Riflessioni su alcune parole sarde tratte dal DULS (Dizionario Universale della Lingua della Sardegna ) di Antonino Rubattu, professore emerito della Università di Sassari.
Dalla lettura del Dizionario Universale della Lingua della Sardegna, una bella opera del lessicografo Antonino Rubattu, consultabile in Internet, ho raccolto una serie di parole ed espressioni che consentono, a mio avviso, di mettere a fuoco questioni importanti relative alla semantica delle stesse e di altre parole correlate. Ne passo in rassegna alcune.
1) Impoddile, impuddile ‘alba, gallicinio’; impoddilare ‘albeggiare’.
Questi lemmi sono fatti risalire dal Rubattu al lat. pullus, sardo puddu ‘gallo’ (con la pronuncia apicale della doppia /l/ caratteristica della Sardegna, Sicilia, Lunigiana nonchè di altre aree europee), perché egli probabilmente propone una somiglianza con il lat. galli-cinium ‘canto del gallo, alba’. A me questa proposta sembra un tantino forzata perché i lemmi in questione non presentano una radice per ‘canto’ come nel termine latino e non possono essere quindi intesi diversamente, ad esempio, da un ipotetico italiano “ingallire, ingallare,” da cui però non si riesce a derivare in alcun modo l’indicazione della particolare ora del mattino chiamata alba. Io sono pertanto del parere che i suddetti lemmi siano in rapporto col greco poliós ‘bianco’ e con il secondo costituente di greco eerí-polee, uno degli appellativi dell’Aurora, spiegato solitamente come ‘che si aggira, si muove presto, di buon mattino’, significato piuttosto banale e quasi da vocabolario, nel senso che esso sembra tentare di dare una descrizione dell’Aurora e difficilmente può essere così scaturito dall’intenzione dell’uomo onomaturgo di designare direttamente il fenomeno “alba”, che solitamente è indicato proprio dai concetti di “bianco, luce” e simili, senza arzigogolamenti di sorta. Queste definizioni da vocabolario, che in genere sono costituite da espressioni descrittive talora banali o risibili o incomprensibili, si producono secondo me per l’incrociarsi, attraverso il lento fluire tempo, di parole con significanti simili e significati diversi, che finiscono con l’apparire come epiteti esornativi del proprio referente, mentre esse all’origine si limitavano ad indicarlo e basta. Questo incrociarsi e sovrapporsi di parole produce anche i nuclei narrativi da cui nascono e si sviluppano i vari miti. Non per nulla l’Aurora è chiamata da Euripide monó-poolon…Aô (cfr. Oreste, 1004 ), cioè ‘Eos ( con un carro trainato) da un solo cavallo’: il –pôlon ‘puledro, cavallo’ differisce dalla radice di poliós ‘bianco’ solo per la /o/ lunga, un ostacolo veramente inconsistente per poter impedire la confusione dei termini, se si tiene conto anche della forza della folk-etymology, abituata a sormontare ben altre difficoltà. Se così stanno le cose bisogna dare una sistemazione diversa anche al componente mono- che non può più significare ‘solo,unico’ e che, secondo me, richiama l’ingl. moon ‘luna’ con tutte le varianti di altre lingue europee. La radice non va confusa con quella per ‘misura’, come generalmente si fa, giacchè essa deve esprimere il significato più naturale ed originario del referente ‘’luna’’, che coincide con quello di ‘luce’ come nel lat. luna<*lucna e nel greco seléenee ‘luna’ (cfr. gr. sélas’ splendore’). Anche Ecate, la divinità corrispondente alla Diana latina, è chiamata da Esiodo mono-genées ‘unigenita’ (Teogonia, 426, 448) per il cui secondo costituente mi limito solo a citare l’altro epiteto dell’Aurora eeri-géneia ‘che nasce di buon mattino’, senza proporre altre connessioni. I latini menses 'mesi' sono secondo me ‘lune, lunari’ non ‘misure’ del tempo attraverso le lunazioni. Omero (Odissea,XXIII, 246) attribuisce due cavalli ad Eos, i quali rivelano nei loro nomi, Lampo e Fetonte (Splendente), il vero ed originario significato del termine pôloi ad essi riferito, quello di ‘luce’. Non bisogna dimenticare, tra l’altro, l’etrusco pul- ‘brillante, splendente’.
Riflettendo un po’ più profondamente si può scoprire che gr. pôlos ’puledro’ è un sosia quasi perfetto del lat. pullus ’pollo, puledro, germoglio, pollone, ecc.’ e che questi significati, insieme con quello inerente alle parole italiane pullulare e polla connesse sempre a pullus, e con quello di greco poliós ‘bianco’, convergono tutti nel concetto di ‘vivacità, forza’ che costituisce l’anima degli animali, che spinge l’acqua a scaturire dalla terra e a scorrere, i polloni a tendere verso il sole e la luce a trasferire la propria ‘vibrazione’ alle cose e agli ambienti. Non è un caso se nelle immediate vicinanze della parola pullus si incontra il lat. poll-ere ‘essere forte, potente’ e, non molto lontano, il lat. pall-ere impallidire’. Di riflesso è molto probabile che l’etimo di ingl. moon di cui sopra debba semplicemente rimandare alla radice della bella parola greca ménos il cui campo semantico va da ‘forza vitale,vita’ ad ‘ardore, passione’ e ad ogni forza naturale come quella del ‘vento, del fuoco,del sole’. Essa, dunque, non è altro che una potenza che ‘anima, avviva, illumina’ le cose rendendole, oltre che ‘animate dal di dentro’, anche ‘ vibranti, trepide , eccitate all’esterno’ e quindi ‘luminose’, anche se nel greco storico, e mi pare anche nelle altre lingue, essa è stata sostituita da altre radici in questa funzione di ‘luminosità’, ma qualche termine affine può testimoniarne la sopravvivenza come gr. míni-on ‘minio,color rosso’. Di conseguenza il primo costituente di eeri-pólee, che rimanda ad ēérios ‘mattutino’ oppure ‘aereo’, doveva esprimere anch’esso, nel profondo, il movimento o il ‘respiro’ dell’aria e del vento (áer) oltre a quello della "luce" del mattino. Non per nulla da Aristarco il fuoco (pŷr) è chiamato ēérios, e non perché ‘simile all’aria’ ma, semmai, perché ‘si slancia nell’aria’ (altro senso di ēérios) o, meglio, perché anch’esso è animato dalla stessa forza dell’aria, è epifania diversa dell’aria. Serve anche a qualcosa notare che secondo il mito Eos, sposata al vento dell’alba Astreo, che si voleva spirasse proprio con le prime luci del giorno, gli generò tutti i venti del nord, dell’ovest e del sud. Anche qui è da presupporre un incrocio delle idee aria,vento / luce, facilissimo a verificarsi per i motivi che abbiamo spiegato: d’altronde la forma eolica aúoos ‘aurora’ combacia con i verbi aúoo, áeemi ‘soffio, spiro’ e il motivo non si individua sostenendo che si tratta di un incontro casuale o che in genere all’alba, non so con quanta veridicità, spira vento, bensì semplicemente constatando, con esempi concreti, che lo ‘spirare’ è un’altra faccia del ‘risplendere’ o viceversa. Questa è la ragione per cui io sostengo che non è necessario far derivare per rotacizzazione il lat. aurora da una forma antecedente *aus-osa, in quanto la sua netta somiglianza con gr. aúra ‘vento, aria, esalazione, odore’ e con lat. aura ‘vento, aria, esalazione, splendore, scintillio, eco’ mi induce a credere che tutti questi significati convergono verso quello originario di ‘movimento, agitazione, forza’ di cui si parlava e che la forma aurora sia semmai una variante di *ausosa. L’identità dei concetti di ‘aria (aéer)’ e ‘aurora (aúos)’ è attestata, secondo me, anche dalla stretta somiglianza delle rispettive forme laconiche abéer ‘aria’ e abóor ’aurora’.
2) Caddu ‘cavallo’. Il lemma chiaramente richiama le altre forme sarde caaddu, cabaddu,cavaddu, ecc. Esso ha attratto la mia attenzione per le espressioni a cui dà luogo come caddu de Deu ‘cavalocchio, libellula’; caddu de dimoniu ‘cavalocchio,libellula’, caddu de Santu Ainzu ‘coccinella’, caddu de Santu Giuanne ’ cavalocchio, libellula, mantide’, caddu ferratu ‘folletto’, ecc. Mi sono chiesto perché questi insetti fossero chiamati così e lo spunto per la risposta me lo hanno offerto altri lemmi come caddada ‘cavalcata’ ma anche ‘fiammata’ o come caddu de ‘ocu ‘vampa(ta)’ o come caaddi-gghina ‘scintilla, favilla’ il cui secondo costituente richiama il greco kýnes Heephaístou ‘scintille (letter. cani di Efesto)’ e il turco gűnes ’sole’, termini che danno ragione del secondo componente degli epiteti dell’Aurora e di Ecate, rispettivamente eeri-géneia e mono-genées più sopra elencati. Mi è stato facile pensare che il concetto di ‘fiamma’, col suo slancio e la sua vivacità, ben si potrebbe affiancare a quello di ‘anima’ (anche se quest’ultimo allude, in senso stretto, al 'vento, respiro') in conseguenza di quanto ho sostenuto più sopra, ad esempio, circa i concetti di ‘aurora’ e di ‘aria’, e ritenerlo così alla base dei vari caddus ‘cavalli’ sopra nominati. Essi non sarebbero così che ‘animaletti’, e, se si vuole, ‘volatili’. Uno dei nomi sardi per ‘volpe’ è focu e fiamma, espressione che richiama, col primo termine, l’ingl. fox ‘volpe’, il cui etimo riceve così, secondo me, la piena luce di cui ha bisogno: esso quindi non è, come pensano molti, un nome sostitutivo di un altro tabuizzato, e da collegare all’idea di ‘coda’! Saranno stati questi tipi di incroci ad alimentare la lunga tradizione delle volpi incendiarie a cominciare dalla Bibbia (Giudici,15,4-5), fino alla volpe di Carsoli di cui narra Ovidio nei Fasti. Nomi simili sono il lat. fucus ‘fuco, maschio delle api’ e il greco phoka ‘foca’, nonché il ted. vog-el ‘uccello’. Questa è la strada maestra, secondo me, che ci porta a comprendere la natura dei cosiddetti nomi noa (non tabuizzati) nelle civiltà preistoriche: si tratterebbe in effetti di antichi nomi di animali, piante e cose che hanno, attraverso i millenni, cambiato significato a causa di incroci e che si ritrovano quindi naturalmente a sostituire il nuovo nome del referente caduto sotto l’interdizione magico-religiosa del tabù. Anzi, si potrebbe supporre che il fenomeno della tabuizzazione del nuovo nome portato da una nuova cultura sia anche il risultato di un tentativo, sia pure inconsapevole, di difesa della tradizione e di resistenza da parte di quegli antichi uomini restii a rassegnarsi ad abbracciare novità così importanti per loro come erano i nomi.
Credo sia il caso di citare qui la bella parola sarda fiadu ‘animale’<lat. flatus ‘fiato, respiro’ la quale, insieme ad altri termini come lo stesso lat. animal ‘animale (essere che respira)’, il ted. Tier ‘animale (essere che respira)’ e l’ingl. deer ‘cervo’, fanno pensare che i nomi di tutti gli ‘animali’, anche quelli specializzatisi ad indicare le varie specie, avessero quell’unico significato di ‘essere vivente’ all’origine. Anche la cavalletta avrebbe tratto quindi il nome dal suo essere un 'animale' e non dal fatto che essa 'fa salti’ come un cavallo, aiutandosi anche col volo. Pure i "cavalloni" del mare hanno a che vedere con i"cavalli" nel senso che ambedue i concetti traggono linfa vitale dall’anima~forza~slancio che tiene in vita i cavalli e sospinge i cavalloni, che rotolando si abbattono con forza sulla spiaggia. Sotto quest’angolo visuale si vede chiaramente che il secondo nome dell’espressione caddu de dimoniu deve risalire ad epoca precristiana e rimandare al greco daímoon che significava ‘dio, spirito benigno o maligno, anima dei trapassati, ombra, genio personale, ecc.’ e che quindi era ben adatto ad indicare, in qualche antico idioma, l’ ‘anima’ di un animale, piccolo o grande. D’altronde anche l’etimo del secondo nome dell’espressione caddu de Deu si riallaccia alla nozione di ‘luce’ propria della divinità, altra faccia della ‘fiamma’ e, quindi, dell’ ’aria’. Il "demonio" o "demone" si ripresenta in un nome per la ‘vespa’ nel dialetto emiliano di Campegine-RE e cioè nella parola timon-sen, anche se Riccardo Bertani, famoso glottologo-contadino, crede che esso sia il risultato della forte somiglianza tra il corpo dell’imenottero, sensibilmente piegato, e la caratteristica forma dei timoni dei carri usati nella sua terra. La componente –sen, derivante da precedente–cin, credo debba essere collegata alla seconda di pul-cino,ad esempio, ma il "demone" raggiunge anche le lontane plaghe della Gran Bretagna dove esso si camuffa, non so se per affascinare o sopravvivere con l’inganno, in una ‘damigella’ ad indicare l’elegante figura della ‘libellula’, e cioè in dam-sel-fly, i cui primi due membri sono un adattamento del francese demoi-selle< lat. *domini-cella, parola in cui si era consumato l’incrocio tra il domini- della damigella e il dèmone dell’insetto. Il costituente –cella è lo stesso di it. arcaico au-gello < lat.*avi-cella, che, all’origine, non fungeva da diminutivo ma da radice tautologica rispetto ad avis ‘uccello’. Anche in italiano il termine "damigella" viene usato per una serie di insetti e per qualche ‘uccello’. A questo punto non si può nemmeno accettare l’etimo che generalmente si dà per ‘cavalocchio, cavall-occhio’: esso non è l’insetto che, secondo una credenza popolare, volerebbe intorno agli occhi cercando di cavarli. Si deve supporre che la credenza, come del resto i miti, sia una banale conseguenza di incroci e sovrapposizioni di nomi, come dimostra secondo me anche questo caso di cavalocchio, cavall-occhio, il quale va inserito nella serie dei caddus sardi e non può essere spiegato dalle reinterpretazioni che si affollano in superficie, dettate solo dal caso e non dal genio individuale degli uomini.
Il caddu de Santu Ainzu (<Gavinu) ’coccinella’ ripete con Gav-inu la stessa radice di caddu <cav-addu nonché quella di lat. gavia ‘gabbiano’ e sardo cau ‘gabbiano’, radice che ricompare in alcuni dei nomi sardi per ‘farfalla’ come in bal-an-cau, ball-an-cau, i cui primi costituenti riappaiono a loro volta nel gr. phállee oppure phál-aina, pháll-aina, il quale per altro significa sia ‘falena’ che ‘balena’.
Che il “cavallo” entrasse in qualche modo nella saga di san Gavino non lo deduco solamente dall’analisi linguistica precedente, la quale, in effetti, viene bellamente confermata dalla tradizione sarda relativa al Santo secondo cui egli sarebbe stato un santo guerriero rappresentato a cavallo in statue equestri, come apprendo da diversi siti internet. Ma non basta ! A Porto Torres, in occasione della festa durante la quale si svolge anche una corsa dei cavalli, i cittadini di tutta la provincia si recano a cavallo ad onorare il loro Santo nella basilica a lui dedicata, dove non mancano di acquistare la tradizionale pietanza chiamata pizoni di càsgiu ‘uccello di formaggio’ che però, stranamente, ha le forme di un cavallo con relativo cavaliere. Secondo me la ‘stranezza’ si dissolve come neve al sole quando si riflette che pizoni ‘uccello’, fatto derivare insieme a sue varianti come puzone, puggione da un lat. *pullionem< lat. pullus, poteva quindi inizialmente significare anche ‘puledro’ e richiamare la radice di greco pôlos ‘puledro’. Questo è un bell’esempio del trascolorare quasi inavvertitamente, tra le mani, nella continuità di una tradizione, del significato di una parola partita da molto lontano che ha quindi attraversato strati linguistici diversi . Non escludo, infatti, che questa radice fosse già presente in Sardegna nella preistoria, prima dell’arrivo del latino e che la festa avesse origini precristiane, come avviene in tanti casi. Il latino non ne aveva certamente il possesso esclusivo! Molto probabilmente san Gavino sarà stata una delle tante divinità preistoriche del sole, della luce (si ricordi la radice del primo lemma da me qui analizzato coincidente con quella di lat. pullus, e cioè im-podd-ile ‘alba’) o del mare come ci spinge a pensare l’oscillazione del significato della parola cavallo in sardo che va da quello di ‘fiamma’ a quello di ‘cavallone’ e che richiama, per il primo significato, il nome del dio solare El Gabal, il cui culto fu introdotto a Roma dall’imperatore Eliogabalo, ma anche i nomi lapponi jau’la, jåvle, prestiti dal germanico, che indicano il ‘Natale’, preistorica festa del Sole. Un appellativo di San Zopìto di Loreto Aprutino (Pescara), il cui "strano" nome secondo me nasconde quello originario ben chiaro, almeno nel suo valore storico, di *Diu-piter, Iu-piter ‘Giove’, era proprio quello di Cavaliere. (Cfr. Pietro Maccallini, Meditazioni Linguistiche, Centro Studi Marsicani “U. Maria Palanza”, Avezzano-Aq , 2007, pp. 204 e segg.).
Il caddu de Santu Giuanne ‘libellula, mantide’ introduce secondo me la parola iana>gianna > Giuanne che indica una sorta di strega o fata del folclore sardo e che compare sporadicamente anche in qualche paese abruzzese (Cagnano Amiterno-Aq) confermando così l'esistenza di una isoglossa preistorica sardo-abruzzese 0 italico-sarda. Il termine iana, jana è fatto derivare solitamente dal nome della divinità Diana, ma io penso che non sia necessario sostenerlo, in quanto la radice ian, ion, iun, che deve essere alla base anche del Giuanne di cui sopra, ricorre a designare vari animali come la 'donnola', sempre nel sardo e nel dialetto del mio paese (Aielli-Aq) dove l’animale è (era) chiamato canuccë Sandë Iannë, o come il barba-gianni, noto in qualche paese anche col nome di Ian l’oli (cfr. Gian Luigi Beccaria, I nomi del mondo, Einaudi) o come addirittura nel ted. Johannis-käfer ‘lucciola, letter. coleottero di Giovanni’ in cui il termine torna ad indicare direttamente la ‘luce’, altra epifania dell’anima. Anche un nome sardo per ‘coccinella’, e cioè vacca de Santu Giuanne, ripete questa radice ian accanto all’animale vacca, la quale ricompare nel nome spagnolo della coccinella vaquita de San Antonio. Per questo insetto si incontra, nel sardo, anche la denominazione bacca de Deu (vacca di Dio) che rimanda, per il determinante, al caddu de Deu ‘libellula’ sopra citato e al francese bête à bon Dieu ‘coccinella’. Un altro nome per la ‘mantide’ è caddu de su dià-vulu: il determinante, con il suo primo membro, rinvia ai precedenti Deu o a zia Maria (‘coccinella’ nella Val di Non) e, per il secondo, al –bolos dell’epiteto eke-bolos di Apollo o a vola-vola, vola-b(b)entu, per ‘farfalla’ in sardo. E non bisogna credere che quest’ultimo nome sia dovuto originariamente al fatto che la farfalla ‘vola’ ma al suo essere ‘anima, vento’. Non per nulla, altro bel nome sardo per l’insetto è ispiritu ‘spirito’ come il greco psychée ‘spirito, anima’ ma anche ‘farfalla’. Pertanto in questo caso il termine dià-vulu va considerato, secondo me, come precristiano col significato generico di ‘animale, essere vivente’. Il caddu ferratu ’folletto’ è il non meglio identificato ‘spirito’ che nell’aggettivo richiama, però, il cabaddu de fradi ‘mantide, libellula’e il greco phorás, ádos ‘cavalla’ nonché il ted. Pferd ‘cavallo’. Caballito è il nome spagnolo della libellula e l’italiano cavallino è il nome volgare dell’idrometra. Altri nomi comuni per vari tipi di uccelli sono caval-iere d’Italia (diffuso, nonostante il nome, nelle regioni calde e temperate di tutto il mondo), cavall-onghia, cavalir-otta. Infine mi pare che l’abruzzese lucë-cappèlla ‘lucciola’ presenti un secondo membro che si avvicina molto a cavallo o, meglio, a lat. cap-ella ‘capretta’, cosa che non cambia nulla. Ora, io penso che il passaggio della stessa radice dal significato di ‘libellula’ a quello di ‘mantide’ a quello di ‘coccinella’, a quello di ‘donnola’, a quello di ‘barbagianni’ ecc. non sia dovuto affatto allo slittamento di significato come conseguenza di un inevitabile logoramento delle parole durante i secoli e millenni, ma mi pare che esso sia dovuto al fatto che fin da tempi lontanissimi quel concetto generico di ‘animale’, che ogni radice portava, andò a fissarsi su questo o quell’animale a seconda delle varie e piccole comunità di parlanti, prima del formarsi di compagini tribali più o meno grandi, che inevitabilmente avrebbero provocato un livellamento nel linguaggio, ma non fino al punto di eliminare ogni segno delle precedenti parlate. Sono proprio i nomi di questi animaletti minori, per così dire, che molto spesso mostrano singolarità di forme, rispetto ai nomi ufficiali, perché gli animali da essi designati erano in qualche modo al di fuori della vita quotidiana e comunitaria per quanto attiene al loro valore e alla loro importanza per la sopravvivenza e gli scambi commerciali, tutte cose che premevano per la formazione di termini comuni, attraverso anche il diffondersi di quelli della lingua dominante e l’eliminazione di quelli delle parlate subalterne. A conclusione di quanto sopra non posso non sostenere che anche la serie, ad esempio, di lat. cap-er ‘capro’, gr. káp-ros ‘cinghiale’, lat. cap-ella ‘ capretta’, lat. cab-allus ‘cavallo’, etr. capu ‘falco’, a.a.ted. hab-uh (ingl. haw-k) ‘falco’, ted. Hau-er ‘cinghiale’, sp. jab-alì ‘cinghiale’, sp. cab-aña ‘bestiame, gregge’, russo kab-àn ‘cinghiale’, sved. hoppe ‘cavalla’,ingl. hobby’cavallino di legno’ attinge alla identica radice (con varianti) cap-,cab-, cav-,cop-,cob- dal significato generico di ‘anima’. Anche l’inglese whale ’balena’ richiama, a me sembra chiaramente, il cavallo in quanto ‘animale’ attraverso la trafila di whale< a.a.ted. hwal<*kwal. Interessante è il nome del “tricheco’’, cacciato sicuramente dal Mesolitico, in area germanica: cfr. isl. hross-hvalur, ags. hors-hwæl, ted. Wal-ross, letter. ‘balena-cavallo’ o 'cavallo-cavallo'. Questo nome doveva indicare soltanto l’animale in ambo i costituenti, prima che essi si specializzassero ad indicare questo o quell’altro animale. In effetti il tricheco, se fosse valido il modo di nominazione metaforico, mi farebbe venire in mente più facilmente la mole di una ‘vacca’ o di un ‘toro’ che la snellezza di un ingl. horse ‘cavallo’, il quale, per soprammercato, etimologicamente viene ricondotto in genere al concetto di 'corsiero, corridore o saltatore', cosa che verrebbe qui sonoramente contraddetta dalla scarsissima agilità dell’animale. Non si esce fuori da simili assurdità se si rimane avvinghiati al significato specifico dei termini! La “vivacità” dell’ anima e della fiamma all’interno della densità semantica del termine cavallo, come del resto di tutti gli altri, rispunta nell’italiano dialettale cavalli ‘incotti’, nell’ingl. wheal<hweal ‘bolle dell’orticaria’ e nel lettone kvēle ‘infiammazione’.
3) Lepi-lepi, lepp-oreddu, ball-an-cau, ball-an-casu, bella-casu, pappa-casu, caba-casu, fola-casu, cola-casu, abba de casu ‘farfalla’. Queste denominazioni, insieme ad altre, per ‘farfalla’ ruotano quasi tutte intorno a casu ’cacio’, termine che ha svolto secondo me la stessa funzione del lume intorno a cui fatalmente la falena si mette a girare, attraendo a sé gli altri numerosi termini che altrimenti potevano anche andare perduti. Essi tendono a formare dei composti con significati che grosso modo potrebbero andare bene per indicare metaforicamente l’insetto che presenta il corpo e le ali ricoperte di scaglie sottili e soffici che potrebbero giustificare l’idea del ‘cacio (grattugiato)’, ma la denominazione ball-an-casu, ad esempio, sfugge ad ogni tentativo del genere. Potrebbe significare ‘balla nel cacio’ intendendo il membro –an- come la preposizione in, ma con quanta credibilità? Senonchè abbiamo visto più sopra che i membri ball-an- corrispondono esattamente al nome greco per ‘falena’ e l’intero nome deve essere costituito da elementi carichi sempre dello stesso significato di ‘animale’ e quindi di ‘farfalla’ o ‘volatile’. Il membro -casu mi sembra richiami il sscr. hasah ‘oca’, l’italiano regionale cas-ora ‘ballerina bianca’, cioè l’uccello il cui nome scientifico è motacilla alba e che è noto anche come cass-ola. C’entra qualcosa anche il ted. Hasel-huhn ‘francolino, letter. pollo dei noccioli’ uccello noto anche con l’altro nome ‘ron-caso’, nel quale rispunta il -casu sardo. Non ho nessun timore a chiamare in causa anche il ted. Hase ‘lepre’, dato che in sardo la farfalla non disdegna di fregiarsi del nome lepp-oreddu ‘leprotto’. Ma il vero valore del primo membro ce lo mostra il magiaro lep-ke ‘farfalla’ e il serbo-croato lep-tir ‘farfalla’, il cui secondo costituente richiama il ted. Tier ‘animale’. In bella-casu il primo membro è variante del primo di ball-an-casu. L’altro termine ball-an-cau presenta il sardo cau ‘gabbiano’ (lat. gavia). La ‘farfalla’ rientra anche nella categoria degli ‘uccelli’ come ebbi a scrivere a proposito di danese sommer-fugl ‘farfalla’ (letter. uccello dell’estate). La forma caba-casu mi pare contenere nel primo membro la stessa radice di lat.gavia , ma in sardo l’espressione potrebbe significare ‘scendi cacio’ dal verbo cabai ‘calare, scendere’; significati simili, che io definirei “di risulta”, mi pare si possano proporre per fola-casu e cola-casu che invece trovano posto in altri nomi di uccelli come, ad esempio, it. fol-aga e abruzzese colë ‘gazza’. Pappa-casu, espressione che ridurrebbe il leggero e delicato lepidottero ad un ingordo mangiatore di formaggio, ha a che vedere, come altri nomi per ‘farfalla’ quali pab-edda <*pap-ella, pap-ar-eddu, con il lat. pap-ilio ‘farfalla’, con russo bab-očka farfalla’, polacco bab-ka ‘cervo volante’, termini, gli ultimi due, che nelle rispettive lingue significano ‘nonnina’, alimentando così la convinzione che si tratti di nomi cosiddetti parentelari. In sardo la radice appare anche sotto le sembianze del ‘pipistrello’(pap-arottu) o di ‘rondone’(pabb-arrottu, babb-arrottu) con buona pace delle ‘pap-ere’. Dulcis in fundo l’elemento –casu richiama secondo me in maniera molto più diretta e profonda di quanto non sembri il "cacio" del pizoni di càsgiu ‘uccello di cacio’ di cui si è parlato a proposito di san Gavino e in cui esso significava l'animale che rappresentava, cioè il 'cavallo' o l' 'uccello'. Il concetto di ‘anima, spirito’ che esso qui mostra di avere per indicare la ‘farfalla’ è molto vicino, come abbiamo visto in altri casi, a quello di ‘fiamma, fuoco, sole, luce’ e l’appellativo di Zeus Kási-os sembra confermarlo.
4) Castru, crastu ‘ciottolo, sasso, macigno, roccia’. Quando ancora non ero venuto a conoscenza del vocabolario del Rubattu da cui ho tratto questi lemmi, in un mio commento dell’articolo del’illustre sardista Massimo Pittau sul toponimo Mamoiada, da me inviato a RIOn e pubblicato alle pp. 734-35 del numero VIII (2002),2, esprimevo la mia convinzione che il toponimo su Qastru relativo alla parte alta di Mamoiada dovesse provenire da qualche lingua di un passato più o meno remoto e significare proprio ‘monte, altura, roccia’ e non alludere alla presenza di un presidio romano nell’antichità . Io mi ero convinto di ciò in base alla ricorrenza, in Sardegna e altrove, di quel nome usato a designare monti e alture. Nella breve replica al mio commento l’illustre studioso probabilmente dimenticò, dato che la cosa non riguardava il nucleo centrale del mio commento, di farmi notare che quella mia supposizione corrispondeva a realtà, visto che quel nome faceva parte del lessico sardo. Questo fatto dimostra, a mio parere, che i toponimi, se letti nella maniera giusta, sono una fonte inesauribile di nomi che facevano parte del lessico di lingue del passato, ora scomparse.
Una osservazione di notevole peso è quella che collega la nozione di ‘masso, macigno, ciottolo, ecc.’ a quella di ‘rotondità’: un macigno, anche se molto irregolare nella forma, costituisce pur sempre una massa ‘rotondeggiante’: quest’idea serve a collegare le radici, per esempio, che designano le alture, i colli, a quelle che designano un oggetto rotondeggiante, qualunque ne sia la dimensione: non è un caso se ogni tanto nella toponomastica spunta un Monte Rotondo e finanche un Monte Cerchio in cui le specificazioni dovevano nel passato indicare solo il ‘monte’, senza alcun riferimento alla sua forma. Un monte è pur sempre più o meno rotondeggiante, anche il più aguzzo. Così stando le cose io non trovo nessuna difficoltà a collegare il sardo castru al lat. castrum il cui significato originario era proprio quello di ‘recinto’, una ‘rotondità’, dunque. Così si spiega anche il sardo logudorese caddinu<*cavallinu ‘cavallino, cerchio’. Come spunta questa nozione di ‘cerchio’ dalla stessa radice che designa il ‘cavallo’?: l’Italia è cosparsa di monti Cavallo, la cui radice, simile a quella di greco kephalée ‘testa’, evidentemente si prestava ad indicare anche il suo inverso, cioè la cav-ità o anche rotondità come avviene per il sardo conca ‘testa’ ma anche ‘caverna, grotta, madia, scodella, ecc.’. Fanno parte di questa famiglia di cavallo=cerchio anche il marsicano cuèlla, cuvèlla ‘ciambella di legno o di metallo per legare la soma al basto’ da connettere forse con ingl. wheel ‘ruota’<hweel<*kweel, variante della forma cavallo. Tra i tanti toponimi che confermano l’assunto cito solo Campo Cavallo, nel mio paese di Aielli, in corrispondenza di un’ampia ansa quasi perfettamente semicircolare che il Rio d’Aielli descrive in prossimità dell’alveo dell’ex lago Fucino e che doveva essere ben in risalto allorchè, nella preistoria, tutta la zona doveva essere coperta da alberi e gli uomini risalivano il corso del ruscello fino alle pendici del Sirente. Sul termine campo mi limito a ricordare la radice greca di kampée ‘curvatura, sinuosità di fiume,ecc.’ . D’altronde, più che un sentore di questo significato si riscontra, a mio parere, nel "cavallo dei pantaloni", ad esempio, o in "cavallino", curvatura longitudinale del ponte di una nave verso prua.
5) Cuccurum-eddu, cuccarum-eddu ‘fungo, capitombolo’. Il lemma mostra un’evidente somiglianza con l’aiellese cuchërómmë ‘ bernoccolo’, il che ci fa capire che dietro i due vocaboli opera la nozione più generica di ‘protuberanza, escrescenza’, non potendosi giustificare in alcun modo una derivazione diretta dell’uno dall’altro , la quale si presta ad apparire anche sotto la forma della ‘rotondità’, nel termine corradicale sardo cucc-ur-ile ‘cercine’ a sua volta legato, solo nel senso di ‘protuberanza’, al sardo cucc-uru, cucc-ur-uddu ’cima, punta’ nonché all’aiellese cuch-ër-uzzë ‘cima, punta’. Il termine sardo più frequente per ‘fungo’ è cug-um-eddu che presenta la stessa base cuc- dei nomi precedenti la quale dà origine, con varianti, anche a nomi più o meno dialettali per ‘cavità, recipienti’ quali cacc-amë, cucc-uma, cacc-av-ella e a greco kakk-ábee ‘marmitta’. Anche sardo cocc-on-eddu ‘ciambella’ e cug-urra ‘cappio, nodo’ sfruttano la stessa radice sotto la forma della ‘rotondità’. Va da sé che la nozione di ‘capitombolo’ di cuccurumeddu viene dal significato di ‘rotondità, rivolgimento’ che la radice, come abbiamo visto, può esprimere. I termini cocca ‘ciambella’, cocc-on-eddu d’isula ‘ dolci di pasta a forma di bastoncini semicurvi’, pane de s’isula ‘sorta di pane dolce fatto a cerchietti’ mi offrono la possibilità di considerare il lat. insula come una variante di ansula ‘piccolo anello, occhiello’, diminutivo di ansa, dietro cui doveva operare il concetto di ‘rotondità’ intesa come ‘protuberanza, monte’. L' isola, come io ho sempre sostenuto, nella mente dell’uomo onomaturgo appare come un ‘rilievo’ che si erge sulla distesa delle acque. Del resto anche il lat. insile ‘spola’ mi pare alluda alla nozione di ‘avvolgimento, bobina’.
A conclusione di questo articolo non vorrei parlare ancora una volta io ma, se possibile, far parlare le parole citate. Una cosa per me è chiara: la verità della Lingua giace ad appena qualche spanna sotto la superficie delle parole dove dorme i suoi sonni profondi perché, nonostante l’attività di studiosi di valore nel passato e nel presente, essi non sono mai arrivati purtroppo a comprendere l’estrema elasticità del ‘significato’, che va ben oltre il gioco del normale senso metaforico o figurato sconvolgendo tutti i loro schemi. Eppure una cosa è certa: la stragrande maggioranza delle radici analizzate dagli studiosi rimanda spesso a un significato più generico rispetto a quello di superficie, il che dovrebbe far pensare, anche in conseguenza di una ragione puramente statistica, che la marcia verso il generico debba continuare fino in fondo, dove la verità non mancherebbe di rivelare la semplice eppure sconvolgente realtà: la Natura opera meraviglie ricavando il massimo di varietà dal minimo di differenziazione iniziale, anche in altri campi come nella biologia, la quale ha scoperto le cosiddette cellule staminali, totipotenti ed indifferenziate, alla base di ogni organismo, anche il più complesso e differenziato del regno animale.
martedì 23 giugno 2009
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