.
E’ incontrovertibile il fatto che tutte le parole di tutte le lingue indicano gruppi o classi di individui, e non i singoli individui a cui pure si applicano. Se pertanto fossi costretto anche solo a scommettere sulla loro origine da concetti generalissimi come quelli di vita, forza, essere, spinta oppure da concetti più o meno particolari rispondenti alle singole e svariatissime classi e sottoclassi di animali, oggetti ed altro esistenti nel mondo, non c’è dubbio che, nella scelta, darei un gran peso alla caratteristica incontrovertibile, appunto, di tutte le parole: la loro costante vocazione al generale, all’universale, che deve essere allora il fedele specchio di una loro natura profonda che sale su fin dalle loro più antiche radici e che non può essere completamente oscurata dalla cangiante cosmesi dei significati superficiali, sia pure utili alla comunicazione stessa e alla distinzione della varietà del reale. E considererei i casi di specializzazioni o riduzioni di significato che inevitabilmente una lingua ci presenta, in parte generati dalla necessità di dover riferirsi a sottoclassi via via più ristrette, in parte causati dai numerosissimi incontri, incroci e sovrapposizioni di vocaboli simili, nel frattempo specializzatisi anch’essi, che, nella lunga storia delle lingue, si sono inevitabilmente verificati come tanti incidenti di percorso e che sembrerebbero deporre a favore di una lingua nata con la vocazione del particolare e non del generale, come nel caso dei significati particolari assunti da uno dei termini dialettali per ‘pipistrello’, di cui ho parlato più sopra, significati che svolgono proprio la funzione di paravento rispetto a quello che secondo me è il significato originario soggiacente a tutti gli altri che il vocabolo coinvolto può aver attratto in superficie, cioè quello di ‘volatile, uccello’ oppure, ancora più in fondo, quello di ‘animale, essere vivente’.
sabato 27 giugno 2009
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