Per interpretare
correttamente questa voce, senza lasciarsi travolgere dal vortice di sperticati
ed audaci riferimenti metaforici per così dire gallo-centrici, come fanno i linguisti,
bisogna prima di tutto considerare che vi sono anche altre voci simili, alla
base secondo me del chicchirichì ‘gheriglio’, con
significati che col gallo e la sua cresta pare abbiano poco in comune come
l’aiellese cécurë ‘foruncolo o tumefazione sulla pelle’, il
trasaccano cécalë ‘grumo (di polenta, lievito, di calce)’,
aiellese càcalë 'caccola', lat. cicer ‘cece’,
lat. cicera ‘cicerchia’ i quali presumono tutti un’idea
comune di ‘corpo rotondeggiante, pallottola’ presente anche nell’italiano chicco oltre
che, in tutto il suo splendore, nella voce cicerchieta 'anello'
del dialetto di Scanno-Aq. Il chicchirichì è inoltre un
dolce a forma di cupoletta o ditale ripieno e pertanto anche in questo caso il
nome riconferma l’idea di ‘rotondità’. Il mio parente Giuseppe Gualtieri,
scrittore e poeta originario di Aielli e vivente negli USA, mi informa
che cuchërùzzë, ai bei tempi andati, designava appunto il
‘gheriglio’(cfr. cuca ‘noce’, in alcuni paesi del Veneto,
Friuli, Istria), oltre alla ‘cima, vetta, colmo’, significato a me noto e su
cui tornerò più sotto. In effetti la voce abruzzese cucurumìë 'gheriglio'
ne è una conferma.[1]
Nel dizionario I dialetti italiani[2] il termine in
questione viene collegato alla cresta del gallo la quale sarebbe indicata
metaforicamente mediante il verso caratteristico dell’animale. In altri termini
il ‘gheriglio’ con la sua conformazione frastagliata assomiglierebbe alla
cresta. Eppure nè a me né a tutti i miei familiari ed amici, pur essendo
vissuti in un paese dove fino a non molti decenni fa il volatile lo si poteva
incontrare un po’ dappertutto, è mai balenata questa corrispondenza perché, in
effetti, essa non è così evidente come si supporrebbe. Casomai è da pensare che
solo chi si fosse ritrovato nella propria lingua un termine come chicchirichì ‘gheriglio’,
non mutuato da quello relativo al verso del gallo ma con un’origine autonoma
rispetto ad esso, sarebbe stato indotto per forza di cose a cercare una qualche
somiglianza, sia pur vaga, tra le due entità.
Nel suddetto dizionario si
citano anche le voci checchelechè, cucchërichè ‘gheriglio’
dell’area campana e checchelecchè (esiste anche chichilëchè ‘gheriglio’
dell’area abruzzese[3]) tutte intese come varianti di chicchirichì,
voce considerata onomatopeica ma che tale non è, come vedremo. Io sono propenso
a credere infatti che le precedenti forme, che presentano la liquida /l/ nella
penultima posizione, non debbano essere considerate a tutti i costi
deformazioni rispetto alle forme che nella stessa posizione presentano la
liquida /r/: me lo suggerisce di primo acchito la voce abruzzese cìcele[4] ‘ciottolo,
endice, bisbiglio’ la quale, con i primi due significati si riallaccia a
quell’idea di ‘rotondità’ di cui si parlava che, secondo me, è naturalmente
alla base anche del concetto di ‘gheriglio’, termine che peraltro rimanda ad un
etimo greco col significato di ‘noce’. Il terzo significato di ‘bisbiglio’
richiama le voci aiellesi cëcëlà (arcaico chëchëlà)
‘cinguettare’. Altre voci citate sotto la voce chicchirichì nel dizionario
dell’UTET sempre col significato di ‘gheriglio’ sono l’aretino galletto,
il ticinese e lombardo settentrionale gal e il
calabrese chichili-gaḑḑu in cui, secondo noti
linguisti, ci sarebbe stata l’intrusione del gallo a rafforzare il significato
di ‘gheriglio’. Io non ci crederei nemmeno se per assurdo fosse vero (senza
voler denigrare nessuno) perché sono convinto che il nome del volatile è qui
solo la rietimologizzazione di un nome corrispondente all’abruzzese gallë ‘gallozzola,
ghianda’[5] e al calabrese gaḑḑa ‘noce
del piede’, dal lat. galla ‘noce di galla’.
Da dove può essere arrivato
questo strano cìcëlë ‘ciottolo, endice’? A me pare evidente
che esso sia della stessa famiglia del greco kýklos ‘cerchio,
sfera, globo, bulbo dell’occhio’ con l’inserimento di una vocale cosiddetta
anaptittica tra la /k/ e la /l/, come accade ancora oggi per esempio nella resa
dialettale dell’italiano “bicicletta”, la quale diventa nell’idioma di
Aielli bëcëchëllétta. Infatti, a conferma di tutto ciò, recentemente
ho scoperto il termine chichil-onë 'pietra grande' del
dialetto di Laciano-Ch. Ma non è escluso il fenomeno inverso, cioè che sia
stato il greco ad innovare facendo saltare una precedente vocale. Le lingue in
genere sono dotate di una sovrabbondanza di forme e nel greco se ne incontrano
di simili alla precedente come kóklos ‘conchiglia,
chiocciola’, chóchl-ax ‘ ciottolo, pietra da
macina’, kókkalos ‘pigna’, simili al ted. Kugel ‘palla,
sfera’, tutte richiamanti la solita ‘rotondità’ come il calabrese còccalu ‘cranio,
teschio’, abruzzese cuculéttë [6] ‘cavoli cappucci, cavoli a
palla’, calabrese cócula ‘glande del pene’, termine
quest’ultimo che si incontra in tutta Italia col senso di base di ‘oggetto
rotondo’. E non è da credere, viste le varie forme simili del greco o di altre
lingue, che esso debba essere formalmente per forza un diminutivo del
latino coccum (greco kókkos)‘granello,
nocciolo, bacca’, ma che invece sia da ricollegare alla ben nota radice
mediterranea o paleoeuropea kukko ‘punta’, significato che
come vedremo fra poco richiama quello di ‘protuberanza, rotondità’, come
nell’aiellese arcaico cucùlë ‘organo sessuale maschile,
pene’. Che le sopraccitate forme per ‘gheriglio’ debbano rientrare nel più
vasto concetto di ‘rotondità’ ce lo dice il termine chicchëlëcchè ‘fiore
dell’acacia’ (dialetto di Luco dei Marsi), albero con fiori a capolino, riuniti
insieme nel ricettacolo a formare una sorta di ‘testa’. Del resto il termine è
strutturalmente simile al francese coquelicot ‘papavero’ .
Il papavero prende solitamente il nome dalla sua capsula (testa) come nel
cerchiese cucuccìjjë, checuccìjjë ‘papavero’, voce
che in altri paesi come Aielli indica invece la ‘zucchina’ ed è diminutivo
di chëcòccia ‘zucca’. Bellissimo il termine per ‘papavero’
nel dialetto di Collelongo-Aq, e cioè cincëlëc-àstrë .
Il suo primo componente richiama la serie precedente con l’inserimento di una
/n/ di disturbo tra la prima e la seconda sillaba, mentre il secondo è tal
quale il primo componente del diminutivo greco aster-ískos ‘stelletta,
asterisco’ ma anche ‘calice del papavero’ in Dioscoride.
A rigor di termini anche
questa visione capo-centrica per i termini del papavero è frutto, secondo me,
di una specializzazione del significato originario dei termini che inizialmente
avevano un valore più generico di ‘protuberanza, escrescenza, elevazione’
riferibile anche all’intera piantina. La forma chichilëchè potrebbe
avere un esatto sosia nell’aggettivo sostantivato greco kyklikón ‘cosa
rotonda’.
Nel dialetto di Aielli chìcchëra vale
‘cresta di gallo o di gallina’ ed ha un esatto corrispondente
nell’abruzzese chìchërë ‘gheriglio’[7], variante del sopra
menzionato aiellese arcaico cuchër-uzzë ‘gheriglio’,
a sua volta parente stretto di aiellese cuchër-ómmë ‘bitorzolo’
e di abruzzese cucur-umìë 'gheriglio' sopra citato: i vari
significati trovano, infatti, un punto d’incontro in quello di ‘protuberanza,
escrescenza’, non importa se puntuta o rotondeggiante: non bisogna farsi
ingannare dai significati, che a noi appaiono ormai in veste specializzata,
perché una “punta, cima” di un “colle” è pur sempre una protuberanza rispetto
al “colle”, come questo, nella sua interezza, lo è rispetto al paesaggio
circostante. L’esempio precedente chicchëra/chichërë
riproduce secondo me la presunta dinamica semantica tra il chicchirichì ‘canto
del gallo’ e il chicchirichì ‘gheriglio’, ma elimina il
passaggio metaforico tra il canto del gallo e la sua cresta, e questo è un
indizio non di poco conto che con tutta probabilità anche l’altro supposto e
improbabile, come abbiamo visto, rapporto metaforico tra la “cresta” e il
“gheriglio” sia null’altro che frutto di un errore di prospettiva e di
impostazione del problema. Un’altra conferma in questo senso viene dalla considerazione
che la visione gallo-centrica espressa dai linguisti del dizionario UTET circa
questi termini lascia completamente al di fuori del suo ambito la voce arcaica
aiellese cucher-ùzzë ‘gheriglio’, la quale, pur
appartenendo chiaramente alla famiglia di abruzz. chìchërë ‘gheriglio’,
recalcitra tuttavia, nella pratica della lingua, ad essere collegata a parti
del gallo o al suo canto, anche nell’altro suo significato di ‘cima, vetta,
colmo’ riferito solitamente ad alture, mucchi, elevazioni varie ma non alla
“cresta” del gallo. Il re è nudo, in questa come in tante altre circostanze!
Sfido bonariamente i linguisti a dimostrarmi il contrario: gliene sarei
infinitamente grato. Il bello è che voci simili si incontrano anche
nell’interessante area sarda e precisamente nel nuorese chichirra ‘testa’,
nel logudorese cuccuru, cuccuruddu ‘cocuzzolo,
collina, cima, punta’ ma anche ‘coccola, frutto rotondeggiante del ginepro’,
nel logudorese cuccuruddù ‘chicchirichì’ ma anche ‘galla,
escrescenza delle piante’, nel logudorese chighir-ista ‘cresta’.
La radice è presente anche nell’aiellese cucher-ùzze ‘cima,
apice’ e nell’interessante termine trasaccano cucùle che
oltre ad avere il significato di ‘cornuto’, riferito all’uomo tradito dalla
moglie, indica anche una pianta con fiori a forma di campana, una “cavità”
dunque, concetto quest’ultimo perfettamente speculare a quello di
‘protuberanza’[8].
Va da sé che il termine richiama anche il lat. cucullu(m) ‘cappuccio’,
e, specularmente, il sopraccitato aiellese arcaico cucùlë ‘pene’.
Ora, questa serie continua di
termini che mostrano un doppio e diverso significato, quello di ‘sporgenza,
colle, cima, ecc.’, da una parte, e quello che possiamo definire di ‘sonorità’,
dall’altra, come avviene nell’abruzzese cìcëlë ‘ciottolo, bisbiglio,
cinguettio (cfr. logud. chighilliu ‘schiamazzo’), nel
toscano chicchirichì ‘gheriglio, verso del gallo’, nel
logud. cuccuruddù ‘galla, chicchirichì’, nel fr. coquelicot ‘papavero’
e fr. coquerico ‘chicchirichì’, credo che non ci consenta di
liquidare in tutta fretta come ‘onomatopeiche’ le voci interessate. Si deve
piuttosto pensare che le radici in questione presentino in superficie valori
specializzati e apparentemente incompatibili ma che in profondità esse
finiscano col combaciare con un significato più generico come quello di ‘forza,
tensione’: la ‘tensione’ può infatti concretizzarsi nella forma di una
‘protuberanza, escrescenza’ o in una ‘vibrazione’ delle corde vocali con
emissione di suoni all’esterno, quando questi sono prodotti da esseri viventi,
nella cui classe rientravano, nel tempo lontano delle origini del linguaggio,
gran parte, se non tutte le entità della Natura. Per cui mi pare un vano
affannarsi quello dei linguisti che vogliono a tutti i costi far risalire, ad
esempio, l’etimo del verbo italiano tentennare al lat. tin-tinnare, tinnire, tin-tinare ‘tintinnare,
ronzare’, attraverso il significato di ‘suonare il campanello’ che il verbo
pare abbia assunto in alcuni dialetti. Lo ‘scuotere’ del campanello avrebbe
metaforicamente generato l’ ‘oscillazione’ del tentennare. E il
ragionamento potrebbe essere anche accettato se non ce ne fosse un altro a mio
avviso più diretto e concreto che scende alla radice comune dei due termini
apparentemente ‘divisi’ in superficie ed elimina la presunta origine
onomatopeica. A me pare, infatti, che la radice coinvolta in questo caso sia la
stessa del lat. ten-ere, tend-ere ,
verbi esprimenti ‘tensione e sforzo’ e quindi adatti ad esprimere anche un
‘suono’. Infatti, il termine corradicale greco tónos
'tensione, tendine, fune, energia, sforzo, tono, altezza
della voce, accento’ mi pare possegga in abbondanza significati
che promanano da quello di fondo il quale potrebbe aver dato origine, non solo
al significato di ‘sonorità’, ma anche a quello di ‘impulso, spinta, scossa’
che sta dietro all’it. ten-tenn-are. Da notare anche il
greco ton-thorýzo ‘mormoro, sussurro, fremo’
il cui secondo componente, che è da accostare a greco thórybos ‘chiasso,
strepito, fremito’, ripete tautologicamente il valore del primo. In Euripide si
incontra anche tan-tarýzo ‘fremo, dondolo,
palpito’ il cui primo componente a mio avviso va collegato col greco tany-
, tana- corradicali del precedente tónos e di
greco tanaós ‘lungo, disteso, prolungato’. Ma composti
tautologici come tany-echés ‘risonante’, detto
delle corde, o come tany-rroizos ‘forte risonante’,
detto dell’asta, fanno capire che si tratta di ripetizione intensiva di una
stessa idea di ‘sonorità’ insita in ambo i membri, piuttosto che di quella di
‘lunghezza’ la quale , comunque, si sviluppa sempre dal nucleo semantico di
fondo della radice. Se così stanno le cose anche il din don delle
campane non dovrebbe essere ‘onomatopeico’ (anche se ora noi lo avvertiamo come
tale) e, nel primo elemento, dovrebbe semmai richiamare l’ingl. din ‘fracasso,
chiasso’ che in verità non so se i linguisti liquidino come ‘onomatopeico’ o
meno. A rafforzamento di quanto sopra si rifletti sulla la stretta
interdipendenza tra i concetti di “protuberanza, forza, spinta ” e quello di “suono,
rumore” che si può desumere dai termini abruzzesi vuttë ‘spinta, urlo’; buttë
‘getto’; vuttà ‘spingere, pigiare’; vussà ‘spingere, pigiare’; vussë ‘spinta’; vussà e ussà (Aielli)
’abbaiare’; vozzë ‘rigonfiamento,
bernoccolo’; buzz-éttë ‘gallozzola’[9].
A questo punto credo sia
oltremodo utile, dati gli esempi precedenti, chiedersi come mai i linguisti
siano tanto corrivi ad assegnare una valenza onomatopeica non solo a molti
termini riguardanti ‘rumori’ provenienti dalla Natura ma anche a tantissimi
nomi relativi a ‘suoni’ provenienti dal mondo animale, soprattutto da quello
degli uccelli. Io non sono mai bene riuscito a capire, infatti, quale sia la
differenza sostanziale tra la radice di lat. fl-are ‘soffiare,
spirare’, considerato onomatopeico, e quella di lat. flu-ere ‘scorrere,
fluire’ ma anche ‘spirare, soffiare’, tra l’altro considerato, mi pare, non
onomatopeico: il punto d’incontro tra i due concetti non è difficile
individuarlo nella ’forza, energia, spinta’ che muove l’aria o l’acqua. Così si
evita anche la necessità di dover connettere, come fanno taluni, flu-ere al
greco rhéo ‘scorro’, all’ingl. stream ‘corrente’,
che molto probabilmente fanno capo ad altre radici. Grava pesantemente, sulla
ricerca degli etimi, il forte pregiudizio in base al quale ogni concetto deve
essere espresso da una o alcune particolari radici e non, potenzialmente, da
una qualsiasi di esse. Modestamente, poi, credo che non si sia riflettuto
abbastanza sul fatto che il mezzo linguistico che usiamo è esso stesso composto
di ‘suoni’, ciascuno dei quali reca però con sé quel nucleo semantico
originario, impresso come un marchio di fabbrica, che è preposto ad esprimere
fin dalle origini anche le varie ‘sonorità’ della Natura, come ho spiegato,
senza dover per questo trasformare il suo valore simbolico-cognitivo in quello
imitativo-iconico. Ma col trascorrere lento e inesorabile del tempo, una volta
scomparsi nella coscienza del parlante il ricordo e la consapevolezza di quel
marchio semantico d’origine che nel frattempo ha dovuto subire deformazioni
varie a causa delle varie specializzazioni storiche dei termini, molte radici,
le quali –è bene ricordarlo- costituiscono tutte già di per sé entità sonore,
sono andate per forza di cose a combaciare o quasi con quei suoni da
rappresentare emessi variamente dalla Natura o dagli animali, sicchè ora, come
conseguenza ineluttabile, ci sembra che esse, le radici, in questo caso siano
null’altro che la fotocopia della realtà sonora rappresentata, senza quel
significato d’origine rintracciabile nel fondo di tutte le altre non
onomatopeiche: eppure esse non volevano fare un’eccezione per i “suoni” in
quanto li avevano già identificati, all’origine, e classificati come
"forze", entità viventi alla stessa stregua delle altre come, secondo
me, ci fa pensare in qualche modo l’espressione formulare omerica con cui si
indicano le parole, che non sono altro se non ’suoni, emissioni, emanazioni’ (épea pteróenta ‘parole
volanti’). Nella ipotesi poi di trovarsi, ad esempio, nella necessità di
rappresentare le cose con una tavolozza di colori i quali, però, non avessero
nessun valore imitativo della realtà ma solo un valore simbolico secondo i
meccanismi analizzati per le parole, succederebbe la stessa cosa, e se ci
capitasse di indicare una ‘ciliegia matura’ con il colore ‘rosso’ saremmo
inevitabilmente indotti a credere che il colore ‘rosso’ con cui casualmente designiamo
la ‘ciliegia’ trovi la sua piena spiegazione nell’essere solo una copia quasi
perfetta di quello della ciliegia, e non più un simbolo con un suo proprio
significato d’origine, in questo caso probabilmente quello di ‘rotondità’ o di
‘escrescenza, pianta’, dato che i frutti sono spesso indicati col nome
dell’albero che li produce per la fatale coincidenza del concetto di “pianta”
con quello di “frutto”, il quale si configura solitamente come una
‘escrescenza’ più o meno rotondeggiante. Ed io peraltro ho potuto capire, nel
corso della mia lunga ricerca, che la Lingua, ogni volta che se ne presenti
l’occasione, è pronta a favorire questi fenomeni, perché è alla ricerca essa
stessa di una specializzazione o di una spiegazione purchessia riguardo all’origine
di quei termini che le dovessero apparire un po' o molto estranei, oscuri. Il
fatto è che anche il premio Nobel Konrad Lorenz, famoso etologo austriaco,
considerava l’imitazione (e quindi l’onomatopea) solo in senso lato cognitiva
nel suo libro L’altra faccia dello specchio,
e dal punto di vista filogenetico la riconduceva al comportamento di giuoco e
di curiosità degli animali sociali che vivono in nuclei familiari durevoli. Se
per ipotesi i linguisti avessero voluto dargli retta non avrebbero nemmeno
potuto farlo, perché essi avvertivano con i loro orecchi quelle che a loro
apparivano incontrovertibili onomatopee come è il caso di chicchirichì.
Io sono convinto, per i motivi suesposti, che l’onomatopea non abbia (quasi)
nessun valore conoscitivo e che essa sia un sottoprodotto dell’attività
linguistica dell’uomo, che ne ha assecondato la naturale propensione al giuoco
e alla imitazione. Ma nel contempo essa avrebbe potuto, questo sì, in una fase
successiva a quella aurorale del linguaggio, investire varie radici, portanti
già il significato generico di ‘suono, rumore’, con il riflesso di quelle forme
iconico-imitative che nel frattempo l’ homo ludens andava
sviluppando attraverso quei meccanismi tipicamente onomatopeici come
l’antifonia vocalica (din don, tic tac,
ingl. tick-tack ‘ticchettio, ticchettare’, ecc.) o
il raddoppiamento del segmento fonico (tin tin,
it. tin-tinn-are, ecc.).
Tra i filosofi moderni mi
pare che il neokantiano Ernst Cassirer (1874-1945) abbia insistito sul valore
simbolico di tutte le attività umane e in particolare del linguaggio, elemento
fondamentale nella sua filosofia, il quale non sarebbe, quindi, uno specchio
della realtà naturale e psichica ma espressione dello Spirito umano che le
interpreta: peccato, però, che quando parla del percorso seguito dall’uomo per
arrivare al linguaggio simbolico della maturità, costituito di concetti del
tutto slegati dalle caratteristiche delle entità rappresentate, non può evitare
di considerare l’ onomatopea come indicativa di una fase intermedia vicina
ancora al dato reale sensibile. Questo dell’onomatopea costituisce
evidentemente un fatto talmente radicato nella nostra cultura e nella nostra
mente, e peraltro immediatamente riscontrabile al livello apparente di ogni
lingua, che nemmeno le filosofie che sviluppano visioni più consone a quella
che secondo me costituisce la vera natura del linguaggio riescono ad aggirarne
l’ostacolo.
Alcune volte gli studiosi si
lasciano andare a spiegazioni addirittura più inconsistenti di quelle ‘onomatopeiche’
come per la voce toscana tutto-mio ‘civetta’,
spiegata nel dizionario dell’UTET di cui sopra come interpretazione popolare
del grido dell’uccello. Si citano anche le voci sarde cuccu-méu, cuccu-miàu ‘civetta’,
ma non si riserva nessuna attenzione al fatto che esiste anche l’uccello mio 'fischione’,
il greco muia ‘mosca’ e il sardo tidu, tudu ‘colombo
selvatico’, tutti termini che ci aiutano ad interpretare nel solito modo
tautologico e nella direzione di ‘uccello, volatile, essere vivente’ le due
componenti di tutto e mio. Sono anche da
ricordare i Titii sodales, collegio sacerdotale
poco noto dell’antica Roma, i quali avevano il compito di osservare, secondo
Varrone, il volo degli uccelli chiamati appunto titii,
probabilmente 'piccioni selvatici'. Nella variante sarda cuccu-méu si
inserisce in prima sede un altro elemento che è quello di sardo cucca-pedra ‘allodola’
e di altri nomi. La prima componente di questo ornitonimo non va affatto
interpretata onomatopeicamente e neanche il fr. coq (ingl. cock )
‘gallo’, il greco kikkós, kíkirros ‘gallo’, il
quale ultimo potrebbe allora far pensare meglio all’aiellese chìcchëra ‘cresta
del gallo o di gallina’, al basco kukur ‘pettine’, radice
già incontrata nel sardo cùccuru ‘punta,cima’, dato che
anche in area germanica si incontrano termini come ingl. comb e
ted. Kamm che indicano contemporaneamente sia il ‘pettine’
che la ‘cresta del gallo’. Ciononostante qualcuno a questo punto potrebbe
ricordare maliziosamente il lat. cucurr-ire ‘fare
chicchirichì’ facendoci ripiombare nel pieno della onomatopea. Ma la faccenda è
tutt’altra, perché dietro queste voci non vi sono le varie caratteristiche
sonore o d’altra natura degli animali coinvolti, bensì il concetto stesso di
‘animale, volatile’ sicchè dietro il ted. Hahn ‘gallo’ non si trova, ancora una volta, il ‘canto’
(cfr. lat. can-ere ‘cantare’) come vogliono i
linguisti, ma certamente il fr. can-ard ‘anatra’, il
lat. can–e(m) ‘cane’
se l’espressione greca Diòs ptenòs kýon vale ‘cane alato di
Giove’, cioè ‘l’aquila’, e se anche l’altra espressione Diòs kýnes indica i ‘cani di Giove’, cioè i ‘grifi’, uccelli che nel
loro nome richiamano piuttosto il ted. Huhn ‘pollo, gallina’, variante del precedente Hahn ‘gallo’. In greco si
incontra anche kokko-bóas órnis ‘uccello
che grida (boáo) chicchirichì (kókky), gallo’ (Sofocle, fr.
900), tipica definizione da vocabolario che ha poco a che fare con lo spirito
della Lingua. Secondo me il primo componente kokko- è variante
del sopraccitato kikkós ‘gallo’ e combacia con ingl. cock ‘gallo’
mentre il secondo componente bóas si riallaccia al
lat. boa, bova ‘biscia d’acqua’, voce isolata
ed inspiegata: i vocabolari citano anche la forma boas in
Domenico Cavalca, avanti il 1342. Va da sé, a mio avviso, che fa parte della
famiglia anche il lat. bov-e(m) ‘bove’. Molti altri
uccelli, oltre al cuculo, nei dialetti italiani vengono indicati con i
nomi cucco, cucca, cuca. Per uscire
dal circolo vizioso delle interpretazioni ‘sonore’ della radice si deve volgere
lo sguardo ai termini spagnoli cuca ‘bruco, falena,
tarma’, cuca-racha ‘scarafaggio’, all’ingl. cock-roach ‘scarafaggio’
dove l’etimologia popolare già si adopera a favore, anche senza motivo, di
ingl. cock ‘gallo’, e al sardo nuorese cuc-urra ‘bruco,
forfecchia’: ma il nuorese cucur-ista ‘cresta’, il
logud. cugura ‘cocuzzolo’, varianti di cuccuru, cuccura ‘cocuzzolo,
cima, punta’, se ne stanno lì appostati, pronti a sviarci e ricondurci ancora
verso la cresta e il canto del gallo, rimessi in giuoco magari da qualche
etimologia popolare, sia pure strampalata. Con una simile visione
gallo-centrica non ci libereremo mai dell’ormai fastidioso suo canto! La
presenza, nel più volte citato vocabolario del Bielli, della voce jalle ‘gheriglio’,
voce che in diverse nostre parlate indica il ‘gallo’, potrebbe farci ripiombare
nella a questo punto ossessiva visione gallo-centrica, ma le voci
abruzzesi strozza-jalli ’bacche rosse non
commestibili’ e strozza-jalline ‘bacche della rosa
canina’ di Cagnano Amiterno-Aq., ci potrebbero per lo meno dare qualche
conforto nel supporre che la voce in questione sia in realtà derivata
dall’altra abruzzese gallë ‘gallozzola, ghianda’. Naturalmente
bisogna isolare la componente strozza- e considerarla tautologica
rispetto all’altra, con un significato originario di ‘rigonfiamento, bacca’ del
tutto uguale a quello della radice del tedesco moderno strotzen ‘abbondare,
essere gonfio, essere turgido’. Questo punto di vista presuppone che questa
parola germanica si trovasse qui già dalla preistoria e che non dipenda in
alcun modo dall’it. strozza, termine calato in Italia a quanto
pare con le invasioni barbariche. Ma, di converso, un valore
"sonoro" della prima componente di kokko-boas ci
è attestato dal gr. kokky 'verso del cuculo' e
probabilmente dalla prima componente dell'ingl. cock-a-doodle-doo 'chicchirichì',
termine che sembra pochissimo onomatopeico se si tiene conto del suo suono, ma
che d’altro canto deve essere vecchio quanto il cucco se si osserva il
giapponese koke-kokko 'chicchirichì', che sembra presentare
la radice in questione raddoppiata, evidentemente con valore "sonoro"
almeno in superficie. Ma la più interessante di tutte queste onomatopee è
a mio parere il comune cocc-odè riferito al suono
emesso dalla gallina che ha deposto l'uovo. E' per me evidente che il
primo componente è quello analizzato sopra, e il secondo rimanda al gr. oi
dé 'carme, ode, canto (anche del gallo e di altri uccelli)'.
Il termine coccodè è quindi antichissimo, ed aveva
all'origine il valore di "suono" in ambo i membri. Lo spirito della
Lingua lo ha investito e ha concentrato l'attenzione sul cocco iniziale,
specializzando il suo generico significato sonoro in quello emesso dalla
gallina che ha deposto l'uovo (cocco). Esso non alludeva all’uovo,
essendo variante invece della prima componente dell’ingl. cack-le ‘coccodè’. Quest’ultima
parola condivide, a mio parere, la radice con le varie forme dialettali
centro-meridionali cacaglià, cacajjà, cacheleià[10],
ecc. dal significato che oscilla tra i due poli del ‘balbutire’ (cfr. fr. cacailler ‘tartagliare’) e dello
‘schiamazzare della gallina che ha deposto l’uovo (come in inglese)’. Io penso
che dietro questi significati specializzati ci fosse un precedente significato
generico di ‘suono, rumore’. Così si riconferma anche una grande verità, già
riconosciuta dal Saussure, che è vano credere che le parole siano nate apposta
per designare i loro referenti attuali.
Come si può ben capire da
tutto ciò la Lingua ci trascina in un vorticoso gorgo di rimandi vicendevoli
che ci fanno girare la testa e perdere l’orizzonte, e se non ci muniamo di una
bussola affidabile andremo fatalmente a naufragare contro scogli non segnalati
dalle normali carte nautiche.
[1] Cfr. D.
Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo
Polla editore, Cerchio-Aq, 2004.
[2] Cfr. M.
Cortelazzo- C. Marcato, I dialetti
italiani, UTET, Torino, 1998.
[3] Cfr.
Bielli, cit.
[4] Cfr.
Bielli, cit.
[5] Cfr.
Bielli, cit.
[6] Cfr.
Bielli, cit.
[7] Cfr.
Bielli, cit.
[8] Cfr.
Q.Lucarelli, Biabbà, Grafiche Di
Censo, Avezzano-Aq, 2003, sub voce.
[9]
Cfr.Bielli, cit. dove si trovano tutte queste voci, tranne quella di Aielli-Aq.
[10] Cfr. M.
Cortelazzo- C. Marcato, cit., sub voce cacàglië. In questo dizionario si parla della
ripetizione sillabica ca-, ca-, propria di chi tartaglia.
[1] Cfr. D.
Bielli, Vocabolario abruzzese, Adelmo
Polla editore, Cerchio-Aq, 2004.
[2] Cfr. M.
Cortelazzo- C. Marcato, I dialetti
italiani, UTET, Torino, 1998.
[3] Cfr.
Bielli, cit.
[4] Cfr.
Bielli, cit.
[5] Cfr.
Bielli, cit.
[6] Cfr.
Bielli, cit.
[7] Cfr.
Bielli, cit.
[8] Cfr.
Q.Lucarelli, Biabbà, Grafiche Di
Censo, Avezzano-Aq, 2003, sub voce.
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