giovedì 18 giugno 2009

Fonte della Vita e Fonte Vipera nel Parco Nazionale dei Sibillini, e i loro importanti riflessi nell'etimologia in generale.




La Fonte della Vita e la Fonte Vipera nell'area del Parco Nazionale dei monti Sibillini riconfermano l’enorme importanza che gli idronimi e i toponimi in genere rivestono per i loro riflessi notevoli nel campo dell’etimologia se essi vengono interpretati nel modo corretto; si può anzi asserire che nella misura in cui essi offrono la chiave per arrivare con rapida mossa alla radice di termini per i quali l’etimologia tradizionale si rivela insufficiente, impacciata, parziale, superficiale, complicata, o addirittura inesistente, costituiscono nel contempo anche una prova della giustezza del mio metodo di interpretazione.
Il nome Vita, che la fonte presenta, non può essere scaturito da una considerazione per così dire filosofica che avrebbe fatto presumibilmente colui o coloro che la chiamarono così per sottolinearne appunto la funzione di ‘datrice di vita’ a uomini o animali. Si può, invece, ragionevolmente sostenere che la denominazione non fosse altro che un normale nome comune per ‘fonte, acqua’ in uso presso qualche lingua di un’epoca più o meno lontana(cfr. il post L'acquavite). Perché, a ben riflettere, il significato di fonte è senz’altro estraibile da quello di ‘vita’, se si pon mente a tutto lo scaturire-gorgogliare-scorrere che caratterizza l’acqua di ogni sorgente e che dovette far balenare nella mente dell’uomo primitivo onomaturgo l’idea che si trattasse di nient’altro che delle manifestazioni concrete di un ‘essere vivente’, il quale d’altronde poteva presentarsi anche sotto le spoglie di una divinità, solitamente espressione delle forze della natura, come testimoniano le molte ninfe protettrici delle fonti ancora ai tempi di Roma antica. A mio avviso quell’uomo dei primordi non poteva che considerare entro quest’ottica non solo l’acqua e le forme vegetali ed animali della Natura, ma anche i colli, i monti, le rocce e tutte le restanti cose del mondo inorganico che verosimilmente colpivano la sua mente almeno con la forza della loro ‘presenza’ ed ‘esistenza’, cioè con la propria ‘vita’, concetto che, con le sue varianti, si ritrova nel fondo di ogni termine come cercherò di spiegare fra poco.
La Fonte della Vita richiama le molte Fonti Vive disseminate sul suolo italiano le quali ci ingannano anch’esse con quel falso aggettivo fatto apposta per confondere le idee: esso doveva essere in realtà un sostantivo, sempre in qualche lingua del lontano passato, il quale doveva indicare l’ 'acqua' o la 'fonte' per lo stesso motivo per cui la indicava la parola ‘vita’. Si trattava comunque di lingue molto affini almeno relativamente al modo di esprimere il concetto di ‘'fonte'’. Fenomeno molto più interessante è invece quello di lingue, affini anch’esse, ma solo nel senso che usavano talvolta gli stessi termini (significanti) sebbene con significati specifici ben differenziati tra loro, tanto da non essere a prima vista riannodabili insieme. Ciò si può riscontrare nel fatto che, non appena si oltrepassano i confini nazionali, si incontrano in area germanica idronimi come Weiben-bach ‘rio della Donna’ o Weibers-brunnen ‘fonte delle Donne’, i quali in superficie ostentano il termine neutro das Weib ‘la donna, moglie’(originariamente wib, wip) che per la verità è solo un paravento atto a nascondere il sottostante nome molto simile al lat. viv-us, un perfetto contenitore, insomma, per chiudervi ermeticamente il significato dell’originaria radice idronimica. Può sembrare banale e semplicistico dire che il collante tra i due concetti, quello in superficie e quello in profondità, è nient’altro che la ‘vitalità’, anche se non si può certamente negare che una donna sia un ‘essere vivente’; ma, quello che più conta in queste cose, possiamo nel contempo anche dimostrare che la lingua usava all’origine quella radice proprio nel senso di ‘essere vivente’, in riferimento alla ‘donna’.
Si sa infatti che in inglese il termine per donna è wo-man, in antico inglese wif-man, termine che evidenzia una prima componente wif-, rispondente all’ingl. wife ‘moglie’, ted. Weib ‘donna, moglie’ di cui si è parlato, e una seconda componente man ‘uomo’. L’antico termine per ‘uomo’ nel senso di ‘maschio adulto’ era in inglese waep-man , la cui prima componente è intesa come weapon ‘arma’ per cui l’uomo sarebbe ‘quello che porta le armi’, definizione di comodo, a mio parere, per chi non è arrivato a capire che questi composti all’origine erano tautologici. Per di più anche ad un occhio poco esperto balza evidente la parentela tra waep- e wif- , il quale proviene da un wip, e pertanto il fatto merita una riflessione più profonda. In antico inglese il termine man aveva un valore generico di ‘essere umano’ compresa la donna, tanto è vero che esso veniva riferito anche a donne, come risulta da documentazioni varie. Pertanto una spiegazione di wif-man come ‘moglie dell’uomo’ non può essere accettata per due motivi: primo, perché il meccanismo dei nomi composti germanici stabilisce tassativamente che la prima componente wif- debba fungere da aggettivo e da determinante e che la seconda componente –man sia invece un sostantivo e funga da determinato, sicchè il significato dovrebbe essere rovesciato in ‘marito, uomo della donna’; ma in ambedue i casi si ha comunque una forzatura, considerato che in antico inglese –man aveva un valore assolutamente generico di ‘essere umano’; secondo, date queste concrete difficoltà ed incertezze, si è indotti a credere che qui siamo dinanzi a un composto tautologico con identico significato di ‘essere vivente’ nei suoi due elementi come succede, ad esempio, nel caso di ted. Gockel-hahn ‘gallo’ e in tanti altri, le cui due componenti, separatamente, significano sempre ‘gallo’. Questi composti, poco studiati a quanto pare, sono la spia secondo me di una fase della lingua antecedente a quella dei composti germanici di cui abbiamo detto. Naturalmente ad individuare il significato di ‘essere vivente’ nella prima componente ci dà una valida mano la serie degli idronimi suddetti. Sin da tempi remoti era successo, a quanto pare, che le due varianti waep-man e wif-man, che dovevano indicare originariamente solo l’essere umano in generale, erano servite a stabilire una utile differenza di significato tra di loro passando ad indicare l’una il ‘maschio adulto’ e l’altra la ‘donna’, forse perché il termine wife, per conto suo, era già passato ad indicare la ‘donna’, influenzando così il significato del relativo composto. Una volta conclusa questa operazione potè avviarsi l’altra riguardante la caduta in desuetudine del composto waep-man ‘maschio adulto’ che potè essere sostituito dal più agile man , il quale nell’opposizione man/woman restrinse sempre più il suo significato generico di ‘essere umano’ per assumere quello di ‘maschio adulto’. Oggi infatti nessuno userebbe più man riferendolo ad una donna, come avveniva normalmente nell’antico inglese. Io credo peraltro che anche il racconto biblico della nascita di Eva da una costola di Adamo possa essere stato suggerito dalla identità della radice dei rispettivi nomi ebraici per ‘uomo’ (ish) e per ‘donna’ (ishah) i quali, pertanto, dovevano all’origine designare solo l’essere umano in generale. La “vitalità” della radice di waep- è a mio parere confermata dal ted. web-en, verbo che oltre a ‘tessere’ significa anche ‘muoversi, agire, vivere, alitare’ e dall’ant. alto tedesco wif-an ‘oscillare, avvolgere’, ingl. wipe ‘strofinare’.
L’etimo di man allude allo ‘spirito’ dell’essere umano, giacchè anche il lat. mentem ‘mente, animo’ rientra nell’ambito delle sue connessioni vastamente diffuse in ambito indoeuropeo. Questa "spiritualità'’ sta dietro ogni termine per ‘animale, vegetale’ ma anche dietro tutte le parole che definiscono le forme del mondo fisico giacchè queste dovettero imporsi, come sostenevo più sopra, alla mente dell’uomo onomaturgo perlomeno per la loro "esistenza" e per la loro "pre-senza", termine quest’ultimo che etimologicamente indica, appunto, un ‘essere, trovarsi dinanzi’.
Non dobbiamo pertanto continuare a tenere le orecchie ben tappate dinanzi al grido possente che sale verso di noi dalle varie ‘forze’ della Natura che l’uomo delle origini unificò semanticamente: ne differenziò gli involucri sonori (i significanti) con cui le pronunciava introducendo così quello che fu il virus della diversità anche nei singoli concetti da essi rappresentati, virus necessario invero alla comunicazione e alla catalogazione ordinata delle varie realtà del mondo , le quali restano pur tuttavia irrimediabilmente segnate dall’unica idea primigenia che l’uomo fu in grado di elaborare nella sua mente, quella della ‘vita, forza, movimento, esistenza, essere’, un’idea così generica da risultare indefinibile e da contenere tutte le restanti le quali peraltro non continuano a sussistere che come suoi cloni, suoi ben mascherati fantasmi al di là della loro voglia di specializzazione. E’ successo che l’uomo ha rappresentato la ‘fiamma’, ad esempio, con lo stesso concetto generico di ‘impeto,vita’ con cui poteva indicare contemporaneamente, ed effettivamente indicò, altre realtà come ‘l’acqua’ (cfr siciliano favàra 'sorgente, getto d'acqua o di fiamma' ); solo che noi, ora, dopo decine di migliaia di anni, andato ormai perduto per la coscienza del parlante quel significato generico di fondo, crediamo che ogni singolo termine sia portatore di un singolo concetto specifico e non ci rendiamo conto che quest’ultimo è invece soltanto la conseguenza dell’abitudine a collegare costantemente quell’unico significato generico, espresso con una sequenza particolare di suoni, ad un singolo referente con determinate caratteristiche proprie. Le quali fatalmente tendono, quindi, a svolgere la parte del leone, imprimendo il proprio marchio all’interno del "concetto" (il quale a rigore non combacia effettivamente con esse ma ne è semmai un simbolo), e producendo la inevitabile specializzazione di quel nucleo aurorale del pensiero, divenuto nel frattempo opaco alla coscienza del parlante. La quale viene ad essere così surrettiziamente invasa e sommersa dalle caratteristiche proprie del referente, come se fossero state proprio queste, e non la sua sola identità di “essere(vivente)”, a plasmarne il concetto ab origine. L’abitudine poi a sottilizzare distinguere separare, esercitata per decine di millenni, ci rende difficilissima l’accettazione di quella che sembra essere la nuda verità, cioè la riduzione dei numerosi concetti del linguaggio alla loro unità originaria. E proprio questo fatto, cioè il tenere ben legato sempre lo stesso significato generico ad ogni suono che riusciva a produrre e a usare simbolicamente, liberava l’uomo dall’enorme e difficilmente evitabile imbarazzo che sarebbe risultato invece dalla ipotetica necessità di dover scegliere per ogni referente da denominare non solo i suoni adatti a rappresentarlo ma anche e soprattutto le caratteristiche più proprie dell’oggetto da abbinare a quei suoni. Se si fosse dovuto cercare il nome acconcio per un albero, ad esempio, di che cosa sarebbe stato necessario tener conto? Del suo tronco più o meno liscio, più o meno slanciato, più o meno robusto, della sua sagoma variamente strutturata, delle sue foglie variamente disegnate, dello stormire delle stesse, dei suoi fiori più o meno sgargianti, ammesso e non concesso che esistessero già dei nomi per queste caratteristiche e non per l’albero nel suo complesso? Ne sarebbe derivato un letterale gran bailamme di incertezze paralizzanti, tentativi monchi, tentennamenti continui, e una tale disparità di vedute tra gli uomini (ammesso e non concesso che avessero potuto scambiarsele prima dell’invenzione del linguaggio) da far rinunciare all’impresa. Invece quel significato genericissimo legato preventivamente ad ogni suono, metteva l’uomo nella comoda situazione di sbarazzarsi di tutto ciò, dato che così un suono finiva con l’equivalere all’altro. Questo meccanismo faceva superare in qualche modo anche la cosiddetta arbitrarietà di ogni segno linguistico, imbarazzante anch’essa, la condizione cioè per cui nella lingua ogni significante appare completamente scollegato dal suo significato (cfr. ad esempio, la irriducibilità vicendevole di ingl. tree ‘albero’, ted. Baum ‘albero’, greco déndron ‘albero’, lat.arbor ‘albero’, ecc.) , tanto da apparire completamente immotivato. In realtà un originario legame tra significante e significato c’era stato, legame che aveva fatto sì che ogni parola si ritrovasse la sua brava, sebbene uniforme, motivazione (cioè quella della 'forza,vita, movimento') che la liberava, appunto, da quello sconcerto che tuttora suscita l'arbitrarietà del segno. Riprendendo l’analisi della radice idronimica vita della Fonte della Vita ci accorgiamo che essa deve aver dato in area germanica idronimi come Weiden-bach ‘rio (-bach) dei salici (Weiden-)’ oppure Weiden-brunnen ‘fonte (brunnen) dei salici’, termini la cui prima componente in antico germanico suonava wit, corrispondente al greco (w)itéa ‘salice’. Ora, i linguisti connettono questa parola, insieme al lat. vi-men ‘vimine’e al lat. vit-is ‘vite’, alla base del verbo latino vi-ere ‘piegare, intrecciare’ in riferimento all’antica arte di produrre utensili vari con questo materiale flessibile, e si sentono così definitivamente appagati. Questa spiegazione, apparentemente accettabile, taglierebbe però le gambe alla mia convinzione che, invece, sotto quel termine per ‘salice’ sonnecchi il significato di ‘vita’. Perché i linguisti credono che la motivazione della nominazione sia da attribuire a caratteristiche particolari del referente designato, come la ‘flessibilità’ in questo caso, mentre il mio fiuto e le mie constatazioni mi spingono a sostenere che la motivazione, per ogni parola, trova la sua pace definitiva in quel concetto generico di fondo di cui andiamo ragionando. Si tratta in effetti di due visioni non poco, ma molto diverse fra loro che quindi sfociano in risultati altrettanto diversi: la mia visione collega ad amplissimo raggio un numero grandissimo di concetti, rispondendo così ad uno dei requisiti indispensabili per la validità di ogni teoria; quella dei linguisti invece limita di molto la possibilità di vaste connessioni, tendendo fatalmente quasi sempre a restringere i significati di una radice, perché essi sono vittima di quel forte pregiudizio secondo cui ogni radice è deputata ab origine a rappresentare solo alcuni significati e non potenzialmente tutti. Dovrebbe essere però già motivo di riflessione il notare come, nella stragrande maggioranza dei casi, l'etimo di una parola che va a ritroso nel tempo allarghi , anche di molto, il suo significato di superficie.
Pertanto bisogna, a mio avviso, scorgere dietro il termine Weide ‘salice’ l’antico alto germanico witu ‘bosco’, l’antico norreno vithr ‘albero, bosco’, il valsuganotto vedèlo (da un lat. *vit-ellus)’ anima dell’albero’ ecc., termini che sono varianti dell’ingl. wood ‘legno, bosco’. La radice in questione, inoltre, mi pare variante di quella alla base di gr. phýt-on ‘vegetale, albero, figlio, tumore’, e di greco phíty ‘ germe, germoglio, pollone,ecc.’, cioè quella del verbo phý-o ‘ generare, nascere, essere, ecc.’ che assume svariati significati astratti e concreti nel sostantivo phý-sis ‘natura, creatura, essere animato, mente, animo, indole ecc.’, significati ruotanti intorno al concetto di ‘vita, essere vivente’, insomma. Io non disdegnerei nemmeno di inserire nell’ambito di questa radice (e di sue varianti) dai significati ‘produttivi e procreativi’ anche il lat. fe-cundum ‘fecondo’, lat. fe-tus ‘ generazione, produzione, figlio, feto, ecc,’, lat. fu-turum ‘futuro’, lo stesso lat.fi-lium ‘figlio (cfr. gr. phy- ‘stirpe, generazione’, gr. phylía ‘olivo selvatico’, gr. phýlla ‘foglie, piante’)’ nonché il lat. fe-mina ‘donna, femmina’ che, nella seconda componente -mina, dovrebbe richiamare il man ‘uomo, essere vivente’ di cui si è parlato. Anche l’etimo di lat. vi-vus ‘vivo’ mi sembra un risultato del raddoppiamento o ampliamento di questa stessa radice o di sua variante che ritorna ancora nell’altra variante costituita dal gr. -os ‘vita’ e dal gr. -a ‘forza’. Saltano in aria così le connessioni canoniche stabilite dai linguisti per questi termini. Per di più dietro le note espressioni perifrastiche epiche quali bíe Priámoio, bíe Patrókloio, ecc. è da scorgere, almeno agli inizi, più che la ‘forza’ dei rispettivi personaggi, la loro ‘vita’ e il loro ‘essere’ come nelle equivalenti circonlocuzioni del tipo ménos Alkínoio ‘la possa di Alcinoo’, i.e. la persona di Alcinoo o semplicemente Alcinoo . E non certamente per caso il gr. ménos ‘forza, spirito, vita’ è variante del precedente ingl. man ‘uomo’. E allora, tornando a Weide ‘salice’, bisogna dedurre che il più antico significato del dendronimo fosse quello di ‘albero, vegetale’ , e che la lingua ha solo approfittato, strada facendo, dell’incrocio con la radice del lat. vi-ere ‘piegare’ per restringerne il significato generico di ‘albero’ a quello particolare di ‘salice’, come è avvenuto per il lat. vit-ex ‘vetrice (letterario per ‘salice’)’, attuando così quella specializzazione che è necessaria ad una sempre più precisa e agevole comunicazione tra gli uomini. Il lat. robur, ad esempio, significava contemporaneamente sia ‘forza’ che ‘rovere’. A questo punto balza evidente ai nostri occhi che il collegamento tra il concetto di ‘albero’ e quello di ‘fonte’, espresso dalla radice vita, passa attraverso il comune concetto intermedio di ‘essere vivente’.
Lo stesso ragionamento deve continuare a guidare la spiegazione del verbo tedesco weiden ‘pascolare’ che a mio avviso sfrutta lo stesso significato di base, quello di ‘dare vita, nutrire, alimentare’. Non è un caso se il nome di una nutrice di Zeus era Ite <(W)ite nota anche come Ida, termini che oltretutto si erano incrociati anche con altri dello stesso valore di 'luminosità' espresso dalla radice di Zeus. In questo modo, parole che sembravano vicendevolmente estranee nonostante l’identità del significante, scoprono invece la loro parentela dovuta a un ancestrale progenitore semantico. Non credo sia solo un puro caso se nel gaelico di Scozia il termine bethu significa ‘vita’ mentre in celtico significa ‘betulla’. Del resto, se si aguzza l’ingegno, si riesce a capire che anche l’ingl. wide ‘ampio, grande, esteso’ promana dalla stessa idea di ‘nutrire, crescere, ingrandire’ di cui sopra, la quale si sposa anche con l’idea di invecchiamento del lat. vetus ‘vecchio’, allo stesso modo in cui il ted. alt ‘vecchio’ si lega al lat. altum ‘alto’, dal verbo al-ere ’alimentare, crescere’. L’accostamento usuale del termine vetus al greco (w)etos ‘anno’ mi pare legittimo sulla base dell’idea di ‘durata, lunghezza’ compresa nella radice. Invece l’altro usuale accostamento del termine al lat. vit-ulus ’vitello (di un anno)’ è secondo me errato solo perché non individua l’idea di ‘vita, anima, animale, vegetale’ che sta dietro al termine, in questo caso, come fa capire il lat. vitula-men ‘ germogli’ e la lunga serie di termini che in varie lingue possono indicare contemporaneamente un animale (o essere vivente), in genere giovane, da una parte e un vegetale dall’altra. Nella campagna di Sigillo (Perugia) si incontrano due fonti, quella dei Vitelli e quella Vecchia, a breve distanza l’una dall’altra, che sintetizzano quanto detto sopra. I loro nomi, similissimi, non alludono né ai “vitelli” (lat. vit-ellus, vit-ulus) né alla “vecchiezza” (it. ‘vecchio’ proviene dal lat. vet-(u)lus), ma semplicemente al concetto di ‘vita’ e di ‘acqua, fonte’. Ma c’è da giurare che tutti questi significati divergenti in superficie vanno a riannodarsi in un punto iniziale, anche se lontano, nella preistoria. E i ‘vitelli’ si trasformano in qualcosa di imprecisato per la lingua tedesca nel corso d’acqua chiamato Wittels-bach, in Germania. Infine, che nel concetto di “vita” sia nascosto anche quello di ‘durata, vecchiezza’ lo si può capire anche dal significato di lat. viv-ax ‘di lunga durata, vivace’, lat. vivacitas ‘longevità, vecchiaia, vivacità’, termini che in italiano si sono specializzati ritenendo solo i significati 'vivace, vivacità'. Da ricordare il Fiume Vecchio (Corsica), Torrente Fiume Vecchio (Montereale Aq.) e i vari Rio Vecchio.
Anche la Fonte Vipera ci costringe a metterne a fuoco meglio l’etimo che concordemente i linguisti propongono, quello che considera il lat. vipera una forma contratta di *vivi-pera>tardo lat. vivi-para ‘che partorisce i nati vivi’. A parte l’insostenibilità di questa tipica definizione da vocabolario che nulla ha che fare con la tendenza primigenia della lingua ad indicare direttamente, anche se genericamente, le cose, mi pare che vipera possa essere accostata sia per la forma che per il significato al lat. viv-erra ‘furetto’, termine che più scopertamente rimanda, a mio avviso, alla base di lat. vivus ‘vivo’ per indicare un ‘essere vivente’. Ed ‘essere vivente’ dovette essere considerata la fonte dei monti Sibillini che ancora porta il nome Vipera. Anche in questo caso il tardo lat. vivi-parus ‘viviparo’, che comunque poteva esistere, benchè non attestato, anche in epoche precedenti, una volta incrociatosi col il termine vipera, inizialmente solo ‘essere vivente’, avrà determinato il suo restringersi al solo significato di ‘vipera’, dato che questo animale è appunto ‘viviparo’. Ma non sarebbe nemmeno da scartare l’ipotesi che il significato di ‘viviparo’ si sia incrociato con quello di ‘essere vivente, animale’ o che ne sia uno sviluppo successivo, se si riflette un po’ sui due componenti di lat. viti-parra ‘cardellino’, vicinissimo formalmente a lat. vivi-parus: il primo componente rientra nel concetto di ‘vita’o di ‘piantina della vite’ che è sempre una ‘vita’ , il secondo corrisponde a lat. parra ‘uccello notturno’, evidente specializzazione, allora, di un significato precedente di ‘uccello, essere vivente’.
Non è certo un caso, inoltre, se sempre sui Sibillini si incontra una bella Fonte Freve, voce dialettale per l’it. febbre dal lat. febr-im, richiamata da molti idronimi come Fonte della Febbre (Pescaseroli-Aq), Torrente Febbr-aro (Val Chiavenna), Fieber-brunn 'Fonte della Febbre', città dell'Austria, Fiume Bévéra in Francia, ecc. Il nome mi pare molto simile, strutturalmente, a quello di vipera e pertanto può essere considerato una sua variante, se non addirittura una reinterpretazione di un originario *fib(e)ra, variante di lat. febr-im. La motivazione del concetto di 'febbre' deve cercarsi, a mio avviso, nel 'calore' che essa sviluppa, il quale, come abbiamo visto sopra per torr-ente, una delle tante manifestazioni della 'vita' e dei concetti simili all'origina del linguaggio. E' quasi superfluo ricordare il lat. fibr-um 'castoro', il ted. Biber 'castoro', degni rappresentanti dell'idea di 'vita, animale'. Il lat. vibr-are ' vibrare, scuotere, scintillare' credo sia ancora una volta un concentrato di 'forza, emanazione (luminosa e sonora), movimento (intenso e palpitante)'. Il guaio della linguistica è quello di andare, invece, alla ricerca di significati particolari alla base delle parole, come dicevo prima, e infatti qualcuno individua una radice dal significato di 'tremito' all'origine del concetto di 'febbre', passando sopra a queste constatazioni che vanno in tutt'altra direzione, ad aprire un ventaglio di significati molto più generici includenti magari anche quello di 'tremito'. Interessante in questo senso è l'etimo del paese di Bitti (sardo Vithi) nel nuorese che Pittau individua nel sardo bitta (anche bette, bittara, bittera) 'agnello, cerbiatto, capriolo, muflone, daino' ma che, secondo me, deve fare i conti con la fontana su Cantaru (la Fonte) all'interno del paese , dove, secondo la tradizione sarebbe stata uccisa una cerva mentre vi si abbeverava. Anche in questo caso, come per Mamoiada, il nome originario della fonte, la quale è ora significativamente indicata solo dall'appellativo generico, dovette passare inavvertitamente a quello del nucleo abitato che vi sorse intorno. Bitti, Vithi sarebbero così nient'altro che il corrispettivo preistorico sardiano del lat. vita o anche del lat. vitis 'vite', che è un'altra forma di 'vita', nel significato però di 'acqua, fonte' (cfr. le numerose Fonti San Vito) come ho spiegato prima. Questa strettissima connessione tra il concetto di vita e quello di acqua emerge chiarissimamente anche da un rituale relativo alla festa di San Giovanni Battista, che si tiene a Castellafiume-Aq., il 24 giugno. In questa occasione gli abitanti del paese marsicano si recavano, fino a non molti decenni fa, al fiume Liri con secchi e conche di rame per riempirle d'acqua e vitali ( è questo il nome dialettale della vitalba), pianta con le cui foglie poi le donne si ornavano le chiome e gli uomini i padiglioni degli orecchi. Che cosa potremmo chiedere di più dal mito o da queste tradizioni? che ci afferrino veramente per gli orecchi e ci costringano a gridare tutta la nostra distrazione e scarsezza di lume interpretativo? I vocaboli in questione non appartenevano quindi al solo latino, come siamo abituati a credere, bensì ad una vastissima isoglossa il cui ambito travalicava abbondantemente quello della penisola italiana con significati magari diversi ma tutti diramanti da un unico ceppo semantico da cui scaturirono anche quelli riferiti agli animali di cui sopra. Attraente, a questo punto, è la spiegazione del problematico termine latino bidens 'pecora (di due anni?)' come risultante da due radici per 'essere vivente'(bid-ente) di cui la prima sarebbe adattamento di quella in questione vit-. E' assurdo presumere infatti che il lessico di una determinata lingua sia il prodotto esclusivo e genuino del popolo che storicamente ne fa uso: a parte la questione dei prestiti che in ogni tempo passano da una lingua all'altra, bisogna a mio avviso tenere sempre presente il fatto che ogni parola affonda le sue radici nello spesso sostrato preistorico e che pertanto è presumibile che esse si siano talmente diffuse e confuse da ritrovarsi anche lì dove pensiamo che non dovrebbero essere, e magari con un significato anche molto diverso, per i motivi di cui si parlava. E' semplicemente stupefacente notare come la semplice lettura dei toponimi, coadiuvata dai racconti tradizionali ripuliti dalle incrostazioni culturali accumulatesi nel tempo, sveli la meravigliosa verità sui loro significati. Tutta l'operazione è troppo semplice ed elegante per poter apparire artificiosa o falsa, così come capita a quelle teorie scientifiche che, come d'incanto, semplificano ciò che precedentemente era apparso più o meno complesso e inestricabile. Anche in toponomastica e nella linguistica in genere ogni teoria che lavori su significati piuttosto ristretti delle radici, per paura di sconfinare e di perdere il marchio di una presunta "scientificità", e non tenga conto delle solitamente abbondanti varianti delle stesse, penso sia destinata, prima o poi, alla sterilità e al fallimento. Nell'opuscoletto Omero sotto il velame pubblicato nel 1994 asserivo che i fatti linguistici "vengono di solito inseriti in schemi teorici troppo ristretti contro cui cozzano dati empirici incontestabili" e riportavo anche le parole di A. Einstein secondo cui una teoria non deve contraddire i fatti empirici ( come potrebb essere il caso, ad esempio, di quella che interpreta le numerose Fonti Secche o l'it. torr-ente rimanendo sostanzialmente sulla superficie dei termini e non individuando per essi un valore originario idronimico ) ed essa " è tanto più convincente quanto più semplici sono le sue premesse, quanto più varie sono le cose che collega, quanto più esteso è il suo campo di applicazione", tutte condizioni che vengono soddisfatte nella mia teoria, per la semplicità assoluta del significato generico di fondo, unico per tutte le radici, e per l'amplissimo raggio del significato con cui connetto di conseguenza i concetti più diversi tra loro nell'ambito di ogni lingua. L’illustre neuroscienziato cognitivo americano Douglas Hofstadter, autore di libri di successo in cui tratta problemi relativi all’attività del cervello, alla creatività e al pensiero analogico, ha giudicato il mio libro Meditazioni Linguistiche (Grafiche Di Censo, Avezzano, 2007) “molto stimolante e provocatorio”: non sarà forse un caso se sono proprio questi uomini dalla vasta preparazione scientifica e dalle vedute non convenzionali a mostrare per lo meno interesse alle mie riflessioni sulla Lingua. Anche due studiosi italiani, Anna Oliverio Ferraris e Alberto Oliveiro dell’università di Roma “La Sapienza”, in una traccia intitolata Corpo, cervello e linguaggio di una relazione presentata al X Congresso nazionale GISCEL, Ischia 2000, e presente in rete, insistono sull’importanza del rapporto tra movimento e cervello, quel movimento che io pongo alla base di ogni concetto.
Se la glottologia continua, pertanto, a restare imbottigliata nelle strettoie invalicabili in cui si è cacciata con le proprie mani, potrebbero passare ancora secoli prima che questa visione della Lingua, che pure mi pare funzioni più naturalmente e più adeguatamente delle altre, prenda piede e diventi patrimonio comune.

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